di Luigi Sgroi
sabato 21 marzo 2015
Recensione/resoconto su Giovanni Sessa, Itinerari della Tradizione
di Luigi Sgroi
Il futuro anteriore di Gioacchino da Fiore e Dante Alighieri * di Pierfranco Bruni
In un tempo di sradicamenti Gioacchino da Fiore e Dante Alighieri sono i profeti da rileggere oltre la cronaca della politica
di Pierfranco Bruni
Non illudiamoci ancora. La nostra epoca ha dimenticato l'identità culturale e ha perso le eredità filosofiche. Occorre rileggere e proporre. Gioacchino da Fiore è una presenza costante nella storia della cristianità. Utopia, eresia, viaggio nella religiosità. Un viaggio profetico che ha tante avventure da raccontare. Ma Gioacchino è un modello che caratterizza tutti i processi culturali che ha poi l'identità cristiana e di fede in tutti i secoli successivi in una dimensione in cui ricerca della fede significa anche ricerca di una centralità dei valori della profezia.
Ernesto Buonaiuti in un suo saggio dedicato al De articulis fidei di Gioacchino da Fiore ha sottolineato: "E se i pontefici romani si sbarazzarono del gravoso onere della potestà politica e ne delegarono il mandato agli imperatori, lo fecero unicamente per non mescolare la milizia di Dio alla burocrazia temporale. Ma il gesto di Costantino, innalzante il pontificato dalla condizione di soggetto e di minorato a dignità di potenza e di comando, fu, oltre tutto, un meraviglioso gesto simbolico, prefigurante il momento in cui, alla fine del mondo, il Signore Gesù avrebbe trionfalmente e definitivamente sottoposte tutte le nemiche autorità della terra, ai propri piedi".
In un quadro in cui le tragedie dominano lo scenario si ha bisogno di ritrovare l'identità del sacro. L'uomo deve superare le burocrazie temporali e i popoli non hanno soltanto la necessità di affidarsi alla democrazia o alle democrazie ma devono recuperare la solidarietà dell'unione che significa legittimare un futuro grazie ad una eredità che non può che leggersi nel testo messianico della rivelazione.
Viviamo un passaggio epocale che viene ad essere contrassegnato da un rapporto tra il contemporaneo e il moderno. In questo rapporto si inseriscono le tracce tematiche che hanno caratterizzato il tempo delle civiltà e lo hanno innescato nelle evoluzioni delle culture. Il contemporaneo e il moderno ormai fanno parte della nostra esistenza del presente e nel presente. Si riscoprono i luoghi e i personaggi si rileggono nella loro storica fisionomia.
L'intellettuale è un giocoliere che sa stare al gioco e i filosofi esteti ridisegnano il cerchio mentre i teologi discutono sull'avventura di Dio e i religiosi pongono la questione della riappropriazione del mistero. In questo nostro tempo c'è una leggerezza delle idee che va di pari passo con il pensiero debole. Il moderno e il contemporaneo si servono di questi modelli che sono i testimoni della stagione delle ideologie.
Siamo attratti dal crepuscolo delle ideologie perché veniamo attraversati costantemente dalla debolezza o dalla necessità del contemporaneo. Il senso religioso è senza ideologia perché è nel di dentro dei segreti che il mistero si rivela. Rivelandosi ci permette di scoprire o riscoprire il valore della vita, i sentieri che si intrecciano nelle culture, i significati del sacro.
Un interlocutore che ritorna a dialogare tra il moderno e il contemporaneo, pur essendo antico, è Gioacchino da Fiore. Perché, ci si chiederà, riproporre Gioacchino da Fiore in un clima di confusioni radicali e di post – determinismo ideologico? Questo tempo che consuma tutto come potrà dialogare con l'abate cistencense che
visse tra il 1135 e il 1202?
Nella cultura occidentale l'abate calabrese resta una figura centrale. Ed è tale sia per gli scritti che ha lasciato sia per i suoi comportamenti che sono sempre oscillati
tra l'eretico e l'utopico. E' certamente uno dei filosofi che ha fatto da apri pista per le problematiche che ha messo in moto una temperie di conflitti e di contraddizioni etiche, morali ed esistenziali.
Il tempo della ciclicità è in Gioacchino da Fiore una motivazione storica e culturale che ha dei presupposti profondamente religiosi. Le sue tre grandi età sono una manifestazione che caratterizzerà tutto lo svolgersi della filosofia vichiana e i relativi orientamenti della critica sul mito, sul tempo della memoria, sulla rivelazione mistica.
Gioacchino da Fiore nel Liber concordiae Novi ac Veteris Testamenti offre la meditazione sulla ciclicità. Le età sono gli "stati del mondo". E' proprio in questo libro che l'abate dichiara: "Il primo è quello in cui siamo vissuti sotto la legge; il secondo è quello in cui viviamo sotto la grazia; il terzo, il cui avvento è prossimo, è quello in cui vivremo in uno stato di grazia più perfetta".
E l'analisi continua su una triplice valenza. E si ha: scienza, sapienza, intelletto. Così di seguito sino ad arrivare agli ultimi stati che ci danno questo quadro: "Il primo riguarda il periodo di settuagesima, il secondo quello della quaresima, il terzo le feste pasquali. Il primo stato appartiene dunque al Padre, che è autore di tutte le cose; il secondo al Figlio, che si è degnato di condividere il nostro fango; il terzo allo Spirito Santo, di cui dice l'Apostolo: 'Dove c'è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà'".
