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sabato 23 novembre 2024

Ferrara Cambia, Marcello Veneziani a Ferrara, 30 11 2024

 

Ferrara Hotel Astra
Pubblico 
Marcello Veneziani ospite di Ferrara Cambia aps
 
Conferenza del prestigioso  "intelletuale eretico" Marcello Veneziani, leader vertice della Destra postmoderna, a Ferrara  Asino Rosso  Hotel Astra Ferrara  H 17.30

https://www.facebook.com/events/1117662393304561/?
 

 


sabato 17 gennaio 2015

La Tavoletta "Non aver paura di dire": presentazione a Alatri/Frosinone

Marco Cremonini




 Venerdi 30 gennato a ALATRI /Frosinone, Sala Biblioteca Comunale "Luigi Ceci", a cura dell’Assessorato alla Cultura, dopo la presentazione del libro di Giovanni Sessa "Itinerari nel pensiero di tradizione -- L'origine o il sempre possibile", segue.. la presentazione del libro d’arte Tavoletta Heliopolis edizioni  “ Non aver paura di dire”.
La Tavoletta a cura di Sandro Giovannini, poeta filosofo, Luigi Sgroi, Gianni Bertuccioli include lo stesso Sessa e altri circa 20 autori, alcuni assai noti, come Marcello Veneziani, Luca Gallesi, Gianfranco de Turris, Marco Vannini, Gianluca Montinaro,   i neofuturisti stessi Roberto Guerra, Vitaldo Conte, Riccardo Campa, Antonio Sacccoccio, giovani talenti di spicco quali Luca Siniscalco, Andrea Scarabelli, Vito Limone, Filippo Venturini,   Oltre agli stessi Angela Ales Bello, Luigi Alfieri, Alberto Cesare Ambesi, Umberto Bianchi, Mariano Bizzarri, Ettore Bonessio di Terzet, Claudio Bonvecchio, Giuliano Borghi, Agostino Carrino, Raimondo Cubeddu, Giovanni Damiano, Vittorio de Pedys, Massimo Donà, Adriano Fabris, Francesco Franci,  Romano Gasparotti, Giuseppe Gorlani, Luca Grecchi, Michelangelo Ingrassia, Luigi Lombardi Vallauri, Francesco Mancinelli, Gian Ruggero Manzoni, Gianluca Montinaro, Raffaele Perrotta, Miro Renzaglia, Francescomaria Tedesco,  Marco Vannini, Piero Visani, Eduardo Zarelli.
(Tavoletta per la cronaca, ben evidenziata in Italian Network Cultura Italiana nel Mondo e lo stesso Il Giornale

venerdì 18 luglio 2014

I Giovani intellettuali di Dissenso on line



- Lun, 14/07/2014
 
Il trionfo del single sulla famiglia non riguarda solo la vita intima e domestica. Riguarda anche il pensiero, l'arte e la letteratura, per non dire la vita civile. Oggi è impensabile rintracciare una famiglia di pensiero, una corrente filosofica e artistica o addirittura una scuola o un circolo.
Ci sono vaghe etichette, provvisorie aggregazioni, soprattutto mediatiche, o al più si stringono patti più o meno mafiosi per entrare o escludere dal giro. Ma l'idea di un movimento percorso da una tensione ideale comune, espresso in una rivista o in un manifesto, è finita. Pensate a cosa fu il '900 tutto attraversato da correnti e riviste che volevano cambiare il mondo, l'arte, il pensiero. Poi negli ultimi due decenni del secolo scorso si esaurirono le ultime confraternite e sorse il celibato intellettuale. L'intellettuale appare da allora una tenia solium, un verme solitario, molesto al corpo sociale, senza famiglia, nocivo dentro e inutile fuori.
Poi un giorno ti capita di imbatterti in un gruppo di ragazzi. Età media 22 anni, un sito, una pagina facebook, un circolo e alcune pubblicazioni spartane. Uniti da una testata, L'intellettuale dissidente, che sembra riportarti a quarant'anni fa e che vent'anni fa sarebbe apparsa tardivo deja vu. E invece oggi appare qualcosa tra il vintage e il rivoluzionario. Dissenso era la parola d'ordine negli anni settanta, perfino Fini dirigeva un foglio giovanile chiamato Dissenso (che ribattezzammo Dissenteria). Fa impressione soprattutto vedere oggi ragazzi di vent'anni affibbiarsi senza ritrosie l'epiteto di intellettuale... Da cosa dissentono questi intellettuali ragazzi? Dal dominio della tecnocrazia e della finanza, dalla perdita del pensiero nel nome della tecnica e del denaro, dall'utopia dei consumi illimitati, dagli egoismi e gli utilitarismi. E cosa propongono? La comunità, la decrescita, un rapporto equilibrato con le risorse naturali, e addirittura l'uomo nuovo che fu la speranza delle tre rivoluzioni novecentesche: il fascismo, il comunismo e l'americanismo. Una loro affiliazione denominata Sorte, acrostico di Solidarietà romana sul territorio, raccoglie aiuti a chi ha bisogno. E il loro Circolo è intitolato a Proudhon, come i circoli Proudhon di cent'anni fa che furono il laboratorio in cui si incontrarono idee radicali di destra e di sinistra, fino a partorire il socialismo nazionale (da non confondere col nazismo). Difatti, mi dicono, la loro provenienza è mista e i libri citati pure. Da de Benoist a Preve, da Evola a Marx, da Giacinto Auriti a Serge Latouche. Marxisti evoliani, gramsciani-gentiliani, e via con gli ossimori. Insomma soreliani. Li sintetizza bene Diego Fusaro che avendo superato i trent'anni è il decano: per lui Marx è un idealista, Gentile è un marxista, Gramsci è un gentiliano, tutti hegeliani. Semplifico l'intreccio, peraltro ben argomentato. Invocano a gran voce il ritorno alla prassi e alla storia. Per riassumere il loro messaggio: rifacciamo il Novecento, ma stavolta facciamolo meglio. E non opponiamo gli estremi ma lasciamoli convergere, considerando che il vero antagonista è il Centro tecnocratico globale, la cinica Macchina che produce deserti. Non manca, è vero, un vago sapore complottista nelle loro analisi, la convinzione che ci siano centrali più o meno occulte che dispongono gli eventi e i flussi e sono sempre le stesse, ormai ricorrenti, quasi proverbiali. Hanno pubblicato due libri a più voci, Pensiero in rivolta (Barney ed.) e La storia non dorme mai. Elogio dei vinti (Historica) con ritratti doppi di personaggi agli antipodi, tipo Pound-Pasolini, Maiakowskij-D'Annunzio, Chavez-De Gaulle. Tra i giovani autori Sebastiano Caputo, Lorenzo Vitelli, Martina Turano, lo stesso Fusaro.
Il folto gruppo dell'Intellettuale dissidente non è isolato. Se navighi su internet trovi un arcipelago di Isole Ribelli. Ne cito alcune che conosco. Arianna, innanzitutto, che oltre al sito ha anche una feconda casa editrice. Poi siti variamente dissidenti, da Barbadillo a l'Intraprendente, ai siti ispirati a Massimo Fini (la voce del ribelle), Maurizio Blondet (Effedieffe), Ida Magli (Italianiliberi). O siti più classici, come Totalità o Storia in rete, revisionista. Per non aprire l'universo dei siti catto-tradizionalisti, o in difesa della vita, da ProVita in giù. Certamente ne ho saltati alcuni, anche significativi, per non dire di altri siti, blog e pagine facebook raccolti intorno a un autore; ma questo non è un censimento, è un percorso soggettivo. Costellazioni diverse e non sovrapponibili, ma percorse da un comune disagio e un comune veicolo. Il comune disagio è l'Europa che catalizza i dissensi e dietro l'Europa il Potere Globale, tecno-finanziario e la riduzione di ogni differenza a un Pensiero unico, dove la parola di troppo è pensiero. E il comune veicolo è la Rete, considerando che l'editoria cartacea non offre loro spazi e opportunità; così vivono di rapina, in senso buono s'intende, perché trascinano i testi di carta “compatibili” nei loro siti. Da vecchi barbogi che ne han viste tante e hanno collezionato delusioni, diciamo pure che sono cose già viste, già dette, già fatte e disfatte, e velleitarie. Sarebbe facile sottolineare alcune letture acerbe e altre ormai marce. Ma ciascuna generazione sbaglia a suo modo e non può imporre l'esempio dei propri errori per scoraggiare quelli altrui. Nessuno può vivere al posto d'altri o pretendere che chi viene dopo di noi parta dal punto in cui siamo arrivati noi.
Il lato positivo è che questi «intellettuali dissidenti» et similia sono ragazzi pensanti e critici, non sono rassegnati e non vivono di automatismi, anche se non mancano riflessi condizionati e allergie giovanili. Riaprono la dimensione comunitaria, riscoprono la dignità della politica e la forza delle idee, vogliono decidere l'avvenire e non subirlo, rimettono in discussione i dogmi acritici del presente e l'irreversibilità della macchina che corre e non si può arrestare; riscoprono - loro, in gran parte antiliberali - il fascino della libertà nel dissenso. Insomma, esprimono una vitalità da incoraggiare. Poi magari si dirà che è la disoccupazione intellettuale a incentivare il dissenso, come area di parcheggio e di protesta, sfogatoi in attesa di collocazione. Vediamo in faccia la realtà: è schiacciante la prevalenza del cretino nella rete, la sua egemonia è contesa solo dal volgare (ma spesso le due cose si fondono, per empatia). Pensate ai siti turpi o alle sette fanatiche che gremiscono la rete. Una ragione in più per apprezzare questi ragazzi che dissentono, riflettono, paragonano e non insultano. E in piena era digitale coltivano l'oscena pretesa di dirsi intellettuali

