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lunedì 20 gennaio 2014

Biagio Luparella L'ultima allocuzione di Satana...

L’ultima allocuzione di Satana
(per scherzo solo ma non troppo)

Biagio Luparella  (12 2013)
- Sudditi miei fedeli e ministri solerti della nostra malefica Volontà, voi tutti che incalzato avete, nel lento volgersi dei secoli, innumeri popoli lungo le strade di Nicea e Costantinipoli ed Efeso e indi di Roma e Fiorenza, Panormo, Neapoli, voi che pressato avete gli umani a pavoneggiarsi nelle sontuose regge e nei ricchi saloni di palagi e castelli, ad accalcarsi nella suburra di Roma, nei vicoli di Gerusalemme, negli angiporti di Marsiglia e Venegia, nei suburbi di Londinio e Lutezia, voi che allestiste le alcove dalle immonde libidini, le bettole e i banchetti dalle immense crapule, voi che frequentaste l’oziosa solitudine di cenobi e soffitte e studioli popolandoli di sozze fantasie, che all’ombra dei troni e dei seggi ordiste macchiavelli e rapine, vostra la mano è stata che contava danaro da forzieri segreti, vostre le cupe ire, la livida invidia madre dell’odio indomato, vostra la mano dei grassatori e gabellieri, vostro il turpiloquio e le bestemmie degli stadi e dei lupanari ed, a tutto questo consenzienti i mortali, spinti li avete qui a pagarne la pena, sottraendoli per nostro diletto a Lui che regna Lassù dove si compiace di cori di carole e degli inni che dai secoli dei secoli in sua lode salgono.
Ma ecco, qui ora convocati vi ho per mettervi a giorno della suprema ed irrevocabile decisione dalla Nostra Malvagità a lungo ponderata e finalmente affirmata salda e irremovibile, ora che, come da più tempo vi è perspicuo se cecità non ha piombato i vostri occhi, qui, nel nostro regno, non giunge più alcun dannato dacchè i peccati, esca per i nostri sollazzi, sono scomparsi, aboliti, cancellati…… O forse non sapete?

La Superbia, che molti lutti addusse ai mortali, in tempi che agibilmente rendono possibile nella rete cadere della tanto deprecata Melanconia, si è addivenuti a considerata dell’umano sentire un commendevole stato dappoichè sospinge alla stima di sé onde si può seguitare a vivere con rinnovellata fede e rosea disposizione dell’animo verso il proprio agire.

Della Gola il piacere, per il quale molti furono patrimoni dissipati e famiglie e regni dispersi che più che animali il ventre  si eresse a padrone assoluto di qualsivoglia intento, è fatto ora cultura di gurmet e sommelliers alla ricerca di primitivi e naturali cibarie avverso le schifezze laborate in opifici all’uopo operanti, donde intrugli ed imposture ne escono con grave nocumento alla salute di quanti affamati come non mai prima se ne ingozzano.

Universale è divenuto il febbrile accumulo del pecunioso sparagno onde adoperarlo in opere che favoriscano la prolificità dello stesso a che si accresca delle nazioni la ricchezza e l‘antica Avarizia tramuti la sua faccia lercia e macra nel roseo volto e paffutello di ben nutrite folle.

E l’Ira, che tante sciagure generò, ammansita dal civile domestico e moderato dialogo ove di tutti l’opinione è tollerata, è stata ricondotta, siccome un fiume impetuoso fra robusti ed inoltrepassabili argini, nell’alveo d’una media, passeggiera e perdonabile incazzatura.

Poiché non si dà progresso delle conoscenza se non aspirando all’accrescimento delle umane forze onde impedire che la vita si arresti, evento quanto mai lacrimevole ed ai viventi tutti funesto, l’Invidia ha deposto il suo grigio rimuginar che di molti solleciti fautori del comun bene tarpava il fervoroso operare, laonde per cui, facendosi stimolo all’emulazione, competere è l’imperativo che la sua voce fa di terre in terre risuonare.

