I discorsi sui conflitti di civiltà sono stati colti di sorpresa. L’Islamofobia agitata per nascondere le difficoltà economiche dell’Occidente nella globalizzazione si fondava sull’idea che i paesi a maggioranza musulmana fossero incapaci di modernizzazione, l’ideologia su cui si basava l’assetto ideologico del Medio Oriente era legata ad una stabilità apparente, artificiosa, incapace di concepire le dinamiche del progresso. Chi conosce, non in superficialità, il mondo arabo, non è stato preso in contropiede dagli eventi di questi giorni. I segnali vi erano da tempo ed erano significativi. Ibn Khaldun, storico e sociologo arabo del XV secolo, scriveva nelle sue Muqaddima (Introduzione) che “non c’è un popolo che non ami essere sottomesso più di quello arabo”. Si riapre la questione dell’universalità della democrazia, già posta all’epoca della rinascita araba alla fine del XIX secolo e soprattutto tra gli Anni Trenta e Cinquanta del XX secolo. Il crollo della natalità e la crescente alfabetizzazione hanno fatto il resto. Lo stesso fenomeno emigratorio, pur con i limiti di una ricerca inconscia dell’appartenenza lontano dal’ambiente originario, ha rappresentato un elemento di spinta. Paradossalmente l’esigenza del nuovo viene dalla riaffermazione di principi che la civiltà liberale europea ebbe modo di trasmettere alle società arabe proprio nel periodo coloniale. Il congresso panarabo di Bruxelles del 1938, convocato su iniziativa di arabi cristiani nel nome delle idee di libertà e democrazia, restò un capitolo incompiuto. Lo spirito di libertà e di giustizia sembra oggi tornare a soffiare. Questo è il senso dell’attuale rivoluzione araba.
Casalino Pierluigi, 9.03.2011.