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giovedì 24 novembre 2011

Miro Renzaglia "UN ALTRO LINGUAGGIO È POSSIBILE-POEMA CORALE" *from Fondo Magazine

Il testo di Miro Renzaglia che segue è contenuto nel Libro-Manifesto "Per una nuova oggettività. Popolo, partecipazione, destino" curato da Sandro Giovannini per la Heliopolis Edizioni.  http://www.mirorenzaglia.org/2011/10/manifesto-heliopolis-poema-corale/

UN ALTRO LINGUAGGIO È POSSIBILE
POEMA CORALE
miro renzaglia


Bisogna avere il coraggio di Sandro Giovannini per credere ancora che un manifesto, benché centrato su pochi, condivisibili punti, abbia capacità di chiamata a raccolta. L'ho detto in una riunione preparatoria a Roma: punti programmatici a parte, compulsate i testi dei convenuti qui e se trovate solo due persone che siano completamente d'accordo con gli altri, magari anche con UN solo altro, pagherò la cena ai due fortunati. Il fatto è che le parole sono trappole e già metterne in fila due che non moltiplichino la trappola per "n" possibilità di equivoco sarebbe un successo enorme. Se, come sosteneva Heidegger, il linguaggio è la casa dell'essere, ormai l'essere è in moltiplicazione geometrica rispetto ai suoi esponenti. Da qui, ogni fraintendimento, ogni equivoco è possibile. Anzi: è certo.
Soluzioni ce ne sono due: o si riesce a ridurre questa moltiplicazione ad unicum, o a koiné se preferite, dove a unica parola corrisponde unico significato, il che allo stato attuale delle cose mi sembra francamente irrealizzabile o, come a me sembra sia più praticabile in età postmoderna, si cavalca il plurimo fino alle estreme conseguenze. Anche a rischio della totale incomunicabilità. Comunque, a quel punto (dell'incomunicabilità totale) il quadro sarebbe senz'altro più chiaro di oggi. E per arrivare a tanto, io non conosco altra strada che quella della poesia.
Accettando il dato postmoderno, come io auspico, il linguaggio poetico assume o ri-assume ogni possibile grado di conoscenza producendo mondi in continua variazione rappresentativa. Non c'è neanche più bisogno di distinguere istanza da istanza, campo semiologico da campo semiologico: la relatività della riproduzione annulla la necessità di determinarsi come verità extralinguistica. Ovviamente, per arrivare a tanto, servono strumenti appropriati. Vediamone qualcuno.
Dunque, io vengo dall'esperienza poetica del Vertex, nata, anche quella, da una genialata di Sandro Giovannini. Detto en passant: un giorno, con molta probabilità, qualcuno si degnerà di esplorare quella incredibile miniera di sussulti poetici, culturali, politici e meta politici che il Vertex fu. Non possiamo essere noi, i partecipanti a quell'avventura, a farlo. Ma tempo verrà. Nel frattempo, però, quell'esperienza torna estremamente utile per quello che voglio proporre. Utile in quanto fra il molto che propose, sperimentò il "poema corale".
Per i non conoscitori della storia del Vertex e di conseguenza, di questo strumento allora congegnato, riassumerò brevemente di cosa si tratta. Stabilito collegialmente un tema oggetto dello scrivere, i partecipanti all'opera scrittoria producevano dei testi che confluivano, sotto la regia di un coordinatore precedentemente designato, in un macrotesto. Il macrotesto, messo a punto dal coordinatore in bozza non finale, veniva riposto ai singoli per eventuali eccezioni e modifiche. Accolte o respinte queste ultime, si arrivava alla stesura definitiva. L'esperimento ha prodotto dei testi, probabilmente non eccelsi dal punto di vista squisitamente letterario, ma quello che valeva era il metodo.
Chiariamo subito una cosa: pur riconoscendone l'ascendenza, il "poema corale" aveva poco a che vedere con l'antesignano surrealismo dei "cadere exquis": nel nostro caso, non c'era scrittura automatica né raccordo immediato fra gli autori. Pur essendoci una preparazione corale all'argomento, ognuno era poi libero di produrre il proprio testo secondo proprie a attitudini, propri canoni stilistici, e tempi di elaborazione necessari. L'esercizio di controllo critico individuale sul materiale proposto individualmente, quindi, restava assolutamente intatto, fino all'assemblaggio finale, per poi scomparire a edificio completato.
E quello che si inverava, allora, era ciò che il metodo stesso sottintende: il superamento dell'opera-io verso l'opera-noi. Un'opera, cioè che superasse la finitudine narcisista dell'autore individuale e sconfinasse verso l'a-nonimia impersonale. Il linguaggio "finale" non risultava più una somma dei singoli testi ma qualcosa d'altro rispetto alle proposte individuali. E da qui al superamento del linguaggio de-finito nelle sue conclusioni coerenti in quanto dogmatiche e dogmatiche in quanto coerenti, come è avvenuto dalle origini della letteratura fino alla modernità inclusa, il passo è breve e consequenziale. Se pensate che la prima teorizzazione compiuta sul Postmoderno uscì in Francia nel 1979 (Jean Francois Lyotard, La condition postmoderne) e in Italia nel 1981 (ed. Feltrinelli), e che il Vertex operò proprio in quegli anni i primi esperimenti di "poema corale", potete agilmente cogliere la portata innovativa di quella nostra esperienza.
Ma c'è dell'altro. Con l'uso delle potenzialità del linguaggio postmoderno, non solo è possibile superare l'impasse della autorialità individuale – uno degli strumenti preferiti, infatti e non a caso, è la "citazione" – ma è possibile anche operare una critica "ironica" al sistema linguistico del potere (aggiungete al soggetto "potere" l'aggettivo che preferite: il risultato non cambia) per "distacco". Infatti, come sosteneva Manfred Frank nel suo Lo stile in filosofia l'ironia non ha come ultima finalità quella di suscitare il sorriso ma di mettere una distanza necessaria tra il fatto rappresentato dal potere e la sua interpretazione, contrapponendo alla verità linguistica del primo, le pressoché infinite e possibili verità che ci è data dalla decontestualizzazione (o estrapolazione) e ricontestualizzazione critica delle sue "citazioni". E in questo caso, anche in letteratura ci si può servire benissimo di quella tecnica specialmente cinematografica (ma anche televisiva: penso al popolare Blob, per esempio) che è il "montaggio".
A questo punto, mi sembra utile ricapitolare schematicamente il piano operativo che mi propongo realizzare:
a) accettazione della condizione della postmodernità;
b) ricorso al poema corale come strumento di elaborazione linguistica;
c) rinuncia all'opera-io e acquisizione orientativa dell'opera-noi;
d) uso, rimescolamento e rigenerazione di campi semiologici diversi;
e) citazione, ironia, montaggio come pratiche di costruzione del testo.