A quale stato aspira ogni umano che sia giunto a divinar la vanità di ogni agire e dei voleri tutti se non a quello che in italica lingua è detto “il dolce far niente”? Ed ecco come l’Accidia, culla dell’ozio e di tutti i vizi fomentatrice, eletta è stata ed ambita come lo stato pensionistico fatto di riposo e di onesti passatempi al quale di tutti la mente tende, legislatori e reggitori di popoli mallevadori.

E molte sono acconce spezie all’uopo preparate e luoghi predisposti alla bisogna e colorati schermi ove la rossa Lussuria, vanto di mentulosi mentulofori e di vulvanti vulvaperte, tripudia, coram universo mundo, alla douceur de la vie.

Cotanto dei Sette peccati capitali or se n’è fatto.....

continua Labs  13

lunedì 9 dicembre 2013

I 43 numeri di Letteratura-Tradizione (1997-2009) di Sandro Giovannini


I 43 numeri di Letteratura-Tradizione (1997-2009)

di SANDRO GIOVANNINI


I - Numeri

I 43 numeri di “Letteratura-Tradizione” vanno divisi, per ordine temporale in tre serie, la prima dal n° 1 del settembre 1997 (di poco dissimile dal precedente n° 0 uscito alla fine del 1996, anche interamente su Internet - cosa sorprendente e di non molto eco, allora) al n° 30 dell’ottobre-novembre 2004, la seconda dal n° 31 dell’aprile 2005, al n° 40 del settembre 2006, la terza dal n° 41 del dicembre 2007 al n° 43 d’inizio 2009. La prima serie fu all’incirca trimestrale per poi divenire bimensile nella seconda e, nella terza, semestrale. Era pronto un n° 44, per l’estate 2009, che non è però stato stampato. Dalla prima serie alla seconda ci fu un’interruzione, a motivo del ritardo e della successiva risistemazione di qualche mese, dovuta al fallimento del tentativo di sostituire lo scrivente in qualità di caporedattore ed impaginatore della rivista stessa, con l’amico Dott. Gianluca Montinaro, giovane studioso che avevamo sperato potesse cambiarne anche in parte lo stile impaginativo, l’organizzazione interna, e per alcuni tratti anche la logica di metodo. All’inizio della terza serie si è tentata un’operazione similare, con una sostituzione dello scrivente a cura di altro valido giovane storico, che è anche un valente ufficiale di carriera dell’Esercito, il Dott. Federico Prizzi, ma, per un complesso di ragioni, dovute per lo più a cause logistiche, anche in questo caso il tentativo di rinnovamento della struttura interna si è dimostrato impossibile. L’interruzione definitiva, dopo il n° 43, è stata causata incidentalmente invece da motivazioni strettamente economiche, causate anche dalla difficoltà della casa editrice della rivista di recuperare ingenti somme dovutegli per la propria attività paraeditoriale, peraltro ben valorizzata e distribuita a livello nazionale. Questo per quanto riguarda la stretta scansione temporale....

CONTINUA  Lab ciberculturale 11 

Letteratura-Tradizione (2009) Stefano Vaj interview



Intervista di Sandro Giovannini a Stefano Vaj per "Letteratura-Tradizione"

Sandro Giovannini
A pag. 7 del libro (“Dove va la biopolitica” intervista a Stefano Vaj a cura di Adriano Scianca - Settimo Sigillo) usi la metafora della barca nel mare magnum e dei tre uomini, di cui uno propone di buttarsi a nuoto, un altro di amministrare al meglio l’attesa, il terzo di usare la barca per raggiungere un ipotetico approdo. Ed è chiaro chi scegli per te e proponi per gli altri. Ora ti prego di fare un piccolo (o grande) sforzo e di leggere questa mia poesia e di rinvenirne potenziali consonanze o dissonanze… 

(Misure epiche, input-output) 

L’inefficienza contro l’efficienza 
se un cavallo un treno un aereo 
era poesia 
anche poesia 
e questa macchina 
ora 
che ingoia 
clear-cut 
non c’è guadagno 
a fare in un giorno un motore 
che si fa ora in un ora 
né utilità spirituale. 