giovedì 5 giugno 2014

Marcello Veneziani, il duce e la confessione poetica

IL POETA DEVOTO CHE CONFESSÒ IN EXTREMIS IL DUCE
Allievo di Maurras, amico di D’Annunzio, Guénon e Mishima, folgorato da Padre Pio. Pierre Pascal, un intellettuale inattuale


da www.ilgiornale.it/ di lunedì 02/06/2014

Se citi Pierre Pascal a un letterato o a un intellettuale, quasi certamente non sa chi sia. Eppure Pascal, poeta sacro, scrittore visionario e antimoderno, yamatologo e iranista, fu amico di Gabriele d’Annunzio, con cui ebbe un fitto carteggio ancora inedito e di cui curò alcuni scritti, fu discepolo di Charles Maurras, amico di René Guénon e di Julius Evola, di cui fu pure traduttore, amico di Mishima e di Montherlant, i due scrittori contro il loro tempo che si tolsero la vita alle soglie degli anni Settanta, ai quali dedicò due odi.
Nato in Francia, vissuto da ragazzo in Giappone seguendo suo padre, grande chimico, poi tornato a Parigi, fondatore di Eurydice, rivista di poesia a cui collaborarono Paul Valéry e lo stesso Maurras, combatté in Spagna con i nazionalisti, dove difese le Carmelitane dall’assalto dei comunisti. A guerra finita fu condannato a morte in contumacia in Francia e visse a Roma in assoluta povertà. Incontrò tre volte Padre Pio il quale, pur non conoscendolo, sapeva tutto di lui. Pascal notò nella penombra della cella le stimmate che si facevano lucenti, «di quella luce soprannaturale che prelude alla luce eterna nei corpi risorti e gloriosi». Restò folgorato dal Frate di Pietrelcina come accadde a un altro metafisico, sodale di Guénon e di Evola, Guido de Giorgio. Su incarico di Mussolini, Pascal fu il curatore della Biblioteca del Vittoriale di d’Annunzio durante la Repubblica di Salò e nel frangente della guerra riordinò e salvò carte preziose. Pascal fu l’ultimo scrittore straniero a incontrare Mussolini il lunedì di Pasqua prima della sua uccisione. Su quell’incontro Pascal scrisse un libro uscito e poi sparito nel dopoguerra, ripescato tramite Roberto Melchionda da Sandro Giovannini e ora riproposto a cura di Federico Prizzi, Mussolini alla vigilia della sua morte e l’Europa (Novantico, pagg. 173, euro 20).
Il libro è presentato come testamento spirituale di Mussolini ma sul piano della ricerca storica fornisce scarsi elementi. È il frutto di un colloquio poetico con Mussolini a Villa Feltrinelli, a Gargnano, dove Pascal fu accompagnato dal ministro della cultura, Fernando Mezzasoma. Poco prima di incontrare il Duce, Pascal aveva tradotto in Francia il libro di Mussolini dedicato alla morte di suo figlio, Parlo con Bruno. Mussolini aveva letto, riletto e apprezzato la sua traduzione e la poesia dedicata da Pascal al figlio. È un Mussolini spento quello che incontra il poeta, anche se lampeggiano i suoi occhi; un Duce lirico che descrive commosso i colori del lago di Garda, l’azzurro, il rosso, le brume e parla di amore, di gloria e di morte. Più magro, con occhi più grandi «ma più dolci e più familiari», un volto dal color d’avorio che s’intrattiene in piena bufera a parlare di storia e di letteratura e dice che l’Italia è stata creata dalla poesia di Dante, dalla pittura e dall’arte che «resterà la parola dell’Italia e la sua unità». A un tratto però s’accende, tira fuori da uno scaffale una cartella ed estrae la fotografia di una ragazza radiosa. Aveva diciott’anni, era piemontese e ardente fascista. «Un giorno fu rapita - racconta Mussolini a Pascal - e giudicata nel modo che voi potete immaginare, e condannata a morte. Il giorno dell’esecuzione due volte gli uomini del plotone rifiutarono di tirare. Ah, Pascal quanto è potente la bellezza!». Poi il capo di queste «anime perse» la uccide sparandole due pallottole nella testa. «E tutti i giorni è così, sospira Mussolini, Tutti i giorni...».
Da giovane Pascal aveva incontrato più volte Mussolini, in missione per il governo francese. C’è perfino una foto che lo ritrae accanto al Duce mentre arringa la folla a Piazza Venezia, unico straniero al suo fianco. Come Ezra Pound, anche Pascal si innamorò dell’Italia dantesca e fascista, a cui dedicò odi, i suoi Cantos. Nel 1947 fu condannato a morte in Francia per «intelligenza con il nemico», perché amico di Maurras, vicino all’Action Française e ammiratore di Mussolini, oltreché cultore dei Samurai. Un suo libro autobiografico, In morte di un samurai, fu ripubblicato qualche anno fa dal Settimo Sigillo. Fu proprio il libro-testamento di Mishima, Sole e Acciaio, che a diciott’anni mi fece conoscere Pascal che ne aveva curato l’introduzione. Poi lo ritrovai come biografo e traduttore di Evola a cui dedicò una ikebana, Lux evoliana. Pascal fu indirizzato da giovane a Evola da René Guénon che gli consigliò la lettura di alcuni suoi libri. Pascal ventenne frequentava con Pierre Noël la casa parigina di Guénon, con cui ebbe poi un ricco epistolario. Ma a un certo punto il grande metafisico ed esoterista abbandonò Parigi e si ritirò in Egitto assumendo un nome islamico e finendo la propria vita al Cairo. Privati della loro stella polare, i giovani parigini come Pascal, ondeggianti tra Oriente e Cristianesimo nel segno della Tradizione, si rivolsero allora ad Evola.
Pascal non cessò di essere cattolico. Devoto a Santa Teresa d’Avila e alla Madonna di Fatima, criticò duramente il Concilio Vaticano II. Prese a frequentare Evola fino ai suoi ultimi giorni, abitando a poche centinaia di metri dalla sua casa; fu suo il resoconto della cremazione e della dispersione nelle Alpi delle ceneri evoliane. In una lettera a Renato Del Ponte, racconta che Evola amava parlare con lui «di cose intangibili». Poco prima che Evola morisse, Pascal va a trovarlo e così scrive: «Egli aspetta la morte. Tuttavia l’ho trovato con un bel viso raggiante, lo sguardo vivace, la loquela chiara e la mente maliziosa». Pierre Pascal fu cancelliere dell’ambasciata imperiale dell’Iran presso la Santa Sede e tradusse le opere di grandi poeti persiani, oltre che testi buddhisti. Morì a ottantuno anni a Roma, nel 1990, e fu sepolto al Verano nella cappella dei Caetani Lovatelli. Sulla sua lapide è scritto: «Poeta e scrittore in esilio». Belle testimonianze su di lui scrissero Giovanni Artieri, lo stesso Del Ponte e Gabriella Chioma, Aldo La Fata e Silvano Panunzio. Anche a lui si ispirò il gruppo di poeti del Vertex.
Quando scrisse del suo ultimo incontro con Mussolini nell’Albergo dell’Altra Vita, come chiamò Villa Feltrinelli con i suoi abitanti destinati alla morte, Pascal ricordò di Mussolini l’ultimo sorriso e «il suo sguardo obliquo dardeggiante su di noi». Pascal rispose con un sorriso e un mezzo inchino, nutrendo il netto presagio che sarebbe sparito per sempre. Pascal, nota Prizzi, si sentì come Rutilio Namaziano, «cantore di un mondo in rovina che stava scomparendo». Convinto, come disse a Mussolini, che la Poesia fosse una cosa più seria della storia. Perciò poi visse al riparo dai tempi, cercando la via dell’eternità.