E se – come sosteneva Lyotard – la postmodernità si connota come "fine delle grandi narrazioni", di quelle costruzioni, cioè, che ambiscono dare ordine al mondo, io continuo a credere con Nietzsche che solo dal caos può nascere una stella che danza. L'opera non è finita: deve ancora cominciare.
miro renzaglia



venerdì 29 aprile 2011

Compagno Dvce! di Ivan Buttignon * from Mario Grossi/Fondo Magazine

88741566.gifMario Grossi

In Italia, compagni, c’era un solo socialista capace di guidare il popolo alla rivoluzione: Mussolini. Ebbene, voi lo avete perduto e non siete capaci di ricuperarlo!

Lenin

Predappio è una cittadina della Romagna a tutti nota per aver dato i natali a Benito Mussolini che vide la luce in località Dovia un piccolo agglomerato di case di contadini, mezzadri e artigiani.

E Mussolini per i romagnoli è sempre stato Muslèn nella storpiatura dialettale di quelle parti. Per molti fu da subito Muss-Len un termine che fondeva insieme i nomi di Mussolini e Lenin.

Bisogna partire da questa storpiatura dialettale se ci s’interessa al cosiddetto “Fascismo di sinistra”.

Non è cosa nuova che la storiografia degli ultimi decenni ha posto la sua attenzione su questa corrente di pensiero tutt’altro che marginale.

A partire da Renzo De Felice, nel corso degli anni, si sono susseguiti studi che hanno scandagliato questo filone del movimento e poi del Regime che, come un fiume carsico, ha solcato tutte le vicende del Ventennio, inabissandosi talvolta, per poi riemergere quasi dal nulla vitale più che mai, per poi scomparire, ma solo alla vista più superficiale, di nuovo.

Storici come Emilio Gentile, Giuseppe Parlato, Pietro Neglie, Paolo Buchignani hanno affrontato il tema.