Infatti le tre età sono riassumibili in questa sfera: l'età del Padre, l'età del Figlio, l'età finale dello Spirito. Nel corpus di questo viaggio c'è l'intelligenza spirituale la cui figura dell'angelo assurge a simbolo. Anche qui si dimostrano e si manifestano gli intrecci ciclici. Nell' Expositio in Apocalypsym si legge: "Nella terra, che è l'elemento inferiore, si designa la lettera dell'Antico Testamento, nel mare la lettera del Nuovo Testamento, nell'iride, che compare in mezzo alle nuvole del cielo, il significato spirituale, che scaturisce dall'uno e dall'altro".
La terra e il mare sono non solo elementi partecipativi nella ciclicità del confronto tra tempo e civiltà. Sono portatori di identità e di appartenenza. E proprio per questo Gioacchino da Fiore costituisce il "proposito" di un radicamento che trova nell'Antico e nel Nuovo Testamento la Redenzione che ci farà approdare ad nuova Era. La religiosità senza il mistero non avrebbe senso. Ma lo stesso viaggio messianico si legge nelle metafore della terra e del mare. Ovvero dell'acqua e del deserto. Sono questi i due principi fondanti che ci conducono verso una rivelazione che non può essere soltanto storia ma soprattutto fede. Lo svolgersi di questa attesa
messianica ci avvicina non alla realtà storica ma alla memoria che è lo svolgersi di una rivoluzione cristiana. In questa dimensione di fede il dibattito tra modernità e contemporaneismo è una chiave di lettura fondamentale per afferrare l'importanza del cristianesimo nell'età attuale e diventa necessaria alla luce dell'offerta problematica che ne fa Gioacchino da Fiore. Una chiave di lettura che deriva da due riferimenti centrali. Il simbolo e il sacro.
Ha scritto giustamente Ernesto Buonaiuti: "Impazientemente proteso verso la veniente libertà dello spirito, Gioacchino intende così il mondo delle realtà trascendentali, come il passato rivelato e storico, quali immense e dense parabole, di cui occorre cogliere i significati riposti e i valori tipici. Tutto, nella parola di Dio affidata alla Scrittura… deve essere inteso come una tessitura prodigiosa di simboli e di sacramenti, la cui realtà non velata sarà posseduta unicamente nel nuovo regno Spirito, mentre finora è rimasta oscura e indecifrata".
I simboli e le metafore circondano tutta l'opera dell'abate calabrese. Alla incombente visione di attualizzare il moderno, nel suo contesto storico e nella nostra realtà epocale, si contrappone la visione del "sempre" attraverso il messaggio della evangelizzazione che Gioacchino propone costantemente anche alla luce dei continui sdradicamenti che hanno attanagliato tutte le civiltà e tutte le età. Ci sarebbe bisogno di ridare voce al pensiero metafisico della contemplazione per riconquistare il senso che manca a questo tempo di perdute memorie e di facili euforie.
La profezia non è un miraggio. E' la metafora che si racconta nella nostalgia del futuro. Pietro De Leo in Gioacchino da Fiore Aspetti inediti della vita e delle opere ha sottolineato: "Modello o no, Gioacchino fu l'abate asceta di un ordine profetico, proiettato nei tempi escatologici, più che in quest'età che li precede. Gioacchino abate appare per questo un precursore, anche se per molti aspetti la sua vita e il suo messaggio costituiscono ancora oggi un problema".
Forse fu un eretico. Ma di una eresia di cui questo nostro tempo ha perso il valore. Le sue utopie sono state sconfitte dalla burocrazia del potere. Come avvenne per Dante, di cui il legame con l'abate è una testimonianza spirituale ed etica, l'eresia e l'utopia rappresentarono un modello di vita. Ma sia Dante che Gioacchino oggi non sono moderni o contemporanei o attuali. Sono i profeti che hanno disegnato le immagini nelle quali ci perdiamo. Restano i profeti oltre la cronaca della storia.
Birdman recensione del film con Emma Stone
Lenin, Stalin e l'avanguardia distrutta
Evola futurdada attaccato dagli integralisti
Su Barbadillo è ripreso l'articolo di Vitaldo Conte su Evola (pubblicato su Il Borghese di marzo 2015) attaccato dagli integralisti di varia natura.
11marL'attuale presente è gravido di rigurgiti integralisti, religiosi e di pensiero. Umberto Eco (L'Espresso 9 ott. 2014) parla del "progetto …
A cura di Vitaldo Conte
Vittorio Sgarbi sul "fotografo" del 600, Gerrit van Honthorst
Come al solito grande articolo di Vittorio Sgarbi, il critico d'arte, da Il Giornale:
"Il più noto, e il più riconosciuto e riconoscibile, è certamente Gherardo delle Notti, che traduce, per assonanza, ma anche per sostanza visiva, il nome originale di Gerrit van Honthorst"
Il "fotografo" del Seicento fra scatti e luce artificiale
Gli effetti davvero speciali del caravaggesco olandese. Fra naturalismo italiano e smalto cromatico fiammingo
"Possiamo serenamente affermare che dalla
rivoluzione caravaggesca discendono due grandi invenzioni: la fotografia
e la luce elettrica. L'affermazione è meno paradossale di quanto possa
apparire, perché si manifesta come una constatazione relativa, da un
lato, al concetto di «attimo decisivo» introdotto nella interpretazione
della fotografia da Cartier-Bresson; dall'altro, all'evidenza di una
luce artificiale in molte invenzioni dei caravaggeschi di stretta
osservanza, spesso più radicali dello stesso maestro
Tra questi alcuni veri e propri
specialisti, che verranno riconosciuti e classificati dai contemporanei e
dalla critica proprio per questa specialità.