lunedì 7 aprile 2014

Resoconto prime presentazioni del libro di Giovanni Sessa “La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo”

Resoconto prime presentazioni del libro di Giovanni Sessa
"La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo"
Edizioni Bietti - 2014
1) Alatri - Biblioteca Comunale, Giovedì 3 aprile 2014, ore 18. Assessorato alla Cultura.
2) Fiuggi - Sala Consiliare del Comune, Venerdì 4 aprile, ore 17,30. Consiglio dei Giovani.
3) Roma - Galleria l'Universale, Via Caracciolo 12, ore 18.


Relatori: Giovanni Sessa, Marcello Veneziani,
Andrea Scarabelli (Edizioni Bietti), Sandro Giovannini (Edizioni Heliopolis).

Nelle 3 presentazioni, diverse per ottimi contesti di locazione, presenza di pubblico ed ordine di organizzatori e presentatori, l'interesse della partecipazione si è mossa ugualmente verso una realmente interessata attenzione alle problematiche sollevate principalmente dalla sconvolgente 'novità emiana' e dalla relativa coinvolgente capacità dei relatori di saper inquadrare tale libertà di scepsi nella dolente realtà del quotidiano.

Il sapiente lavoro filosofico di Sessa ha ripercorso un interminabile 'secolo breve', schivando rovine e macerie interpretative, pur eclatanti e quindi beffando i 'piantatori di bandierine' interessati solo a risibilmente marcare i rispettivi desolati territori, ormai privi di sangue ed anima. Ciò anche senza nulla concedere ai mestatori del disincanto e della dimenticanza eterodiretta, e dello scettico volgare, valorizzando organicamente il lungo esplicito silenzio di Emo, filosofo letteralmente e letterariamente postumo, sempre più al centro dell'interesse speculativo odierno, per merito del grande lavoro esegetico di Donà e Gasparotti e con l'interesse delle più importanti menti attive ed il favore di tanti giovani intelligenti colpiti soprattutto dall'integrità inattaccabile del filosofo veneto.

L'inedita sorprendente contestualità filosofica emiana, la capacità d'aggredire ogni dimensione speculativa, dalla puramente ontologica a quella religiosa a quella estetica a quella metapolitica rimanendo sempre coraggiosamente confissi nella centralità genialmente ossessionata dell'uno-doppio Nulla e della sua meraviglia inestirpabile, creante e produttiva di ogni cosa e di ogni riflessione sulla cosa stessa, è stato il grande risultato di questa prima monografia organica emiana di Giovanni Sessa e la ragione per la quale Giovannini ha sempre parlato di un libro epocale, creatore di varchi e distruttore di facili rendite di posizione, ma implicitamente ricostruttore di migliori sintesi e più avanzati contesti di pensiero. L'autore ha saputo invece, sapientemente e con ordine, mostrare scaturigini prime del proprio interesse, ragioni teoretiche complessive esplicitate nell'interminato ed interminabile palinsesto emiano, contestualità storico-filosofiche prodigiose e tutt'altro che provinciali ed unicità potentemente sistematica nell'apparenza aforismatica e diversamente strutturate proprie in un 'genio che si diletta' rispetto ad un 'dilettante di genio', anche nelle moltissime figure diverse e contestuali del percorso emiano, intimo ma problematicamente affollato. Ovvero attraversato dalle pur diversissime 'grandianime' novecentesche da Gentile a Spirito, Rensi, Martinetti, Pareyson, Savinio, Campo, Benveniste, nella sequela anteriore, empatica ma critica, della Romantik, nella risalita memoriale alla mistica (l'annichilirsi costitutivo), immemoriale al plotinismo ed alla intesa postuma e sconcertante, quasicolliana, rispetto ai detti presocratici e principalmente (meravigliosa fruttuosità potenziale d'ulteriore sequela in ricerca), in quelle sempre da ulteriormente collegare (e rivolte al nostro futuro) di Colli, Evola, Noica. Allora la grande implicante serietà del lavoro di Sessa è stata compresa dalle edizioni Bietti, rappresentate da Andrea Scarabelli, editrice che con un ricco e novatore catalogo sta producendo ad altissimo livello nel campo della disamina della condizione di modernità e postmodernità, confermandosi ulteriormente con questo testo ottimamente risolto per apparato critico e grafica. Ciò è stato ribadito con parole di grande approfondimento, anche emozionale, da Marcello Veneziani, che, da tempo interessato alla provocazione emiana, ha colto la grande sfida interpretativa di Sessa soprattutto nell'opporsi emiano alla deriva della democrazia epidemica, mentre siamo anche tutti forse più spaventosamente ancora esposti alla manovra del non-senso e del non-pensiero, esiziale forse maggiormente d'ogni precedente tragico deragliamento, contro cui Veneziani ha saputo richiamarci con intelligenza d'analisi e richiamo brillante, seppur dolente, di sintesi. Sono intervenuti molti amici con penetranti scoli ai dialoganti richiami del relatori e con richieste non formali d'approfondimento che hanno tramutato la pur necessaria prassi editoriale in autentico evento di pensiero.