In particolare, ricordo con affetto Fratelli in camicia nera di Pietro Neglie perché, con il piccolo circolo culturale Ezra Pound, in una manifestazione organizzata con l’aiuto di Giuseppe Parlato per ricordare Renzo De Felice, presentammo alcune tesi di laurea di suoi allievi. Tra questi appunto Pietro Neglie che aveva da poco pubblicato Fratelli in camicia nera che sviluppava in saggio la sua tesi di laurea.

Che qualcuno voglia cimentarsi nuovamente con questi temi, assai dibattuti, potrebbe dunque sembrare ridondante e scontato.

Per questo, è con qualche perplessità, tra il dubbio e la curiosità, che mi sono messo a leggere, in formato pdf, visto che sta per uscire in questi giorni, Compagno Duce di Ivan Buttignon per i tipi di Hobby&Work.

Con animo da lettore, che vince sempre le sue ritrosie iniziali, mi sono dunque immerso nella lettura, per me doppiamente difficile.

Da un lato perché non ho nessuna abitudine alla lettura digitale e la mancanza di contatto fisico con le pagine dell’oggetto libro è per me frustrante.

Dall’altro perché sapevo che, a meno di qualche rivelazione clamorosa, non avrei trovato notizie e fatti che già non conoscessi.

Il risultato è stato che la lettura delle 250 pagine del testo si è esaurita nel giro di tre giorni (di tre notti in realtà) e la rilettura nell’arco della settimana successiva.

Rilettura che mi ha confermato che le tre notti insonni sono state assai bene spese.

Un primo incontestabile pregio del libro è quello di riproporre una lettura del fascismo di sinistra che, se noto agli addetti ai lavori o alle persone di parte (come io sono), non è affatto di dominio pubblico.

Ma questo è un piccolo pregio veramente di fronte alla qualità che il lettore scopre, pagina dopo pagina, in un racconto che si snoda supportato da una scrittura limpida e d’immediato impatto.

Pregio questo non secondo al primo se pensiamo quanta fatica fanno taluni storici nel trasferire su carta la loro criptica sapienza, spesso intralciata da una prosa faticosa, farcita da tecnicismi e da una lingua gergale oscura che spesso mette in fuga i lettori meno pazienti.

Il saggio abbraccia un percorso temporale che va da prima della marcia su Roma fino ai nostri giorni. Rievoca e mette in fila gli uomini e le idee che costituiscono il nucleo assai eterogeneo di pensiero che sta alla base del “Fascismo di sinistra”.

::::::::::::::::CONTINUA

http://www.mirorenzaglia.org/2010/02/compagno-duce/

mercoledì 20 aprile 2011

Miro Renzaglia: IL FONDO - anno III - n. 145 / 19 aprile 2011

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anno III - n. 145 / 19 aprile 2011


in questo numero articoli di


Giorgio Ballario, Mario Bernardi Guardi,
Mario Grossi, Alberto B. Mariantoni,
Simone Migliorato, Antonio Pennacchi, Marco Petrelli,
Miro Renzaglia,
Piero Sansonetti

 

nell'edicola di via
www.mirorenzaglia.org


 
*L’uscita di Asor Rosa? Colpa dell’antifascismo

L’articolo che segue è stato pubblicato sabato scorso, 16 aprile sul Riformista. E’ postato qui per gentile disponibilità dell’Autore.

*(Fondo Magazine-La redazione)