Il più noto, e il
più riconosciuto e riconoscibile, è certamente Gherardo delle Notti, che
traduce, per assonanza, ma anche per sostanza visiva, il nome originale
di Gerrit van Honthorst. Transitato in Italia intorno al 1610, l'anno
della morte di Caravaggio, lì rimase circa un decennio, fino all'estate
del 1620, quando rientrò nella sua patria, Utrecht. Più di altri, non
meno notevoli, Gherardo approfondisce la sua ricerca sulla luce, che era
stata anche, con diversa intensità, propria di Hendrick ter Brugghen e
di Dirck van Baburen; e, più tardi, di Matthias Stomer. Intorno a loro, e
in particolare a Gherardo delle Notti, vanno ricordati geni e
comprimari, da Georges de La Tour a Pietro Paolini, a Francesco Rustici,
a Rutilio Manetti, fino all'equivoco Trophime Bigot, nome di comodo nel
quale si articolano tre o quattro artisti, sempre più estremi nel
trasformare una candela in lampadina.
Il più programmatico in
questa impresa fu Gherardo delle Notti. L'occasione di una mostra nella
Galleria degli Uffizi, con l'esposizione dei soli dipinti italiani,
«quadri bizzarrissimi e cene allegre», ci consente, una volta per tutte,
di capire una storia che ha i suoi antefatti nelle tele di Antonio e
Vincenzo Campi in San Paolo in Converso a Milano e in quelle di Luca
Cambiaso, veramente sorprendenti. In particolare Cristo davanti a Caifa
del pittore genovese, già nella collezione di Vincenzo Giustiniani nel
1600, fu visto da Gherardo che si confrontò anche con altri spettrali
notturni di Andrea Donducci detto Mastelletta. Di fronte a quegli
intensissimi controluce, in ambientazioni buie, si misura il pittore
olandese, rassicurato da alcuni esperimenti nella stessa direzione di
ter Brugghen, come la Negazione di Pietro , ora in collezione Spier, il
cui lontano ascendente è il dipinto di stesso soggetto di Caravaggio,
imprudentemente acquistato dal Metropolitan Museum of Art di New York
dopo essere stato abusivamente esportato dall'Italia, dove era stato
visto e riconosciuto, alla fine degli anni '60, nella collezione
Imparato Caracciolo a Napoli.
Rispetto a quella di altri
caravaggeschi, la visione di Gherardo rappresenta la mediazione tra il
metodo di Bartolomeo Manfredi e lo smalto cromatico e luminoso dei
fiamminghi. Questo gli consente risultati nuovi e tempestivi (già nel
1610-11), come nel teatrale e pluriluministico Giuditta e Oloferne ,
riconosciuto da Giovanni Papi presso Didier Aaron di Parigi. Di qui
inizia un'escursione drammatica che porta Gherardo delle Notti, fin dai
primi anni del secondo decennio del Seicento, a maturare gli effetti
speciali cui ha legato il suo nome: il Cristo morto con due angeli in
palazzo Reale a Genova (1613), la Cena con sponsali degli Uffizi (1613),
Gesù nella bottega di Giuseppe ora nella Bob Jones University di
Greenville (1614), il San Luca di Chambéry (1614), il Cristo davanti a
Caifa della National Gallery di Londra (1615-16), la Negazione di Pietro
di Rennes (1616-17), la Derisione di Cristo di Los Angeles (1616-17),
la Decollazione di san Giovanni Battista per la chiesa di Santa Maria
della Scala a Roma (1618). Sono questi i momenti più significativi della
parabola del pittore, interrotti soltanto dalla pala per il convento
dei Cappuccini di Albano Laziale, in una ambientazione serotina a luce
naturale, dove sembrano prevalere le suggestioni di Tiziano, di Ludovico
Carracci, di Lanfranco.
A parte questa testimonianza, così
umanamente intensa da muovere emozioni nello stesso Roberto Longhi, lo
scopritore di Caravaggio e dei caravaggeschi, ci possiamo soffermare su
tre importanti dipinti della prima e compiuta maturità di Gherardo delle
Notti. Il primo è la Derisione di Cristo di Los Angeles, che rielabora
il modello della Incoronazione di spine di Caravaggio in un politezza
luminosa che si distribuisce con mirabili effetti sui volti irridenti
dei carnefici, con calcolate vibrazioni di diversa intensità rispetto al
fiotto di luce che investe il Cristo. Pura, mirabile regia
cinematografica. Il secondo, il capolavoro assoluto di Gherardo, in una
spirituale anticipazione di Rembrandt, è il Cristo davanti a Caifa ,
opera teatrale e ammirevole per l'umanissima espressione del Cristo,
messo a fuoco dal faro di luce rispetto agli sfocati astanti sullo
sfondo. La figura di Caifa, col dito levato, è parlante e viva, grazie
al lume che proietta una striscia luminosa sul braccio e dà parola e
palpito al volto. Qui il pittore raggiunge la perfezione. Il terzo
dipinto, per molti versi straordinario, forse il più complesso di quelli
italiani di Gherardo delle Notti, è la Decollazione di San Giovanni
Battista , il cui schema grandioso corrisponde ai principî di decoro dei
frati di Santa Maria della Scala. C'è un grande ritmo nei movimenti
rallentati dei personaggi, con una intima plasticità che governa la
composizione, più compiaciutamente luministica che naturalistica, alla
ricerca di effetti speciali e degli ornamenti di stoffe, piume e
turbanti.
Alla fine, rispetto alla Decollazione del Battista di
Caravaggio a Malta, tutto appare edulcorato, accarezzato da luci
morbide, nelle opere di Gherardo delle Notti, che traduce il dramma
della vita, nella sua insostenibile tensione, in teatro, dove, insieme
al pittore che pensa, trovano occupazione il coreografo, lo scenografo,
il costumista, il direttore delle luci. Mentre Gherardo sale sul
palcoscenico, Caravaggio sta sulla strada".