Anche la tavoletta Emo/Sessa/Gasparotti/Giovannini della Heliopolis Edizioni, che commenta sorprendentemente ma convintamente, a riuscito servizio, il libro primario di Sessa, ha contribuito in modo, crediamo, non del tutto marginale, alla forza dell'occasione intelligente.

Sandro Giovannini
(7 Aprile 2014, Segreteria, Nuova Oggettività)

lunedì 3 marzo 2014

Marcello Veneziani: Le buone ragioni per dirsi conservatori anche nel XXI secolo


IL GIORNALE


*" La lontananza tra Cioran e Noica (PHOTO) non è semplicemente spaziale, ma anche lessicale, una distanza sostanzialmente spirituale.  Due uomini (e non solo due) che si ritrovano nel tempo, ma non ancora nella dimensione interna.  Già l'inizio della lettera di Cioran ne è testimonianza : "...questo mondo 'meraviglioso' che, secondo voi, ho la fortuna di abitare e di esplorare. Potrei rispondervi... che questo mondo non è meraviglioso..."  Noica è in grado di percepire la bellezza sia del proprio che di "quel" mondo, perché ha radici ben salde, ha già il meraviglioso nella terra che non ha lasciato, nei luoghi e nella lingua che non ha abbandonato, lui già padrone, fin dalla giovinezza, del francese...."  Sandro Giovannini


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A usare il vecchio gergo automobilistico, i conservatori sono il freno, i progressisti l'acceleratore e i centristi la frizione. Moderata è solo l'andatura. Poi l'automatismo ha reso superflui i pedali. Ma la parabola ancora regge per far comprendere che in politica come nella vita sono necessari i conservatori quanto gl'innovatori.
Però il nostro è un Paese fermo o che gira a vuoto, con l'acceleratore a tavoletta e il freno a mano. Dinamico a parole, quietista di fatto; ossia ideologicamente progressista, praticamente stazionario. L'epiteto di «conservatore» resta tra gli insulti peggiori che si possa rivolgere a chiunque. Si sentono offesi anche gli stessi conservatori. Questo rende doppiamente meritoria l'opera di Gennaro Malgieri, Conservatori europei del Novecento, un'antologia uscita per I libri del Borghese (pagg. 265, euro 18) che raccoglie ventuno grandi conservatori di cui uno solo vivente (Roger Scruton). Nel suo bel saggio introduttivo, Malgieri offre al lettore un quadro d'insieme, ne fa la storia e la fenomenologia e giustamente definisce quella conservatrice non una ideologia ma una visione del mondo. Difficile e controversa la data di nascita. In senso lato conservatori furono anche grandi autori dell'antichità. Limitandoci alla modernità, il pensiero conservatore sorge nel day after della rivoluzione francese, con il saggio di Edmund Burke e gli aforismi di Rivarol. Sul piano storico, ha ragione Malgieri, la sua genesi ufficiale si può forse datare al 1818 con la nascita del giornale Le Conservateur di Chateaubriand. L'antefatto storico è il Congresso di Vienna, di cui quest'anno è il bicentenario, anche se per quell'evento è più giusto parlare di Restaurazione e non di Conservazione, cioè di un ritorno allo status quo ante, un ripristino e non una continuità, che è invece il perno del conservatorismo.
Grandi nomi allinea Malgieri nella sua antologia, e altri grandi se ne potrebbero aggiungere, a dimostrazione di quanto grande sia il pensiero conservatore. In Italia, si sa, non c'è mai stato un vero ed esplicito Partito Conservatore; ci andò molto vicino la Destra storica, ma il conservatore italiano ha sempre esibito l'altra carta d'identità: cattolica o nazionalista, ma a volte anche liberale o addirittura socialista. Da noi il conservatorismo è stato più una malattia degenerativa che una visione del mondo, un'indole viziosa di cui vergognarsi piuttosto che un'identità da mostrare senza complessi. Oggi il tema sembra superfluo perché l'automatismo vanifica le opzioni conservatrici e progressiste e neutralizza la politica. E poi domina lo stupido luogo comune apocalittico che non c'è niente da conservare: e allora buttatevi giù dal ponte, suggerisco. Non ha senso conservarvi in vita...Vi sono invece a mio parere quattro buone ragioni per dirsi conservatori nel corrente anno 2014, con il corrente, molto corrente premier Renzi, nel corrente degrado. Provo a dirle nel modo più semplice, come si addice ai conservatori. Per cominciare non riusciremo mai a salvaguardare l'Italia, la sua ricchezza, i suoi beni artistici e culturali se non acquisiremo la mentalità che c'è qualcosa di prezioso da conservare e proviene dal nostro passato. Si potrà mai fare vera conservazione dei beni culturali se si demonizza l'espressione conservare o la si riduce a quella chimicamente sospetta dei conservanti per gli alimenti? Se non coltivi la memoria, se non ami la tua storia, la tua tradizione, il tuo passato e le sue glorie, e le cose che esistono, non potrai mai tutelarle e valorizzarle.
Secondo tema su cui insisto è la connessione verticale. È necessario vivere connessi, ma non solo al proprio presente e non solo in latitudine, ma anche al passato e in profondità. Alla connessione orizzontale, garantita soprattutto da internet, è bene affiancare la connessione verticale, con la storia da cui proveniamo. Il conservatore fonda la sua proposta e la sua visione su un patto di sangue e di anima tra le generazioni. Non è un singolo ma un erede gravido.Terza ragione: nell'epoca del consumo rapido di vite, legami, affetti e merci, è bello scoprire la gioia delle cose durevoli, la continuità di una vita e scorgere in pieno movimento e mutamento punti fermi e riferimenti saldi, e distinguere nella provvisorietà di tutto alcuni orientamenti permanenti. Benché nemico dell'ottimismo, il conservatore non cede al catastrofismo, perché il suo sguardo lungo gli consente di dire che non andiamo né verso il migliore dei mondi possibili né verso l'ecatombe, i disagi cambiano aspetto ma ci sono sempre stati; questa non è la fine del mondo, semmai è una fine, si chiude un ciclo, un'epoca, non è l'apocalisse. Nihil sub sole novi, o meglio, in ogni mutamento ci sono analogie, ripetizioni e costanti; in ogni guadagno c'è una perdita, e viceversa.
Infine, la quarta ragione che le raccoglie tutte: il conservatore non è antagonista dei cambiamenti, dello sviluppo e della tecnica, ma vuole compensarli. Oggi più di ieri la conservazione è un principio di compensazione, non di reazione o d'opposizione alla realtà. Il conservatore bilancia la fretta con la lentezza, il globale con il locale, la tecnica con la cultura, l'artificiale con il naturale, la novità con la memoria, la mobilità con le radici. E ciò corrisponde a un'esigenza biologica perché abbiamo bisogno sia di novità e fratture che di sicurezze e persistenze. Il conservatore è realista, ha senso della misura, dei limiti e dei confini, sa che la vita inspira ed espira, ha sistole e diastole, è andata e ritorno.
Malgieri, come me, ama in particolare la rivoluzione conservatrice, non solo nel senso del movimento culturale e letterario emerso tra le due guerre, ma nel significato di coniugare la saldezza dei principi al dinamismo degli assetti, in quel punto in cui il radicato volge in radicale. Constantin Noica, nel Saggio sulla filosofia tradizionale (ETS, 2007), sostiene che il puro divenire è dissiparsi, perdersi e negare, «solo il divenire entro l'essere istituisce, edifica, afferma». Il divenire dentro il cerchio dell'essere è il senso proprio della rivoluzione conservatrice, fondata sul ritorno. Horror vacui contro cupio dissolvi. Nell'arcipelago conservatore c'è chi ha una preferenza di tipo liberale o di tipo religioso, chi è più pragmatico e chi è più orientato verso i principi metafisici. Per il conservatore la Tradizione è principio di fondazione, le tradizioni sono beni da salvaguardare, ma il tradizionalismo è sclerosi, la sua rigidità coincide col rigor mortis. La Tradizione sta al tradizionalismo come la fiamma sta alle ceneri. Il conservatore non è un imbalsamatore. Semmai un tedoforo.