MA SÌ!
SE NON POSSIAMO FARE LA RIVOLUZIONE
FACCIAMO UN GOLPE

Piero Sansonetti

Io penso che – paradossalmente – la sinistra italiana, o comunque la sua parte maggioritaria, sia oggi vittima dell’antifascismo. Cioè dell’elemento ideale e storico che per molti decenni ne è stato il pilastro. Sia in termini di “valori” sia in termini tattici, e cioè di unità politica.
Provo a spiegarmi, confessandovi che prendo spunto dall’uscita di Alberto Asor Rosa che – come sapete – ha auspicato un colpo di Stato contro Berlusconi. Ieri, su queste colonne, il direttore Cappellini ci ha offerto una analisi molto chiara – e per me largamente condivisibile – sul fenomeno politico del quale l’uscita di Asor è frutto e testimonianza. Puntando il dito, giustamente, contro il giustizialismo, e cioè l’idea che l’etica politica imponga il diritto dei “giusti” a governare, e che questo diritto, di conseguenza, debba essere tolto dalle grinfie delle “pastoie democratiche”.
Io però, come avete capito dalle prime righe, vorrei andare un po’ oltre. Perché ho l’impressione – che oggi mi limito ad accennare, e so che scandalizza molto a sinistra e forse anche al centro – che il giustizialismo non sia un fenomeno sbocciato dal nulla ma sia figlio di una degenerazione precedente della sinistra italiana, e che questa degenerazione dipenda in larga misura, appunto, dalla degenerazione dell’antifascismo.
Perché? L’antifascismo ha avuto una funzione formidabile e positiva nella nascita della sinistra italiana dopo la guerra – e nei decenni precedenti, in clandestinità – perché ha permesso alla sua componete maggioritaria – comunista o socialcomunista – legata all’Unione Sovietica e a regimi dittatoriali, di mantenere una sua componente fortissimamente democratica e antiautoritaria. Antifascismo, dagli anni trenta in poi, voleva dire lotta per la libertà, lotta per la democrazia, lotta contro l’autoritarismo, lotta contro il potere eccessivo delle istituzioni, del governo, della polizia, della magistratura, dell’esercito, della scuola. Senza l’antifascismo, la componente più forte della sinistra italiana, e cioè quella comunista, sarebbe diventata una infrequentabile roccaforte stalinista, violenta e antimoderna. L’antifascismo è stato la chiave della modernità del Pci e il punto di partenza di tutte le sue strategie, e il carburante – ideale ma anche tattico-politico – del suo riformismo.
Poi è successo qualcosa. Cosa? Che il fascismo, nel mondo occidentale, per fortuna è morto. Difficile stabilire una data. Forse il 1976, con la caduta del franchismo in Spagna, cioè dell’ultimo governo fascista in Europa. Forse una quindicina di anni più tardi, con la caduta delle dittature in America latina e quindi la definitiva rinuncia da parte del capitalismo a ogni forma di governo dittatoriale. Scegliete voi la data. Il problema è che da quel momento anche l’antifascismo è morto. Perché è restato privo del suo principale fattore vitale: la lotta alla dittatura, la lotta contro il regime. Naturalmente c’era un modo per riciclare l’antifascismo: trasformarlo in antiautoritarismo, e cioè in moderna dottrina libertaria. Oppure si poteva fare la scelta burocratica di mantenerlo in piedi, come simulacro vuoto, e di usarlo come antidoto alla mancanza di strategie politiche e dunque di identità politiche. Come si fa a surrogare una identità non più sostenuta da una idea strategica? Con la retorica, con le bandiere. E l’antifascismo può funzionare all’uopo. C’è solo un problema: bisogna inventare un nemico, un regime.
La sinistra italiana ha compiuto questa seconda scelta. E in particolare l’ha compiuta dopo l’ottantanove, quando si è posto il problema drammaticissimo che non solo l’antifascismo era diventato parola vuota, ma che il comunismo era morto anche lui. Era il momento giusto per una grande svolta. Liberale, libertaria. Invece si è compito la scelta vuota e antifascista......CONTINUA
http://www.mirorenzaglia.org/2011/04/luscita-di-asor-rosa-colpa-dellantifascismo/
 






 

lunedì 18 aprile 2011

Miro Renzaglia: Il Fondo del Giovedì - 14 aprile 2011

 
File:Pennacchi3.JPG - Wikipedia | http://it.wikipedia.org/wiki/File:Pennacchi3.JPGIl GRANDE IMMENSO ANTONIO PENNACCHI
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Asor Rosa l'ossimoro profumo della paleosinistraALBERTO ASOR ROSA A LAMEZIA TERME su ifamelici | http://blog.libero.it/ifamelici/4319089.html

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Il Fondo del Giovedì - 14 aprile 2011


ALBERTO ASOR ROSA INVOCA LO STATO DI POLIZIA

articolo di

Alberto Asor Rosa


nell'edicola di via
www.mirorenzaglia.org
 
*Miro Renzaglia sul progetto Pennacchi a Latina: Al di là della Destra e della Sinistra


http://www.mirorenzaglia.org/2011/04/lista-pennacchi-fli-a-latina-al-di-la-della-destra-e-della-sinistra/





lunedì 11 aprile 2011

Il futurismo sociale di Antonio Pennacchi? (*da Fondo Magazine-Miro Renzaglia)

http://www.mirorenzaglia.org/2011/04/lista-pennacchi-fli-planando-sopra-boschi-di-braccia-tese/

L’articolo che segue è stato pubblicato ieri, 10 aprile, sul Secolo d’Italia.