Allora siamo al punto 
rivoluzione ha posto il suo limes 
che dal linguaggio 
ha sciolto il lavoro 
dal peso e dalla condanna. 

Al di là 
resta 
prevaricazione fame miseria 
di qua forse 
l’intelligenza rubata da restituire 
all’uomo 
la scelta che libertà 
per 
comunque per noi 
è un dovere. 

Stefano Vaj 
Che posso dire? Tecnica, prima ancora di ogni "tecnologia", significa "metodo per raggiungere un risultato". Significa cioè libertà non solo di scegliere un obbiettivo, ma anche di raggiungerlo. Perché il senso del tragico, dal Mahabharata e da Omero in poi, significa accettare un destino che ci impone non solo delle scelte, ma anche quanto tali scelte rendono necessario - e possibile. Questa per taluni è grandezza, questo è il rein-menschliches, lo specificamente-umano; questo è ciò che oggi ci impone il postumanismo e l'emancipazione dalle catene della contemporaneità, prosaica, dal sogno di una "fine della storia" e prima ancora di un'immutabilità a-temporale che tale fine della storia sarebbe chiamata a ripristinare contro ogni divenire. Se ha ragione Faye (cfr. Per farla finita con il nichilismo. Heidegger e la questione della tecnica, SEB, 2007) questo è del resto il vero messaggio della riflessione di Heidegger - così come lo è dell'Operaio di Jünger. Un messaggio esigente, un messaggio rivoluzionario, che non consente alibi per rimozioni e compiacenze reazionarie che servono solo a renderci schiavi. Schiavi insoddisfatti e frustrati, e per questo ancora più schiavi - in particolare di un mondo inteso come emanazione e dominio di leggi "divine", siano esse connotate in termini metafisici, o in termini secolarizzati sotto la specie di leggi "universali ed eterne" di natura economica, giusnaturalista, utilitaristica, etc., che all'Operaio - colui che crea "opere" - e all'Artista - colui che crea l'"artificiale", il mondo-fatto-arte - sostituiscono prosaicamente il "lavoratore" - colui che si identifica invece nel suo agire la sorte e maledizione biblica che gli impone di "laborare" ("soffrire") per garantirsi le condizioni di una sopravvivenza senza scopo. Questione tra l'altro che si salda con quella squisitamente politica che riguarda il dibattito tra la liberazione del lavoro (inteso appunto gentilianamente come attività specificamente umana, come slancio prometeico collettivo) e l'aspirazione messianica e piccolo-borghese di una liberazione dal lavoro, magari in un quadro di decrescita e decadenza consensuali e "controllate"...

Sandro Giovannini
A pag. 13, a fronte della potenziale rivoluzione biopolitica poni un paragone con la svolta del neolitico e la risposta differenziata di alcune società storiche. Tra le quali “La risposta (indo)europea e del mito che ad essa dà luogo”. Il genoma stesso, con il suo incredibilmente e necessitatamente lungo processo trasformativo, va ben al di là persino di una visione da Annales… forse si avvicina di più ad una logica ciclico-mutante? (Anche perché nella società post-neolitica ed in quella o questa post-moderna - come dici lucidamente a pag. 18 - è la massa e non l’élite - e quindi l’insieme e la risultante di una società o di una civiltà - a “subire” più profondamente il paradigma del cambiamento). 