IL GIORNALE
"Possiamo serenamente affermare che dalla rivoluzione caravaggesca discendono due grandi invenzioni: la fotografia e la luce elettrica. L'affermazione è meno paradossale di quanto possa apparire, perché si manifesta come una constatazione relativa, da un lato, al concetto di «attimo decisivo» introdotto nella interpretazione della fotografia da Cartier-Bresson; dall'altro, all'evidenza di una luce artificiale in molte invenzioni dei caravaggeschi di stretta osservanza, spesso più radicali dello stesso maestro
Tra questi alcuni veri e propri specialisti, che verranno riconosciuti e classificati dai contemporanei e dalla critica proprio per questa specialità.
Il più noto, e il più riconosciuto e riconoscibile, è certamente Gherardo delle Notti, che traduce, per assonanza, ma anche per sostanza visiva, il nome originale di Gerrit van Honthorst. Transitato in Italia intorno al 1610, l'anno della morte di Caravaggio, lì rimase circa un decennio, fino all'estate del 1620, quando rientrò nella sua patria, Utrecht. Più di altri, non meno notevoli, Gherardo approfondisce la sua ricerca sulla luce, che era stata anche, con diversa intensità, propria di Hendrick ter Brugghen e di Dirck van Baburen; e, più tardi, di Matthias Stomer. Intorno a loro, e in particolare a Gherardo delle Notti, vanno ricordati geni e comprimari, da Georges de La Tour a Pietro Paolini, a Francesco Rustici, a Rutilio Manetti, fino all'equivoco Trophime Bigot, nome di comodo nel quale si articolano tre o quattro artisti, sempre più estremi nel trasformare una candela in lampadina.
Il più programmatico in questa impresa fu Gherardo delle Notti. L'occasione di una mostra nella Galleria degli Uffizi, con l'esposizione dei soli dipinti italiani, «quadri bizzarrissimi e cene allegre», ci consente, una volta per tutte, di capire una storia che ha i suoi antefatti nelle tele di Antonio e Vincenzo Campi in San Paolo in Converso a Milano e in quelle di Luca Cambiaso, veramente sorprendenti. In particolare Cristo davanti a Caifa del pittore genovese, già nella collezione di Vincenzo Giustiniani nel 1600, fu visto da Gherardo che si confrontò anche con altri spettrali notturni di Andrea Donducci detto Mastelletta. Di fronte a quegli intensissimi controluce, in ambientazioni buie, si misura il pittore olandese, rassicurato da alcuni esperimenti nella stessa direzione di ter Brugghen, come la Negazione di Pietro , ora in collezione Spier, il cui lontano ascendente è il dipinto di stesso soggetto di Caravaggio, imprudentemente acquistato dal Metropolitan Museum of Art di New York dopo essere stato abusivamente esportato dall'Italia, dove era stato visto e riconosciuto, alla fine degli anni '60, nella collezione Imparato Caracciolo a Napoli.
Rispetto a quella di altri caravaggeschi, la visione di Gherardo rappresenta la mediazione tra il metodo di Bartolomeo Manfredi e lo smalto cromatico e luminoso dei fiamminghi. Questo gli consente risultati nuovi e tempestivi (già nel 1610-11), come nel teatrale e pluriluministico Giuditta e Oloferne , riconosciuto da Giovanni Papi presso Didier Aaron di Parigi. Di qui inizia un'escursione drammatica che porta Gherardo delle Notti, fin dai primi anni del secondo decennio del Seicento, a maturare gli effetti speciali cui ha legato il suo nome: il Cristo morto con due angeli in palazzo Reale a Genova (1613), la Cena con sponsali degli Uffizi (1613), Gesù nella bottega di Giuseppe ora nella Bob Jones University di Greenville (1614), il San Luca di Chambéry (1614), il Cristo davanti a Caifa della National Gallery di Londra (1615-16), la Negazione di Pietro di Rennes (1616-17), la Derisione di Cristo di Los Angeles (1616-17), la Decollazione di san Giovanni Battista per la chiesa di Santa Maria della Scala a Roma (1618). Sono questi i momenti più significativi della parabola del pittore, interrotti soltanto dalla pala per il convento dei Cappuccini di Albano Laziale, in una ambientazione serotina a luce naturale, dove sembrano prevalere le suggestioni di Tiziano, di Ludovico Carracci, di Lanfranco.
A parte questa testimonianza, così umanamente intensa da muovere emozioni nello stesso Roberto Longhi, lo scopritore di Caravaggio e dei caravaggeschi, ci possiamo soffermare su tre importanti dipinti della prima e compiuta maturità di Gherardo delle Notti. Il primo è la Derisione di Cristo di Los Angeles, che rielabora il modello della Incoronazione di spine di Caravaggio in un politezza luminosa che si distribuisce con mirabili effetti sui volti irridenti dei carnefici, con calcolate vibrazioni di diversa intensità rispetto al fiotto di luce che investe il Cristo. Pura, mirabile regia cinematografica. Il secondo, il capolavoro assoluto di Gherardo, in una spirituale anticipazione di Rembrandt, è il Cristo davanti a Caifa , opera teatrale e ammirevole per l'umanissima espressione del Cristo, messo a fuoco dal faro di luce rispetto agli sfocati astanti sullo sfondo. La figura di Caifa, col dito levato, è parlante e viva, grazie al lume che proietta una striscia luminosa sul braccio e dà parola e palpito al volto. Qui il pittore raggiunge la perfezione. Il terzo dipinto, per molti versi straordinario, forse il più complesso di quelli italiani di Gherardo delle Notti, è la Decollazione di San Giovanni Battista , il cui schema grandioso corrisponde ai principî di decoro dei frati di Santa Maria della Scala. C'è un grande ritmo nei movimenti rallentati dei personaggi, con una intima plasticità che governa la composizione, più compiaciutamente luministica che naturalistica, alla ricerca di effetti speciali e degli ornamenti di stoffe, piume e turbanti.