La redazione


FASCIOCOMUNISMO
L’ANTIDOTO CONTRO LA TRINCEA
(CHE NON C’È)
miro renzaglia

È bastata una foto [quella a fianco] che riprendeva assieme tre bandiere (un tricolore, una con la falce e il martello e un’altra di Futuro e libertà) e l’ipotesi di un’alleanza civica a Latina tra Pd ed esponenti provenienti da destra, per riaprire lo scontro tra i nostalgici dei vecchi steccati e chi propone nuove sintesi. Quella foto scattata a piazza Montecitorio, nel giorno in cui la Camera votava sul conflitto di attribuzione per il caso Ruby, ha ridestato dal torpore della seconda metà del Novecento addirittura i teorizzatori dello scontro “antropologico”. Una visione stantia, che era già archeologia per chi ha vissuto davvero lo stagione del Sessantotto. A questi, allora, è consigliata la lettura “preventiva” di un passaggio della Carta della Sorbona (il “documento” del Maggio francese) quando già, decenni fa, si affermava: «Nessuno si meravigli del caos delle idee, nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia. Questo caos è lo stato di emergenza delle idee nuove…».
La vita è difficile. Ma quasi niente, a parte l’immortalità fisica (per ora) è impossibile. La politica poi che, come sosteneva Otto von Bismarck, «non è una scienza ma un’arte» è, addirittura, «la dottrina del possibile». Come in tutte le arti, però, anche in quella del possibile, oltre agli artisti veri ci sono i pataccari, gli imitatori, i falsari. Gente che – metaforicamente parlando – saprà pure tenere il pennello, una chitarra o una penna in mano ma, mancando d’immaginazione, di fantasia, di estro si limita a ripetere il già dipinto, il già sentito, il già detto. Senza mai uno scarto innovativo, un’invenzione, un lampo di genio. Anzi, peggio: ogni volta che uno di loro incontra qualcuno capace di farlo, si barrica dietro le proprie certezze e bolla l’altro come un dilettante indegno di presentarsi al suo cospetto. Di esempi del genere, nella storia della politica, ce ne sono a bizzeffe. Ma senza andare troppo in là nel tempo, basta pensare a come i socialisti della sua epoca considerarono Benito Mussolini. Quel massimalista sovversivo che non aveva capito – secondo loro, i socialisti avveduti – come si facevano i veri interessi del proletariato. Beccandosi giustamente sulle mani le bacchettate di quell’altro grande artista della politica che fu Lenin: «Avete perso con Mussolini la grande occasione, l’unico in grado di fare la rivoluzione in Italia». Eh! che volete farci? Così va il mondo: artista intende artista, mentre i pataccari non arrivano mai alla loro altezza.
Ora, fatte tutte le debitissime proporzioni fra ieri e oggi, situazione e situazione, personaggi e personaggi, e mutatis mutandis, non è che le cose siano poi cambiate di molto. Prendiamo come riferimento la disputa di questi giorni sulla possibilità di creare una lista Pennacchi-Fli per le prossime consultazioni amministrative di Latina. Pennacchi chi, innanzi tutto? Ma sì, lui, Antonio Pennacchi il romanziere, il vincitore in carica dell’ultima edizione del Premio Strega con quel Canale Mussolini che segna, nell’asfittico panorama della narrativa italiana, il ritorno del grande romanzo epico e popolare. Lo scrittore, sì insomma: il fasciocomunista che in giovinezza aveva militato nel Msi per poi passare all’estrema sinistra, nei sindacati, nel Psi, nel Pci, sempre espulso per posizioni che i dogmatici di tutte le chiese trovavano immancabilmente troppo eretiche per i loro gusti. Avete inquadrato il personaggio? Bene: proprio lui che oggi si ritrova in tasca la tessera del Pd (e, stranamente, non ne è stato ancora espulso) se ne è uscito nei giorni scorsi con un’altra delle sue diavolerie: faccio una lista con Fli, ci metto faccia e nome, non mi candido in prima persona per la carica di Sindaco ma, insieme, appoggiamo il candidato di centrosinistra. Già detta così la cosa, ti prende un colpo. Ma state a sentire le ragioni che lo spingono a tanto.