**nota di RobyGuerra....

Gran articolo di Veneziani, conservatori e rivoluzionari, lo diceva anche Berlinguer potenziando sia ben chiaro e contro ogni ideologismo, quel che ha discusso Veneziani. Ma perché solo dal Novecento Malgieri cita, evidenzia un solo rivoluzionario conservatore vivente? E perché Veneziani non evidenza questo baco? Alain de Benoist che è ... un cattopaganocomunista? Oggi non esistono rivoluzionari conservatori in Italia viventi, lo stesso Veneziani ad esempio? O altri? Oppure magari questa grande letteratura diversamente rivoluzionaria e conservatrice in avanti in senso Eraclito magari o futuristico e non in banale linea retta veteroprogressista non decolla mai perché sotto sotto sempre meglio Spengler che il Futuro da scaraventare nel Reale per finalmente trasformarlo e renderlo Vivo e Sublime per la maggioranza degli esseri umani?  Poi dopo il web basta poco per farlo, almeno nella Parola...




sabato 12 ottobre 2013

Marcello Veneziani: per una Vera Destra 2.0


Volevate una destra europea e siete stati subito accontentati. Dico a voi stampa, partiti e poteri che avete invocato, per brindare alla fine del ventennio berlusconiano, una destra europea anche per il nostro Paese. E per servirvi, l'Europa vi ha subito mandato un cadeau, un assaggio e un prototipo.
Il partito di destra che trionfa nei sondaggi in Francia come primo partito è il Front National di Marine Le Pen. Che sia di destra non potete dubitarne, è l'unico grande partito europeo che rivendichi quella matrice. E che sia una forza europea nemmeno, sia perché si richiama all'Europa come civiltà, come unione delle patrie e delle tradizioni; sia perché i temi che affronta sono esattamente i tre temi su cui si stanno concentrando le destre europee: la tutela della sovranità popolare dal dominio dell'Europa tecnocratica e finanziaria; il disagio degli europei per l'irresponsabile cedimento demagogico ai flussi migratori incontrollati; la difesa della famiglia e delle tradizioni civili e spirituali rispetto alla riduzione della famiglia a unione fra le altre, tra genitore uno e genitore due, più frattaglie che nell'antichità erano denominate figli. Sono questi i tre temi su cui si ritrova la destra europea, in tutti i versanti.
Prima di parlare - come fa il mediocrissimo Hollande - di deriva estremista, sarebbe il caso di chiedersi come mai decine di milioni di europei, non piccole minoranze agitate, si rivolgano a forze come il Front National. Non discuto se siano estremiste o moderate, mi fermo ai contenuti e alle motivazioni; e poco senso ha esorcizzare la Bestia, estrarre il cartellino rosso dell'estremismo o ripiegare sul cartellino giallo del populismo. Se un partito diventa il primo partito qualche spiegazione dovete pur darvela, senza ricorrere agli incantesimi di qualche mago, Silvian per esempio, o di qualche strega, Marine per esempio. Il discorso allora investe le due principali forze europee e il loro tradimento dei rispettivi elettorati. La forza socialista da una parte che ormai non si cura più del disagio popolare, delle famiglie che stentano a vivere al tempo della crisi, della giustizia sociale e dei proletari ma è interamente proiettata nel codice ideologico e penale del politically correct e si occupa solo di gay, immigrati, lessico e maggior pressione fiscale. Ma l'altro tradimento che colpisce più da vicino è quello dei popolari. Un tempo erano una forza vagamente d'ispirazione popolare, cristiana, europea. Adesso sono diventati una forza del tutto acquiescente sui temi prima indicati, totalmente prona alla Merkel e ai poteri tecno-finanziari degli eurocrati. C'è da rimpiangere pure l'epoca di Mitterrand e di Kohl. Se la destra europea assume quei connotati e sceglie quelle forze politiche è a causa di quel tradimento; la gente non si sente più difesa dai diktat europei, dagli strozzini del debito sovrano, ma anche dalle migrazioni incontrollate e dal totale sfascio delle strutture sociali primarie, come la famiglia. E allora non sentendosi rappresentata dai popolari e nemmeno dai socialisti, ricorre a una destra popolare e nazionale. In Francia la défaillance dei moderati non ha i tratti del partito popolare ma del gollismo di Sarkozy. Ma il percorso è lo stesso.
Questa è oggi la destra europea. Il populismo sorge quando le sovranità popolari non contano più; l'estremismo si affaccia quando nessuno dà risposte efficaci ai problemi reali della gente. Da noi quella destra deve ancora farsi largo perché l'antipolitica ne ha rubato il posto. Quell'antipolitica, che oggi grilleggia, rappresenta una deriva estremista, subculturale e fatuo-populista della sacrosanta protesta popolare. Proprio ieri mentre in Francia esplodevano questi sondaggi che proiettano sulle prossime elezioni europee un trionfo del Front National, in Italia alcuni spezzoni della destra venuta da An, più personalità significative del centrodestra, hanno dato vita a un'officina per rifondare una destra in Italia. E non è da sottovalutare su quei temi il ruolo della Lega. Resta l'incognita dell'approdo berlusconiano, che viene bombardato non solo dagli apparati mediatico-giudiziari e politici interni ma anche dai popolari europei. Ma se si vuol parlare di una destra veramente europea, davvero democratica, realmente all'altezza dei nostri tempi, non si può prescindere da quei tre temi popolari che prima indicavo e su cui insisto da qualche tempo. Poi, certo, si può auspicare una versione più seria e rigorosa, non estremista né populista, di quel diffuso sentimento e di quelle concrete istanze. So che per lorsignori la destra dev'essere quella specie di bromuro che serve a tener fermo il popolo dal versante moderato, mentre la sinistra lo tiene fermo dal versante progressista, così l'eurocrazia può tirarci tutti i denti e gli organi vitali che vuole. Ma la destra europea, democratica e popolare, come si è già visto alle elezioni, non va sui Monti, preferisce la Marine...
IL GIORNALE

sabato 5 ottobre 2013

Ex Sinistra e Ecocomunismo...