Alla fine, rispetto alla Decollazione del Battista di Caravaggio a Malta, tutto appare edulcorato, accarezzato da luci morbide, nelle opere di Gherardo delle Notti, che traduce il dramma della vita, nella sua insostenibile tensione, in teatro, dove, insieme al pittore che pensa, trovano occupazione il coreografo, lo scenografo, il costumista, il direttore delle luci. Mentre Gherardo sale sul palcoscenico, Caravaggio sta sulla strada".
IL GIORNALE
venerdì 20 marzo 2015
I Linguaggi della Parola poesia e musica in un viaggio etnoletterario Curato da Pierfranco Bruni (Responsabile Etnie del Mibact)
Dentro lo studio di Mimmo Centonze

giovedì 19 marzo 2015
Museo di Tunisi: vittime italiane
Terrore al museo di Tunisi: 22 morti, due sono italiani*
Il
commando armato ha attaccato il parlamento tunisino: era in corso
un’audizione sulla lotta al terrorismo. Il bilancio totale parla di 22
morti, di cui 17 stranieri. Uccisi i due terroristi tunisini. L'urlo
della connazionale in ostaggio: "Qui stanno sparando a tutti, vi prego
aiutateci"
info art. completo Il Giornale
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/tunisi-spari-parlamento-e-museo-diversi-morti-e-feriti-i-1106520.html
*Alla fine le fonti ufficiali confermano 4 vittime italiane... l'Isis islamico ha rivendicato l'ennesima strage... poche
ore dopo che persino il Papa ha praticamente urlato, dopo l'ennesima
strage di Cristiani, nascosta dal mondo quasi, FERMATELI. Un solo
commento: i vari ... Prodi... Monti... Bersani... Letta... Renzi,
paladini del buonismo suicidale non si sentono minimamente in colpa?
Sono le prime vittime italiane del terrorismo musulmano Isis... tutti
civili, nessun militare nessun prete... civili, a parecchi forse è
sfuggita questa fredda sottozero statistica..
info art. completo Il Giornale
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/tunisi-spari-parlamento-e-museo-diversi-morti-e-feriti-i-1106520.html
*Alla fine le fonti ufficiali confermano 4 vittime italiane... l'Isis islamico ha rivendicato l'ennesima strage... poche ore dopo che persino il Papa ha praticamente urlato, dopo l'ennesima strage di Cristiani, nascosta dal mondo quasi, FERMATELI. Un solo commento: i vari ... Prodi... Monti... Bersani... Letta... Renzi, paladini del buonismo suicidale non si sentono minimamente in colpa? Sono le prime vittime italiane del terrorismo musulmano Isis... tutti civili, nessun militare nessun prete... civili, a parecchi forse è sfuggita questa fredda sottozero statistica..
Ernest Hemingway, Cesare Pavese nella letteratura che è vita? Oltre il realismo c’è sempre la realtà del magico? di Pierfranco Bruni
Perché non smette di far sentire la sua voce il mio Ernest Hemingway stretto al mio Cesare Pavese nella letteratura che è vita?Oltre il realismo c'è sempre la realtà del magico?di Pierfranco BruniC'è un viaggio mai esplorato. Pur se si concretizza nella dimensione dell'onirico. La letteratura. Ernest, Cesare, Marylin, Costance, io e altro…Quando Ernest Hemingway si uccise aveva la mia età. Ernest è nella mia vita da anni antichi. Quel "vecchio" il "mare" che lessi in quegli anni del liceo ora è diventato il libro del destino. Gli addii, le solitudini, la consapevolezza che la morte è nella vita. Sono i viaggi che hanno accomunato la mia scrittura a quella di Ernest. Sono passati anni dal giorno in cui lessi quelle pagine. Raccontando Ernest racconterei il mio rapporto con la sua "storia"…Gli addii sono ciò che non capì Moravia. La solitudine e la morte sono i percorsi mai compresi dal vuoto letterario di Calvino e sempre catturati da Pavese. Ernest non è lo scrittore della leggerezza. È lo scrittore del labirinto soprattutto con il tocco della campana. Se si dovesse raccontare Ernest Hemingway, in un rapporto tra vita e letteratura, non basterebbe un solo romanzo di quelli che sono stati pubblicati in vita.Romanzi che, a volte, richiamano il "diario" nel senso delle annotazioni del suo essere, del suo sentire e del suo vivere che si trasformano in immagini narranti. Ma che lasciano un tracciato in cui l'avventura, pur non essendo parossistica, diventa deflagrante in termini letterari. Non solo romanzi. Anche poesia. Le 88 poesie sono il segmento del legame morte vita e vita suicidio. Comunque in Hemingway resta nevralgico il rapporto tra vita e letteratura. E non è soltanto una chiave di lettura per comprendere, nei suoi virtuosismi e nei suoi vizi o nei suoi malesseri, l'uomo. E' piuttosto un intreccio caratteriale che contraddistingue lo scrittore – uomo o l'uomo – scrittore. Hemingway sapeva benissimo che senza scrittura il suo stesso quotidiano non aveva ragione di esistere. Trasformava ogni passione (dall'amore al viaggio, dalla frenesia che lo colpiva in quella incostante inquietudine alla morte) in avventura dello scrivere. Pur tuttavia non si può considerare uno scrittore – diario ma uno scrittore – avventura. Ma anche un avventuriero che aggrediva il tempo fino a quando il tempo non lo aggredì.Ebbene, 21 luglio 1899. Nasce nell'Illinois a Oak Park. La sua biografia lo fotografa senza mezzi termini come un avventuriero dunque. Ma non uso questo termine in funzione dispregiativa. Avventuriero qui sta come ricerca di un superamento che va oltre i limiti del destino. Incocciò la vita convinto di superarla in ogni aspetto, in ogni esplosione. Convinto di vincerla la vita attraverso l'avventura che si trasformava però nella scrittura. Scrivere, come già si diceva, era vivere. Ma scrivere era raccontare la vita nella storia e nel tempo.Non ho altro a cui pensare se non al mare di Ernest Hemingway e al vecchio che lacerava il tempo. Ma il mare è sempre quella dimensione dell' esistere che inquieta lo spazio del nostro tempo come ci ricorda Cesare Pavese.