Pochi giorni fa, su queste stesse pagine, in un’intervista concessa ad Antonio Rapisarda che gli chiedeva: «Pennacchi, intende fare di Latina un “laboratorio”?» rispondeva: «Qui non c’entra solo Latina. Perché il problema della città è lo stesso del Paese. Abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale, di ricomporre le fratture vecchie e nuove. Ma per fare questo occorre porsi una domanda: a chi interessa oggi lo Stato? Di sicuro non a chi sta adesso al governo: che è impegnato a garantire in questo preciso momento solo se stesso, al prezzo degli interessi della collettività. Per questo è necessaria un’alleanza di uomini di buona volontà. Sì, perché quello che si trova davanti non è solo l’antistato ma, mi si consenta, addirittura l’anticristo: perché a parole parla, invocando il Santo padre, di Dio, patria e famiglia mentre in realtà è un vero “drago”».
Oh! Gesù, Giuseppe e Maria. Lo vedete che scherzi fa il genio dell’arte che poi – come si diceva – è lo stesso della politica? In quattrocento battute scarse di tastiera quello (il genio) di Pennacchi prende e ti butta giù un manifesto che se non è per la rivoluzione ti scompagina sicuramente le care categorie di destra e di sinistra a cui si aggrappano gli identitaristi del presente perpetuo; t’inventa, così sue due piedi, un laboratorio politico che ritira fuori una parolina ormai desueta: “sociale”; lancia pure il progetto oltre i confini comunali della sua città, lasciando immaginare futuribili scenari nazionali. Non solo ma, udite udite, osa tanto: «È ora che i fasci veri tornino a casa, superando la frattura del 1914. I fascisti tornino a San Sepolcro!». Cose dell’altro mondo… Talmente dell’altro mondo che i conservatori (se non proprio i reazionari) di destra e di sinistra di questo mondo si sono subito affrettati a opporre il loro niet: ‘sto matrimonio non s’ha da fare. E perché, no? Perché, no. Pura tautologia. E se non è pura tautologia, sono motivazioni facilmente smontabili.
D’acchito, infatti, verrebbe da chiedersi perché Fli, in Sicilia, con due assessori nella giunta regionale, può stare in una maggioranza che comprende il Pd e mettere all’opposizione il Pdl e a Latina, invece, lo stesso non si può fare. Che ha fatto di male Latina per rischiare di ritrovarsi governata da una giunta di centrodestra che nemmeno un anno fa è stata commissariata? Ma il discorso è più largo e lo focalizza bene, ancora una volta, Pennacchi che rivolge a quei futuristi riottosi di guardare al futuro la domanda delle domande: «Ma allora che cosa siete usciti a fare dal Pdl? Tanto valeva rimanere lì dentro. E magari mettergli pure il preservativo, a Berlusconi». Sante parole, ma pensate che siano percepibili da chi comunque non vuol sentire? Diranno, piuttosto, che ci vuole saggezza, prudenza, che Pennacchi è un poeta e, come tale, a volte vaneggia… Che, soprattutto, l’elettorato non capirebbe. L’elettorato di un partito – capite? – che non ha ancora ricevuto un voto che è uno e che si pone da solo la questione della fedeltà ad una entità che ancora non esiste. Ha ragione Alessandro Campi quando, dalle pagine de Il Riformista (6 aprile scorso) brucia nella loro alienante fissazione di passatisti i custodi della vera-destra-vera, finendo per dare esplicitamente ragione a Pennacchi e a quanti in Fli (ne cito alcuni e mi scuso con gli altri: Umberto Croppi, Luciano Lanna, Flavia Perina, Fabio Granata, Benedetto Della Vedova, Antonio Bonfiglio, Filippo Rossi) hanno aderito alla proposta del narratore: «A quale elettorato può mai rivolgersi un partito che oscilla tra soluzioni tanto diverse, il cui vertice appare indeciso se schierarsi a destra, al centro o a sinistra?».
.....................ART.COMPLETO VEDI LINK IN ALTO A SINISTRA