Quarant'anni fa l'Italia si svegliò dal sogno del benessere e dal sonno del consumismo e piombò nella depressione cupa della crisi economica. Era il 1973, e l'Italia, con l'Occidente intero, entrò nell'autunno dell'Austerity. Fu chiamata così in lingua internazionale, preludio alla globalizzazione, la risposta etica ed economica alla crisi che ci fece perdere l'euforia sprecona degli anni Sessanta.
Risuonarono parole cancellate dall'opulenza del boom economico e dalla liberazione sessantottina: sacrificio, risparmi, austerità. L'origine dell'austerity fu la crisi del Medio Oriente e l'impennata del petrolio. Fu l'ultima crisi economica legata a un bene reale come l'oro nero: poi, le crisi diventarono soprattutto finanziarie. Fu in quel tempo che la riserva aurea smise di essere il parametro per le finanze di un Paese. Finì l'età dell'oro. Gli effetti sociali dell'austerity furono traumatici ma non tutti malefici. Entrammo nell'epoca del risparmio energetico, la benzina triplicò i prezzi nel giro di pochi mesi, i limiti di velocità frenarono la corsa, calò l'oscurità per le strade di notte per non sprecare l'elettricità, ci fu un limite di tempo e di temperatura anche per i termosifoni. L'oscurantismo colpì soprattutto l'aspetto ludico: i locali pubblici chiudevano prima, concerti e veglioni non potevano inoltrarsi nella notte, le sale del cinema anticiparono gli ultimi spettacoli, persino la tv chiudeva prima delle ventitrè... E poi le domeniche a piedi o in bicicletta, la prima vera crisi dell'auto e dei consumi, i primi elogi della lentezza e del km0...
Fu curioso e paradossale l'effetto che produsse da noi la crisi petrolifera: anziché attivare l'investimento sulle fonti energetiche alternative al petrolio, a cominciare dal nucleare, produsse una forte sensibilità ecologista che di fatto paralizzò la ricerca e le centrali. Poi arrivò la mazzata di Cernobyl a dare l'estrema unzione al piano energetico del nostro Paese. Restammo come don Chisciotte, con i mulini a vento, fuori dalla realtà. E dipendenti dall'estero.
Il terreno dell'austerity era stato culturalmente preparato da alcuni sensori. Da noi per esempio ci furono le denunce di un gruppo di scienziati, il club di Roma guidato da Aurelio Peccei, che l'anno prima alla crisi energetica pubblicò I limiti dello sviluppo, un libro che riprendeva, forse senza saperlo, certo senza citarlo, un discorso di quarant'anni prima del Duce contro l'utopia dello sviluppo e dei consumi illimitati. Risale a quegli anni anche il libro apocalittico di successo del futurologo Roberto Vacca, Medioevo prossimo venturo. Il mito dell'austerity precorse l'odierna «decrescita felice» o «l'abbondanza frugale».
La cultura hippie, i figli dei fiori e le comunità alternative prima del '68 furono le avanguardie di questo movimento antimoderno. Sul versante tradizionalista riprendeva fiato la cultura antimoderna di Julius Evola, Renè Guénon, Marcel de Corte e molti autori pubblicati dalla Rusconi diretta da Alfredo Cattabiani.
Tramontava sull'onda nera del petrolio, il modello consumista ma anche il modello industrialista dei regimi d'ispirazione marxista e leninista. La convinzione cioè che il comunismo fosse «socialismo più elettrificazione»,.... C

http://www.ilgiornale.it/news/cultura/dallausterit-decrescita-ecco-i-miti-tristi-sinistra-952436.html  by MARCELLO VENEZIANI

sabato 17 agosto 2013

Tecnopolitica: la sinistra estinta di mezza estate senza + sogni *VIDEO


Ad agosto, quando non si sa che dire, si parla di spiagge, città deserte e sinistra in crisi.
Sparita lungo l'anno, la sinistra d'agosto risorge con l'infradito e diventa oggetto d'inchieste a puntate, dibattiti accaldati e pianti collettivi e individuali. Ricorda le vedove di guerra che per cinque anni di vita coniugale portavano poi per cinquant'anni il lutto. La crisi della sinistra nacque con la sinistra e sopravvive alla sua scomparsa.
Da anni il suo partito di riferimento ha perso la sinistra sin nel nome; da anni i suoi leader di governo sono adottivi, come Prodi, Letta e ora si profila Renzi. Nessuno che venga dal Partito. Da anni gli intellettuali vicini celebrano gli anniversari della sua scomparsa e spiegano le ragioni del decesso, mentre gli agenti del ramo sinistri decantano le virtù del Defunto e deplorano il nemico di una volta, che si chiamava, se non ricordo male, Destra.
Il meccanismo è collaudato. Come per la vedova di guerra, la sinistra ci ha dato per vent'anni di fascismo ben settanta di antifascismo militante. E la stessa cosa si avvia a fare con l'antiberlusconismo. Da comunista diventò socialdemocratica quando finì la socialdemocrazia.
D'Alema, Veltroni e ora anche Bersani, vengono evocati nelle riunioni spiritiche per sentire - come oracoli - il parere degli estinti. Epifani fa gli inventari di magazzino; l'unico compito politico affidatogli è fissare la data del congresso. Al suo posto basterebbe un'applicazione i-Pad. Il congresso verrà disputato con la fascia di lutto al braccio?...


M. Veneziani
http://www.ilgiornale.it/news/interni/943694.html



lunedì 15 ottobre 2012

Marcello Veneziani Appello agli Intellettuali


 

Appello agli intellettuali al tempo della crisi: è ora di sfidare il potere


Il Giornale  Lun. 01/10/2012 - 09:08

 

 

Bisanzio brucia e la destra pensa a salvarsi il sedere e dove esso si posa, ovvero i seggi per la modesta classe dirigente. L'Italia affonda e nessuno rappresenta il suo corpo ferito e la sua anima umiliata. Cosa può fare la cultura per il suo Paese?  Poco, molto poco. Ma deve farlo, quando il suo Paese rischia di morire. Cosa può fare la cultura? Scrivere, testimoniare, rivolgere appelli, gridare nel deserto, difendere la lingua, l'arte, la civiltà.  Ma non basta, mi rendo conto, non basta. Se cerca i mezzi per incidere con più efficacia si dice che è venduta e asservita. Se non li cerca, o addirittura li respinge, si dice che è rancorosa e sterile. Se sta nel mezzo finisce come l'asino di Buridano. Se si ritira nei suoi libri e nei suoi pensieri, riconoscendo che il cielo è la sua patria, si dice: ecco il solito intellettuale, impotente e sacerdotale, ma di una religione dove Dio si è spento. L'unica cosa che resta da fare alla cultura è affrontare il rischio e sfidare il potere, forte della sua assoluta debolezza, ricca della sua inerme povertà, libera e folle. Non rinunciando alla cultura ma al suo individualismo narcisista ed egocentrico. Non tocca alla cultura mobilitare un popolo, governare un paese, non ne sarebbe capace. Non è indole della cultura vera formare sette; ogni scrittore è una casa a sé, non ha un partito suo. Eppure in tempi eccezionali deve intervenire, pur non lasciando la sua occupazione principale che è pensare e creare in solitudine; ma sapendo che nei tornanti della Storia, ai giri di boa più decisivi, quando il fumo raggiunge anche il suo studio, deve fare la sua parte, generosamente, e non ritrarsi. Lasciar da parte i calcoli, anche i più nobili, e farlo per la gloria di concorrere a salvare il suo paese. Cent'anni fa si chiamò interventismo della cultura, e ci fu chi intervenne sul serio, chi rischiò davvero, perfino chi dette la vita in guerra; ci fu chi combinò guai e pasticci, chi si ritirò al momento della verità, dopo aver acceso gli animi. Armiamoci e partite. Ma nel frangente, la cultura non deve defilarsi, deve cimentarsi, provare le sue idee su strada. Oggi alla cultura tocca esprimere un pensiero divergente. Divergente non solo perché diverge e dissente dal potere che è oggi anonimo, transnazionale, astratto come la finanza. Ma deve coltivare un pensiero divergente perché deve esprimere due esigenze opposte: quella di tornare alla realtà, mentre il potere vive prigioniero di una bolla irreale, fatta di speculazione, autoreferenzialità e indici astratti. E insieme deve essere com'è sua natura lungimirante, esibire i principi e le idee, pur oscene, orientare e indicare. In sintesi: tornare alla realtà, che è fatta anche di ideali. Alla cultura oggi, pur così malmessa, tocca un compito non secondario: suscitare, risvegliare dal sonno senza sogni questo Paese di ombre viventi, che compensano la loro evanescenza con l'esercizio del potere. È vero, sono finiti i tempi della cultura interventista, il mondo è cambiato, la tecnica muove la vita con l'economia, la parola non basta. Alla cultura tocca rispondere alla corruzione politica in un solo modo: riscoprendo le motivazioni della politica, in assenza delle quali dilaga il malaffare.  La cultura deve costringersi a farsi presente, deve fare la sua parte, fino in fondo. Deve scrivere, progettare, scendere per strada, mettere in relazione mondi diversi, parrocchie conflittuali; deve farsi ostetrica, se non addirittura ingravidare. Deve chiamare alla tradizione e reinterpretarla, ricordare il passato, indicare l'avvenire. Deve dare poesia attiva, ispirare. E deve mantenere la sua dignità anche se la chiameranno superbia, quella di chi dice: a me non serve niente, non puoi comprarmi con i soldi, i seggi o roba affine; non chiedo niente, mi declasserei se rinunciassi al mio compito per fare, che so, il parlamentare o accaparrarmi un vitalizio o una casa (rischio remoto, perché si gratificano i corpi seducenti e i servi, non le intelligenze e le idee). La cultura è troppo orgogliosa per cedere a così poco, e abdicare alla sua dignitosa solitudine in cambio di un appannaggio. La cultura deve osare.Il vero problema è come, con chi, a chi rivolgere il discorso, dove trovare compagni d'armi e d'anima disposti all'avventura. E come reggere al disgusto, allo sconforto, alla «bassa marea» che la circonda, senza lasciarsi prendere dalla tentazione di tornare soli. Prudenza, realismo, ponderatezza. Però si deve osare. L'appello è a chi non esercita il potere e non fa parte della cricca; a chi non sa che farsene di governi in apparenza affini che poi non lasciano neanche un'impronta del loro passaggio. A quel punto meglio la pura, impolitica testimonianza degli emarginati che andare al potere e lasciar le cose al loro degrado. La cultura deve farsi sentire, deve dire, pensare, agire, tracciare e lasciar traccia. Perché anche la cultura ha le sue responsabilità, non può bamboleggiare tra bizantinismi e ritrosie. Ci vuole uno stomaco di ferro per cimentarsi e capisco la tentazione dell'eremo; la pratico, la condivido. Anzi sono quasi convinto che alla fine non servirà a nulla: la voce grida nel deserto, nessuno la raccoglie, se non per dirti di tacere. E taceremo, non perché sottomessi, ma perché non abbiamo potere per accendere i microfoni. Alla cultura si addice la contemplazione ma a volte si richiede lo sforzo aggiuntivo, pur provvisorio, del movimento, nelle forme che le sono congeniali; a volte tocca esporsi. Lo fece Platone, lo fece Dante, lo fece mezzo Novecento eroico, figuriamoci se non possiamo farlo noi.