Cosa accomuna Hemingway e Pavese? La quarta parete. Certamente. E poi quella necessita di fermare il tempo e di scendere nel gorgo. La parola che resta vitale in entrambi si chiama suicidio. Hemingway, marinaio e stanco di vivere la vita nella scrittura. Ovvero di attraversare la scrittura raccontando le vite. Forse solo Marilyn è stata il suo sogno. Poi le palme e gli azzurri di Cuba.
Pavese ha vissuto i suoi Mari del Sud tra una donna dalla voce roca e quella venuta dal mare. Constance. Quella donna che "detterà" a Cesare Verrà la morte…
E sì verrà sempre la morte…Indubbiamente creò uno spaccato nella letteratura europea. Pavese definì il suo vivere letteratura – vita e i suoi codici stilistici ed esistenziali come "monellesche e impassibili birbanterie". Anche se lo considerò un classico insieme ad altri scrittori come Lee Masters, Anderson, Faulkner.Sopravvalutato più del dovuto o meno: non è questo che interessa. Ma Pavese, insieme a quella generazione compreso Vittorini, non ne fece un emblema certamente. Parlò della letteratura americana come ricerca e come conoscenza di un mondo altro rispetto alla formazione letteraria europea e italiana tanto da fargli dire che: "Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l'America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti".Era l'America sul piano culturale e storico che interessava più che i singoli scrittori anche se gli scrittori erano poi parte integrante di un modello soprattutto di vita. Non mancarono anche in quel clima le diffidenze, tanto che Italo Calvino il 13 novembre del 1954 su "Il Contemporaneo" dà una sfilzata di fioretto e riferendosi a Hemingway sottolinea: "quella sua vita e filosofia di vita di cruento turismo cominciò ad ispirarmi diffidenza e perfino avversione e disgusto".Giornalista, ideatore cinematografico, personaggio. Tre aspetti che si integrano. Perché ideatore cinematografico? Molti dei suoi romanzi sono un apripista per sceneggiature cinematografiche. Film che hanno segnato un particolare momento. Film tratti dai suoi romanzi.Il suo realismo non è magico, oltre il magico, ma nello sciamanico, ma ha sempre "i piedi per terra". Ancora Italo Calvino dopo quelle sottolineature aggiunge in tono più pacato: "Hemingway scrive a secco, non sbava quasi mai, non gonfia, ha i piedi per terra". Ma non lo capì, perché Calvino non capì mai il senso del destino dello scrittore destino. Pavese sì. Mentre Giansiro Ferrata nel 1956 in Il romanzo del Novecento afferma: "Perseguì la nuda eloquenza delle cose, il ritmo dei fatti, il rapporto con un sistema di cose carico di realtà quotidiane ma intime, organiche nella propria naturalezza: uno stile positivo, a suo modo".Il contatto con la realtà, per Hemingway, diventa indispensabile. Lo si avverte sin dai primi scritti. In quel romanzo, primo riferimento, del 1926 Fiesta e poi in Addio alle armi del 1929 passando per i racconti Uomini senza donne del 1927 e Torrenti di primavera del 1926. I testi di ricerca, dove si tenta una sperimentazioni stilistica ma anche di intreccio di contenuti, restano i primi lavori del 1923 e del 1954: Tre racconti e dieci poesie e Nel nostro tempo. Un itinerario che, comunque, finalizza già lo scrittore che ha bisogno dell'avventura per creare storia e personaggi. I quali personaggi costituiscono la coscienza della storia che si veste appunto di realismo.In Hemingway la letteratura è nel dialogato che è parola. La parola è il parlato dei personaggi. Hemingway "Fascia le cose con un ripetuto contatto verbale". Ritorna così il rapporto tra linguaggio e realtà. Ovvero tra la cronaca dei fatti, che si traduce in piccole storie e grandi passioni, e la capacità del linguaggio nell'offerta della comunicazione.Quel "contatto verbale" di cui parla Mario Praz è un contatto con le cose del linguaggio il cui linguaggio è la comunicazione dei personaggi. Appunto Mario Praz su "La Stampa" del giugno del 1929, eravamo ai primi romanzi, scrive: "Il suo stile aderisce ai contorni delle cose con una fermezza che ha dell'impersonale. Se c'è uno stile obiettivo è il suo". E prima aveva cesellato: "… si limita a ripetere i discorsi quasi seccamente, a delineare gli aspetti circostanti col minimo di parole possibile".Gli anni Trenta sono anni ricchi di impressionanti avventure alle quali si intrecciano i desideri della scrittura. Il giornalista e lo scrittore sembrano comunicare.Molti soggetti giornalistici si decodificano nel narrato dei suoi racconti e dei suoiromanzi. Nel romanzo c'è dunque la vita. La vita con la sua allegria e soprattutto con i suoi rischi. Ma scrivere e vivere sono costantemente un rischio. La vita va incontro alla morte. La scrittura va incontro al dissolvimento.D'altronde un "avventuriero" come Hemingway non può aver timore dei rischi che gli si presentano. Ma la morte dell'uomo è come se fosse causata dal dissolvimento dello scrittore. Il non poter scrivere significa il non poter comunicare. E il non poter comunicare vuol dire il non saper esprimere emozioni, il