Stefano Vaj 
Esistono cicli nei cicli, le sfide ritornano eternamente a ripresentarsi, e nello stesso tempo come ricorda Eraclito non ci si bagna mai nello stesso fiume, ogni alba ci vede confrontati a un nuovo sole... Le questioni "biopolitiche" che oggi ci stanno di fronte rappresentano forse un punto di incrocio, una sovrapposizione, tra un ciclo relativamente breve - secolare, quello in particolare dell'umanismo giudeocristiano di cui parla Foucault constatandone al tempo stesso l'origine relativamente recente e l'esaurimento contemporaneo - ed uno più profondo, di decine e centinaia di migliaia di anni, che ha a che fare con l'ominazione stessa e le sue fasi: con il "divenire uomini" e il "cosa significa umano". In questo, l'accelerazione (ma d'altro canto la possibilità molto reale di un arresto entropico) della trasformazione culturale e l'accelerazione di quella "biologica" della nostra specie convergono. Ma prima ancora del recente aprirsi, dal marinettiamo Mafarka in poi, della prospettiva di acquisire un crescente controllo diretto e consapevole sulla nostra identica genetica e fenotipica (vedi sotto la rubrica "fyborg"), l'autostrutturarsi delle società umane ha sempre comportato una "artificiosa" direzionalità ed accelerazione nella trasformazione del nostro stesso pool genetico, in particolare attraverso le condizioni di sopravvivenza e il successo riproduttivo differenziale del tutto artificiale che ogni cultura veniva ad instaurare - al punto da istituirsi spenglerianamente in soggetto pseudo-biologico, e da impattare significativamente sulla propria "biologia" etnica (e su quella in generale della specie). Per esempio, al contrario dell'opinione tradizionale sulla relativa stabilità del genoma umano in epoca storia o preistorica recente, sappiamo oggi che varianti genetiche che interferiscono in modo rilevante con le nostre capacità cognitive si sono diffuse nella nostra specie, in modo differenziato ma significativo, non molto prima di seimila anni fa, proprio con l'Europa come epicentro e dopo il maximum glaciale che ridusse la sua popolazione all'orlo dell'estinzione (cfr. Before the Dawn di Nicholas Wade, Penguin Press, 2006). D'altronde, sappiamo oggi che taluni tratti che le società contemporanee selezionano, o viceversa contribuiscono a diffondere cessando di selezionarli, possono ben essere considerati disgenici non tanto in rapporto ad un concetto di ottimalità "oggettivo" o "naturale", ma in rapporto alla stessa norma culturale che la medesima società sceglie di adottare, per ragioni foss'anche solo mitico-estetiche, magari legate ad una valenza darwiniana in via di esaurimento (come la capacità di deambulare facendo uso degli arti inferiori). Dal che l'inevitabilità di farla finita una buona volta con politiche proibizioniste e di rimozione freudiana riguardo agli strumenti presenti e futuri della nostra arbitraria (ed auspicabilmente plurale) autodeterminazione biologica.

Sandro Giovannini
Del “realismo biologico”, tesi sostanzialmente antiegualitaria e differenzialista (il vero passo ulteriore - lo sostieni precisamente tra pag. 29 e 30 - passo di supero del cosiddetto crinale del mondo post-nichilista) tu comunque salvi la verità spingendo appunto all’oltre. Ma sembra di cogliere che la paura della nominazione che assale altri - a tal punto della tua analisi - non assalga te. Ovvero tu parli di una sorta di “fyborg” ("functional cyborg") non facendolo mai divenire, se non all’interno del medesimo processo, “un altro da sé”. Quindi - ma correggimi se forzo il passaggio logico - non morirebbe “l’umano”, “l’umano” si trasformerebbe. E’ corretta questa mia interpretazione? 