giovedì 19 luglio 2012

Il Ritorno dei Corpi-Spiriti Liberi da Il Giornale +Video

Prima la tradizione e la politica, poi l'economia (e i tecnici). Sessanta intellettuali a dibattito in un monastero

da Acquasanta Terme (Ascoli Piceno)Sarà stato per il luogo, il millenario monastero camaldolese di Valledacqua, sperso sugli Appennini piceni. Sarà stato per l'atmosfera, a metà fra la concentrazione della clausura e l'attesa del conclave. Ma non sono mancati i buoni propositi e gli entusiasmi fra coloro che domenica hanno raccolto l'invito di Renato Besana e Marcello Veneziani a «tornare a Itaca».
Un richiamo a un «rientro in patria» diretto a tutti gli intellettuali di centro-destra (ma per lo più ultimi epigoni di area Msi-An) che si ritengono apolidi della politica e vittime della frantumazione del progetto del Pdl. Sessanta fra pensatori e giornalisti (fra cui molti nomi noti nel panorama culturale, come Gennaro Sangiuliano, Adolfo Morganti, Sandro Giovannini, Fabio Torriero, oltre alle adesioni di Pietrangelo Buttafuoco e Gianfranco de Turris), partendo dall'assunto di conclusione di un ciclo ventennale che ha visto il dibattito nazionale avvitarsi fra berlusconiani e antiberlusconiani, si sono confrontati sui modi da adottare per affrontare la sfida del futuro. Alla ricerca di un'area di rappresentanza comune che riunisca precedenti esperienze ora disperse.Gli autoconvocati di Valledacqua hanno individuato nel ristabilimento della supremazia della politica sull'economia e sui tecnici (il presidente Monti a più riprese è stato indicato come «rappresentante di un governo d'occupazione») ma anche nella sua salvaguardia dai politicanti («causa della disaffezione dei cittadini dalla vita civile») i cardini di ogni possibile iniziativa futura. Già perché il lavoro avviato a Valledacqua non vuole limitarsi a essere un'esperienza culturale ma un'officina prepolitica ove costruire una proposta «alternativa - come detto da Renato Besana - alla sovietizzazione dell'economia mondialista». Con poca nostalgia verso il passato, ma ancora con tratti «volutamente semiclandestini», i naviganti verso Itaca si definiscono «maieuti», pronti a confrontarsi coi politici attraverso la costituzione di un movimento. Ma senza compromessi, anzi riaffermando i principi patrimonio della destra italiana: il valore dell'identità greco-romano-cristiana della nostra civiltà e il patriottismo della tradizione più che della Costituzione del 1948.Non tutti fra i presenti però si sono trovati d'accordo. Pasquale Squitieri, infastidito da un intervento circa la necessità di proporre in politica volti nuovi, lascia la sala. E non tutti hanno risposto all'appello. Si è sfilato, fra gli altri, anche Franco Cardini, con una struggente riflessione che mescola Itaca a Troia, la vittoria di Lepanto alla sconfitta dell'Invicibile Armada, Ulisse («l'eroe fraudolento») a Ettore («nobile domatore di cavalli»), in nome di un passato ideale che non può più tornare e di un futuro da costruire partendo da esperienze del tutto personali. Ma l'impolitica disillusione dell'illustre medievista non sembra contagiare gli intellettuali di Valledacqua che si affacciano all'agone. Resta ora da verificare in che modo questo progetto si misurerà con le emergenze materiali dell'Italia e degli Italiani, senza naufragare fra concetti e richiami mitico-storici. Come rimane tutta da costruire una piattaforma che possa tenere insieme un mondo così composito e, per sua intrinseca natura, tendente al particolarismo e all'autoreferenzialità. Un progetto che possa riconquistare una fetta degli astensionisti e fornire nuove motivazioni ai giovani. Ma su tutto si staglia l'ombra del Cavaliere che si sta riaffacciando sulla scena. E gli intellettuali di Valledacqua non potranno non tenerne conto.