non saper catturare passioni, il non poter amare con l'intensità degli amori.Lo scrittore che calava nella scrittura tutta la sua tensione, questa tensione costituiva un gioco infinito tra il dare e l'avere. Il dare e l'avere della parola – vita era la vita che assorbiva la tentazione dell'eros che il raccontare sprigiona. Quel raccontare in cui l'avventura non conosce limiti e orizzonti.Si pensi a Morte nel pomeriggio del 1932. Il soggetto di questo libro è la corrida. Significa il pericolo, il rischiare la vita, la morte, le tentazioni del vivere e del morire. E sono sempre tentazioni di passione. Si pensi ai racconti del 1933 Chi vince non prende nulla. Testi che non vanno segnalati certamente per la loro importanza letteraria ma per la loro fase sperimentale anche se nel testo del 1932 questo frammisto tra vita – rischio e morte sono ben collegate con la metafora – realtà della corrida.Uno scrittore che usa il linguaggio per denudarsi completamente e in questi anni insieme al suo impegno pubblicistico intreccia il realismo letterario ad una denuncia della società americana. Va ricordato, a tal proposito, il volume Avere e non avere pubblicato nel 1937. L'anno seguente vede la luce la sua opera teatrale, la sola che abbia composto, dal titolo: La quinta colonna. Il romanzo che lo fa popolare e lo porta al successo è indubbiamente Per chi suona la campana edito nel 1939. La Spagna, la guerra civile, la rivoluzione. Ma non è un romanzo a tesi. E' piuttosto un romanzo di avventura con tutte le categorie di quei romanzi di avventura nei quali il fascino dell'impresa è più esaltante di qualsiasi altra condizione esistenziale stessa.I quarantanove racconti sono una sintesi di una dimensione creativa che raccoglie gli arcobaleni dello scrivere raccontando la vita, le storie e i personaggi. Questo testo racchiude i racconti pubblicati dal 1921 al 1938. Un'altra testimonianza che va letta come una perenne forma di sperimentazione. Un andare alla ricerca delle parole per mettere su le storie che sono già dentro il cuore. O un andare alla ricerca delle storie per raccordare le parole?Hemingway stesso nella Prefazione a questo testo del 1938 parlando dello "strumento con cui scrivi" dirà: "… io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire, o lustro e ben oliato nel ripostiglio, ma in disuso". Un passaggio che diventa fondamentale sia sul versante stilistico che su quello della condizione tematica. La voglia di scrivere era per Hemingway come la voglia di possedere, di amare, di vivere.Dall'avventura all'intimismo. C'è una analisi di Nemo D'Agostino apparsa nel 1956 su "Belfagor", quando aveva già pubblicato Di là dal fiume e tra gli alberi nel 1950 e nel 1952 Il vecchio e il mare, che dovrebbe far meditare. In questo stesso anno ottiene il premio Pulitzer e due anni dopo gli viene conferito il Nobel. Due testi, questi ultimi, che appartengono alla fase finale della sua stagione creativa ma che si spostano dai precedenti periodi.Ma cosa dice D'Agostino? Così scrive: "Qualcosa ad un certo momento è accaduto ad Hemingway. La vita o il successo o il suo logorio interno e forse la caccia ai simboli che la critica muoveva intorno a lui hanno cambiato Hemingway in peggio".D'Agostino catechizza l'opera dello scrittore americano in due periodi. "Il primo ebbe il coraggio di affrontare il nulla, il che non sempre è un atteggiamento negativo. Il secondo, quello che ha scritto Morte nel pomeriggio e il resto (compreso il molto sopravvalutato Il vecchio e il mare) ha voluto celebrare l'affermazione. Come l'uomo stanco di affrontare un abisso si è ritirato nel mondo alquanto scontato del misticismo estetico e dei miti nebbiosi, per celebrarvi la bellezza dell'osso bianco nella coscia lacerata del torero, il moderno eroismo della disperazione, l'umanitarismo mistico della bellezza dell'amore e della morte". Una sollevazione di natura critico – letteraria che va ad incidere su tutta l'opera di Hemingway. Certo, ci sono situazioni e condizioni letterarie che purtroppo si lasciano pesare proprio in riferimento a quel rapporto a cui si accennava: letteratura – vita. Ma ciò non dovrebbe toccare la sfera puramente letteraria.Ci sono romanzi che sono stati, certamente, sopravvalutati ma ce ne sono altri che andrebbero chiaramente riletti magari con un metro di comparazione critica che esula da impostazioni manichee. Hemingway, nel bene e nel male, resta sì un personaggio ma resta sostanzialmente uno scrittore. Uno scrittore che, volente o nolente, si è costantemente confrontato con la vita ma soprattutto con la morte. Il suo suicidio, se lo si va a valutare sia sul piano letterario che esistenziale, è il suicidio di un personaggio che sapeva di indossare una maschera.Lo scrittore, il più delle volte, è una maschera. Una maschera tragica come qualcuno direbbe. Una maschera ironica. Una maschera che maschera l'indefinibile o l'inverosimile ma dietro ognuna di queste maschere ci dono le debolezze, le angosce, il "logorio" dell'uomo