MIRO RENZAGLIA

NOTA DI ASINO ROSSO: articolo di rara espansione di idee e inclassificabile, input alla luce del Sole di certa Destra Immaginaria culturale al quadrato, certamente del duemila, al di là del novecento terminato e della superstizione...destra/sinistra, sinistra/destra.....dell'Ideologia e della Divina Politica...  Va da sè, Antonio Pennacchi, primula rossa (o nera) d'altrettanta espansione intellettuale - vivente - non salottiera o kulturale reificata, contro la casta culturale e ideologica italiana ben nota,  persino il suo nuovo incredibile progetto antineopostpolitico, quasi un remix downloadato di certo futurismo sociale mai fiorito negli anni dieci del... Novecento stesso (e anche durante il ventennio...), in questione, finanche diversi altri- chiaramente indicati da Renzaglia (e quest 'ultimo stesso): Pennacchi e postcompagni o postcamarades... che c'entrano con l'equivoco- cattofascista e storicamente inaffidabile- del camaleontico Gianfranco Fini da Predappio/Montecarlo..., non perchè spirito... libero persino dalle proprie idee, ma in "scientifico", quasi copione appunto peggiordemocristiano e italiota? Per non parlare di comparazioni diciamo strettamente intellettuali neppure accostabili e af-fini?  Fini,  mentre la storiografia non ideologica negli anni 90 finalmente scientificizzava senza virgolette la storia del ventennio, da De Felice a Gentile, liberandola parzialmente  dal male assoluto e persino riattivando certo fascismo culturale non esorcizzabile (lo stesso menu più ò meno nel dibattito del Fondo attuale e del progetto di Pennacchi...) , relativizzandolo al passo con la complessità sia moderna...che contemporanea.., con la Svolta di Fiuggi celebre, positiva in sè, ha però parallelamente fatto il contrario.... anzi proclamando alla rovescia proprio ..e nuovamente certa vulgata ideologica dominante per 50 anni! Fini, mentre il futurismo doc al passo con il centenario usciva da certe nicchie e certo oblio (chi scrive, Graziano Cecchini Rosso Trevi, Antonio Saccoccio, anche certo neofuturismo transumanista), ha -con clichet orwelliano- inventato come un astrologo  un nuovo partito definendolo- vera e propria neolingua - futurista, inquinando informazione e linguaggio, innestando nuovamente- e specularmente all'informazione negazionista culturale pseudogramsciana del secondo novecento- nuovamente, mistificazioni e superballe sul futurismo già ampiamente nocive e fuorvianti!  Avallato magari da certa intellighenzia anche futuristica potenziale o legittima, ma incapace di aggiornarsi- nonostante i fatti- agli artisti più significativi di certa continuità futurista postinternet, anzi appunto obliandoli.... Tranne eccezioni, perchè no lo stesso Renzaglia e naturalmente Pennacchi e altri, un poco di ingegneria genetica ...  è necessaria e inrinviabile, soprattutto da un'ottica futurista doc, tecnoanarchica e neoprogressista (l'essenza del Futurismo, anteriore, contemporaneo e prossimo...).
Legittimo anche-ovvio- bordi rivoluzionari neoconservatori (sempre al di là del binomio numerologico...destra-sinistra..) ma -a parte- ribadiamo- l'arduo e improbabile eco finiano - certo radical chic non esiste soltanto nella matrice proveniente dalla paleosinistra.  L'Avanguardia non è nè sarà mai salottiera e troppo pensiero e meno azione... Altra modulazione, in scenari plurali di modulazioni appunto anche differenti e  legittime ma d'altro gioco linguistico-  non a caso diciamo "meramente" sperimentali, per rilanciare l'analisi fondamentale (a parte quelle sempre operative delle avanguardie soprattutto storiche...e dei futuristi contemporanei doc) di un certo Charles Russell, "Da Rimbaud ai Postmoderni", dove chiarissime le differenze tra i diversi bordi del gioco lingustico, tra Avanguardia e Sperimentazione (o Rcerca o Laboratori). La vita e la guerra delle idee principale laboratorio vivente per il Futurismo, sistema operativo,  l'hardware l'abbiam brevettato da 100 anni e +..... e funziona ancora meglio...   Chiamiamo le cose con il loro nome. Il Futurismo è il Futurismo,  il cosiddetto fascio-comunismo alla Pennacchi et amis  un software molto eccitante ma da riformulare in prospettiva, in quanto parole mediaticamente fallimentari per ovvi motivi.... E i finiani si chiamino finiani e basta, con il Futurismo non c'entrano nulla, chiaro?

Manifesto Heliopolis Per Una Nuova Oggettività (postfazione) di Giovanni Sessa * from Fondo Magazine

In previsione dell’uscita del libro-manifesto metapolitico Per una nuova oggettività. Popolo partecipazione destino (Ed. Heliopolis) si terrà a Roma, il 16 aprile prossimo, con inizio alle ore 15, presso il centro culturale L’Universale, Via Caracciolo, 12, un incontro preparatorio aperto a tutti. Il Fondo ha già pubblicato vari interventi sull’argomento [si veda QUI] e, di seguito, propone in anteprima la postfazione di Giovanni Sessa.