IL GIORNALE
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/pensiero-destra-ricerca-nuova-casa.html

sabato 9 giugno 2012

Marcello Veneziani Appello al Futuro (per spiriti e corpi liberi)









IL MIO APPELLO A TUTTE LE DESTRE (E NON SOLO)
Marcello Veneziani
da Secolo d'Italia di martedì 05/06/2012
Rivolgo questo appello esplicitamente, anche se non esclusivamente, a chi proviene da destra. Un appello personale, di cui mi assumo intera la responsabilità, non concordato con nessuno. Mi rivolgo a chi proviene da Alleanza nazionale, dal vecchio Msi, dalle esperienze varie e anche non politiche di destra nazionale, sociale e i non allineati. E mi rivolgo apertamente e direttamente a chi attualmente esprime su posizioni diverse il desiderio di ricominciare daccapo. Dico dunque alla componente destra del Popolo delle Libertà, dico alla Destra di Storace, dico a Futuro e Libertà, dico alla galassia di nascenti movimenti, come gli azzeratori di Giorgia Meloni, i patrioti di Elena Donazzan, il Fuori di Galeazzo Bignami, RinascItalia di Elisabetta Foschi, e tutti coloro che in questo momento stanno dando vita a esperimenti, incontri, tentativi di ripartire. Senza escludere la galassia giovanile dispersa o ritrovatasi in comunità e circoli, case e movimenti. Infine considero chi, come me, viene dalla destra sfusa, pensa da anni in libertà e in solitudine, o non è impegnato in nessuna realtà vagamente politica. È ora di ricostruire un soggetto civile, prima che politico e culturale. È ora che si torni ad Itaca, come scrive in un appello che sottoscrivo, Renato Besana. È ora che si tenti, dico almeno si tenti, di ritrovare un motivo comune per rilanciare l'iniziativa politica. Accogliamo come dato di fatto il disarmo bilaterale: Berlusconi e Fini costituiscono inevitabilmente un ciclo concluso. La loro parabola di leader è finita, differiscono i nostri giudizi su di loro, ma non possono essere più motivo di unione né di divisione. Si deve fare un passo oltre. Si chiede un passo indietro anche a coloro che hanno rappresentato in questi vent'anni la destra e si selezionino giovani, donne e outsider per costituire il nucleo costituente. Non volevamo morire democristiani, ma non ci piace nemmeno finire grillini o montezemoliani. Si può agire all'interno del quadro bipolare, dunque collocandosi sul versante alternativo alla sinistra, ma occorre recuperare una propria linea d'azione e di pensiero. Anche perché nel paese esiste, come dimostra la nostra storia e il presente nel resto d'Europa, un'area che oscilla tra il dieci e il venti per cento, che aspetta un discorso serio di rinascita italiana. La Lega è ormai semidistrutta, il Pdl è dimezzato nei consensi e spappolato nelle sue interne spinte centrifughe, Futuro e Libertà vive con disagio all'ombra di Casini che peraltro gioca in autonomia e dichiara concluso il Terzo polo. Sintetizzando in una boutade sostengo che il Pdl, per accrescere l'offerta politica, deve spacchettarsi in P, D e L, ovvero Popolari, Destra e Liberali. C'è un potenziale bacino di consensi per chi con tempismo e attraverso volti e temi giusti riesce a interpretare il disagio presente, la voglia di futuro ma anche la memoria storica. Come mi è capitato di dire e di scrivere, è il momento giusto, per far nascere un'Altra Storia. Un movimento rigoroso e forte, duttile ai fianchi ma duro al centro, onesto e animato da passione civile, etica e ideale, un amor patrio di quelli che non odorano di stucco e rimmel ma vero e severo, che fa tornare il gusto della politica. Stavolta non si lascia il monopolio dell'etica alla retorica partigiana della sinistra, non si lascia l'esclusiva della sobrietà ai tecnici, non si lascia ai giudici stabilire l'onestà, non si lascia la rabbia popolare ai grillini. Si fa sul serio. Si chiamano i migliori, si usano i tecnici per raddrizzar la barca ma senza dar loro il comando: devono risponderne, e non alle banche o ai poteri esteri ma alla politica e al popolo italiano. Il primo atto è la selezione, la cerca dei dieci, e dai dieci dei cento e dai cento dei mille, per costituire una nuova élite, con fresche energie, scegliendo il meglio che c'è nel paese; il minimo indispensabile tra chi c'era prima, gli altri a casa o in fila senza priorità d'imbarco. E poi un programma essenziale e popolare in una decina di punti per rilanciare su basi effettive una nuova rivoluzione conservatrice italiana, conservatrice sul piano dei principi e dei beni, rivoluzionaria sul piano delle innovazioni pubbliche e sociali. L'alternativa è fingere che nulla sia accaduto, accodarsi ai vecchi capi, assistere inermi alla scomparsa, affondare indecorosamente per non osare. C'è un'estate intera per fondare il nuovo o finire nel nulla. Chi mi legge sa quanto sia lontano ormai da anni, dalla politica; ma, senza mutare indirizzo e soprattutto indole, è tempo di innescare un movimento vitale come quello che sorse, giusto vent'anni fa, con L'Italia settimanale, che fu battistrada di molti eventi e coalizioni. Deponete i rancori, incontratevi, cercate la linea comune. Da soli non ce la fate, andrete al rimorchio se non al guinzaglio o finite fuori dal gioco. Abbiate il coraggio di sacrificare qualcosa e qualcuno per far nascere un vero soggetto politico, in grado di splendere da solo e di allearsi ma in funzione trainante e non passiva, capace di egemonizzare e non di accodarsi. Lo dico per l'Italia, per noi e per chi ha nostalgia del futuro.

mercoledì 23 novembre 2011

Marcello Veneziani: l'indicibile pesantezza dell'ipocrita e faziosa ex sinistra... *from Il Giornale

Mario Monti

Il Giornale

"Risparmiateci i monaci con i tacchi a spillo"

C’è una parola d’ordine che rimbalza dai leader della sinistra ai giornali, dalla tv alla satira perfino: con la caduta di Berlusconi è finito il Carnevale, siamo finalmente tornati alla Sobrietà.
 

Tristemente mi rallegro ma chiedo alla Confraternita dei Flagellati di Sinistra, all’Ordine dei Quaresimali della Stampa Seria e ai Penitenti tutti se con la nuova sobrietà introdotta dai Tecnici Austeri verrà soppresso anche il carnevale pacchiano del Gay Pride, i caroselli dei trans con relative marrazzate, le fellatio gay al Colosseo difese come libere effusioni, le sgargianti occupazioni di suolo pubblico, teatri, facoltà e scuole pubbliche, la centralità dei comici nel discorso politico, gli insulti al Nemico, l’invadenza urbana dei Centri sociali, i localini trendy dove bivaccano antagonisti e fancazzisti, e bevono e fumano e fanno sesso alternativo, la spinelleria assortita dei compagni da sballo o i compagni da passeggio che sfasciano vetrine e scagliano estintori sui carabinieri e vengono santificati.

Lo dico per esempio a Vendola, compagno di partito di Luxuria e di molti dei suddetti compagni, che ora celebra la fine del carnevale berlusconiano e l’avvento della sobrietà.

continua:

http://www.ilgiornale.it/rubrica_cucu/risparmiateci_monaci_tacchi_spillo/governo_tecnico-esecutivo-mario_monti/23-11-2011/articolo-id=558424-page=0-comments=1

martedì 2 novembre 2010

Etica-Estetica con Marcello Veneziani

IL GIORNALE

Marcello Veneziani incanta la platea del progetto culturale EticaEstetica ideato e organizzato da Enzo Caldarelli nello scenario del Capri Palace, rinomato hotel dell'isola azzurra. Il costume è forse la parola chiave che fa da ponte tra etica ed estetica. E' possibile immaginare una buoncostume etico-estetica? Dov'è la soglia tra il bello e il giusto, il punto d'incontro tra il fascino e la dignità, il luogo di confine tra il buon gusto e il buon senso?......

Il viaggio irriverente su piani differenti, tra l'essere, l'apparire e il comportarsi è stato sapientemente affrontato dal grande filosofo scrittore Marcello Veneziani (vero mattatore dell'evento, ha incantato per la sua linearità e pulizia d'espressione)

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