Stefano Vaj 
Certamente io rifiuto - e penso vada anzi demistificata, denunciata - la paura dell'"umano". Quella paura dell'umano reale, a favore di un'"umanità" astratta, immaginaria, statica, specista, che rifiuta la dimensione animale quanto quella sovrumana, e che contraddistingue l'umanismo e lo distingue dall'Umanesimo - istigando solo qualche decennio fa la denuncia isterica dei portati dell'etologia, della psicologia evolutiva, della sociobiologia, come inaccettabili e "moralmente inapplicabili" alla nostra specie. Quell'ossessione per la purezza da ogni "ibridazione" che denuncia Roberto Marchesini (cfr. Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri 2002, o "Oltre il mito della purezza" in Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano, vol. 2, Sestante 2009) e che si rovescia d'altronde nella voluttà e nell'entropia del melting-pot etnico e culturale su scala globale. E rispetto a cui va forse ancora una volta opposta la massima "homo sum; nil humanum a me alienum puto". Ma cosa detta in effetti questa massima? Cosa caratterizza davvero la nostra specie, se non quell'"incompletezza" di cui parla Arnold Gehlen, quell'ansia per il superamento di sé, se non il fatto di essere ciò che Nietzsche - talora poeticamente generalizzando al vivente in genere - vede fare "tutto ciò che può non per conservare se stesso, ma per diventare più di ciò che non sia" (La volontà di potenza, aforisma 302)? Perciò, l'umano "muore" - diventa disumano - esattamente quando cessa di trasformarsi. Oggi, quando rinuncia perciò a diventare "postumano". Attraverso il tentativo di ignorare quella che è la realtà già presente del suo "fenotipo esteso" (cfr. Richard Dawkins, The Extended Phenotype, Oxford University Press 1981), ed a maggior ragione la direzione che tale realtà indica quanto alla sua possibile, futura metamorfosi, in termini biologici e non.

Sandro Giovannini
Del “nuovo inizio” heideggeriano, di un “neo-paganesimo” post-moderno (e quindi, a fortiori, post-antico) tu dai una lettura da “origine esemplare”. E dici che l’“origine esemplare” è post-umana. Ma la poiesis - che tu stesso (necessariamente?) implichi fondante tale processo quanto - al di là della voluta o cogente tassonomia - possiamo appercepirla proprio come “post-umana”, od anche od invece come “ultranovecentista”, nella stessa accezione a cui potevano riferirsi già da tempo, ad esempio, intellettuali mille miglia (e tanti anni) diversi da te per formazione, temperie e gusti, come un Vettori (ultraumanesimo ed ultranovecento)…? 

Stefano Vaj 
Io non mi considero un grande "umanista" (in questo caso intendendo la parola nel suo significato di "esperto di tradizioni letterarie ed artistiche"), ma piuttosto uno studente di diritto, filosofia e politica, e in particolare dei luoghi concettuali in cui tali materie si incontrano con la tecnoscienza e l'antropologia culturale. Non conosco perciò bene Vettori. Ciò di cui sono sicuro è che il "postumanismo" che la tradizione stessa dell'Umanesimo, da Pico della Mirandola a Leonardo a Machiavelli sino a Gentile (cfr. quanto dice Severino riguardo a quest'ultimo), ci impone oggi di declinare, e che la "teoria critica" del postmodernismo accademico (Lyotard, Baudrillard, Deleuze...) in parte traduce, è il presupposto stesso perché sia possibile pensare sino in fondo, in una rottura prima di tutto culturale, quella che si annuncia come una possibile rottura ("postumana") di natura e portata antropologica. In questo senso, la rivoluzione "pagana", e ciò che essa ha comportato in termini di mutamento di paradigma rispetto alla cultura del paleolitico rappresenta davvero un'origine esemplare, la cui eredità e modello ci chiama heideggeriamente dall'avvenire come destino con cui siamo obbligati a confrontarci. E ancora, rappresenta la scelta di un "altro passato", quello che ci vede eredi tra gli altri di Talete, Eraclito, Pitagora, Democrito, Ippocrate, Lucrezio, piuttosto che della pira su cui è stato bruciato Giordano Bruno o del tribunale che ha costretto Galileo all'abiura. Un passato che continua a stendere la sua lunga ombra sul nostro presente, sia nelle sue varianti che conservano una fondazione apertamente metafisica, che nelle propaggini secolarizzate e materialiste ormai per lo più ridotte alla sfera etica ed epistemologica, specie dopo la "crisi delle ideologie". D'altro canto, come dice Faye in "Futurismo e modernità" (Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano, vol. 3, Sestante Editore 2009), la prima modernità conosce nel novecento il suo canto del cigno, una "morte trionfale" che ci impone oggi una Aufhebung ipermoderna e perciò "postmoderna" capace di portarci "là dove nessun uomo è mai giunto prima". Oltre la "vecchia" modernità, per una nuova origine.