La redazione

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UN’IDENTITÀ PLURALE
di Giovanni Sessa

Fin da quando, durante le giornate del Convegno “Evola e la filosofia” del Maggio 2010, Sandro Giovannini mi parlò del Suo progetto di realizzare un Libro-Manifesto rappresentativo di una ben individuata area di pensiero, colsi l’importanza dell’iniziativa, dato il particolare momento storico politico che stavamo e stiamo vivendo, in quanto europei e italiani appartenenti alla comunità ideale alla quale questo Manifesto è tornato a dar voce. D’altro lato, con Giovannini eravamo coscienti delle evidenti difficoltà che, inevitabilmente, avremo incontrato lungo il cammino, data la progressiva atomizzazione cui il nostro mondo è andato incontro nel corso degli ultimi decenni. La smobilitazione ideale che taluno ha realizzato, più o meno scientemente, non giocava certo a nostro favore. Al termine del lavoro, credo sia possibile dirsi almeno parzialmente soddisfatti di quanto, con mezzi minimi e grandi sacrifici, soprattutto di Sandro e pochi altri, si è riuscito a realizzare. Abbiamo, credo, corrisposto, innanzitutto, all’esigenza prioritaria che ha motivato la nostra fatica, quella “registrativa”. Il lettore può verificare di persona come i testi qui raccolti, siano tra loro diversificati per tematiche, stili, spessore: addirittura, alcuni tra essi, si distinguono anche per il momento propriamente progettuale. Penso che in questo dato, più che un elemento di debolezza intrinseca all’elaborazione teorica di un’area intellettuale, sia necessario leggere, sia pure in prospettiva, la sua costitutiva ricchezza propositiva. Per questo, la motivazione “inclusiva” e il rifiuto delle logiche escludenti verso gruppi, singoli o atteggiamenti ideali, è risultata proficua. Ha, infatti, a mio parere, fatto emergere elementi che accomunano e che consentono una ri-partenza, intellettuale e politica. Oltre al contributo specificatamente culturale, tutti i testi del Manifesto evidenziano i bisogni reali e profondi degli Autori stessi, centrati come sono attorno a una forte partecipazione emotiva ed esistenziale una fuoriuscita dall’apatia al progetto. Ciò attesta, quantomeno, una volontà di fare, evocatrice di speranza, capace di rianimare i tiepidi, i perplessi, i titubanti. Del resto, ogni uomo, ogni comunità, ogni gruppo umano trova o recupera l’identità raccontandosi: è quanto è stato fatto nelle pagine precedenti. Anni fa leggemmo in un testo di Philippe Forget, una frase che spiega perfettamente il nostro tentativo: “…è in termini di apertura del senso che bisogna pensare le fondazioni dell’identità. Esse devono rinviare a una comprensione dell’essere come gioco di differenziazione” (P. Forget, Phénomenologie de la menace. Sujet, narration, stratégie, in Krisis, Aprile 1992, p. 3). Conclusivamente, ci pare che la lettura dei diversi contributi forniti al Manifesto: Per una Nuova oggettività. Popolo, Partecipazione, Destino, siano segnati, innanzitutto, da un forte riferimento al pensiero della Tradizione, declinato secondo Vie e ottiche diverse. Molti gli scritti che si richiamano al classico (per citarne solo alcuni: quelli di Campa, Casalino, Consolato, Sestito, Venturini), altri che si ispirano all’Oriente (Gorlani), altri ancora al Cattolicesimo (Siena,Vassallo). Ma non mancano posizioni diverse: poundiane (Gallesi), postumaniste (Vaj), movimentiste (Adinolfi).

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mercoledì 30 marzo 2011

Miro Renzaglia IL FONDO - anno III - n. 142 / 28 marzo 2011 con Stefano Vaj

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anno III - n. 142 / 28 marzo 2011


in questo numero articoli di


Roberto Alfatti Appetiti, Arba, Angela Azzaro,
Umberto Bianchi, Giuseppe Di Gaetano, Alberto B. Mariantoni,
Simone Migliorato, Marco Petrelli, Miro Renzaglia,
Stefano Vaj
 
nell'edicola di via
www.mirorenzaglia.org