che affronta la tragedia del vivere.La sua maschera era la morte. Una morte che nascondeva ma che poi ha fatto esplodere all'improvviso in un giorno di luglio del 1961. Si suicida e il suicidio, per Hemingway, sembra essere l'estremo rimedio per difendere il personaggio e difendendo il personaggio cerca di salvare lo scrittore.Tra i suoi scritti postumi vanno ricordati Festa mobile e Isole nella corrente. Di questi giorni è Vero all'alba. Di questi tre libri quello che ha una maggiore venatura poetica è Festa mobile pubblicato nel 1964. Lo considero, nonostante la incompiutezza, un romanzo fresco. Un romanzo che lascia trasparire un'agilità di pensiero, un ricordare che si fa sogno, un recuperare, anche attraverso forme simboliche. Continua ad accompagnarmi. La sua scrittura. Il suo vecchio che ha bisogno del mare ma anche le sue poesie. Continua ad essere in me. La sua solitudine, la sua morte, la sua dissolvenza.Una memoria che non è quella giornalistica ma profondamente letteraria. Si respira la Parigi dei bei tempi quando quei tempi erano vissuti con la giovinezza e la vita era una festa. Appunto una festa mobile. Quella festa fatta di incontri, di bevute, di donne, di trasgressioni.Parigi e giovinezza sono una meteora nel cielo dello scrittore. Che, dico nel cielo dell'uomo – scrittore. Ecco perché tutto è una festa. Ed essendo una festa, la vita, è mobile. Nonostante tutto è il romanzo scritto da uno scrittore che sa che il mestiere dello scrivere è anche saper ricordare e afferrare il ricordo per imporlo come linguaggio.In una intervista ad Hemingway il cui tema dominante è l'arte di scrivere e narrare, curata da George Plimpton (ora in una nuova edizione de I quarantanove racconti, editi da Einaudi la quale rimanda alla fonte originaria) si legge: "Con quel che ci è accaduto, quel che succede, quel che conosciamo e quel che non possiamo conoscere, inventiamo un qualcosa che non è una semplice rappresentazione ma una creazione totalmente nuova e più reale di qualsiasi cosa reale ed esistente, e se la rendiamo viva e il risultato è buono, diventa immortale. Ecco perché ci ritroviamo a scrivere, senza altre ragioni di cui siamo consapevoli. Ma chissà quanti altri motivi ci sono e non lo sappiamo".Scrivere è raccogliere, dunque, la fantasia che non ha motivazioni ma che diventa mistero e forse destino. Ancora la passione, la tentazione, la sensazione, l'eros, l'andare e tornare: da Cuba alla Spagna, da Venezia a Parigi. Un viaggio nella letteratura dei luoghi delle metafore e dei personaggi che si raccontano da soli.Non so se sia stato un "grande" scrittore. Hemingway. Forse per alcuni libri non lo è stato. Per altri, forse sì. Ma smettiamola di riproporre i soliti scritti. Quelli cosiddetti famosi e popolari. Rileggiamo, invece, Festa mobile. Chissà se ripartendo da questo incompiuto si potranno afferrare quelle realtà – memoria che sono i segreti di quella festa che è appunto la vita e che Hemingway ha trasformato in avventura. L'avventura è il cerchio del destino. Come in Pavese. Come in Antonia Pozzi, come in quel viaggio di una letteratura che non svela la descrizione, ma si radica nel senso di morte. La letteratura porta il sottosuolo nella propria anima e soltanto il Cristo in Croce può dare voce. Non è riuscito a schiodarsi quel Cristo per Ernest. O la Pietra è rimasta bloccata sulla ferita della roccia. Io ed Ernest. Forse un romanzo. Ma tutto può essere il nulla del romanzo quando la solitudine incontra la morte sul fiume o sul mare e quando si va alla ricerca dei porti i porti sono viaggi o sono luoghi in partenza. Così per Ernest.Quale viaggio altro ci sarebbe stato se Ernest non si fosse suicidato? E con quale Leuco' si sarebbe ancora incontrato il mio Cesare?
Hemingway, i mari del Sud li ha vissuti e li ha abitati nella metafora e nella geografia della esistenza. Pavese li ha custoditi con il pensiero diventato sogno. Entrambi non dimenticando mai che l'amore e la morte provengono dal mare che ha la dimensione del tempo.
La letteratura è anche sapersi confrontare con la morte.
E ora giunge un uomo vestito di bianco e non porta più parole, ma sorriso e con il suono di un ballo sudamericano osserva il passare del tempo lungo le attese che non si chiuderanno più tra le parole e neppure nel ritorno di Marilyn o di Constance.
Perché lo scrittore che è scrittore, ogni oltre pavida leggerezza, scrive sempre la vita che vive? Sì vive la vita che scrive…Ma no, scrive la vita che vive… che avrebbe voluto… che non vivrà… Ernest e Cesare lungo il fiume e tra lo sponde del mio mare…
Recensioni scientifiche di Roby Guerra per Meteo Web
Info: http://www.meteoweb.eu/2015/03/medicina-futuro-staminali-terapia-genica-nanotecnologie/412903/
http://www.meteoweb.eu/2015/01/problema-riflessioni-quarta-dimensione/378244/
mercoledì 18 marzo 2015
Cristiano Rocchio, La crisi di fine ’800 e la rivoluzione futurista
Bibliografia
R. Guerra, Futurismo e Transumanesimo. La poetica di Internet, eBook, Ferrara-Roma, La Carmelina, 2014