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venerdì 18 novembre 2016

A 115 ANNI DALLA NASCITA DI QUASIMODO E A 40 ANNI DALLA MORTE DI LA PIRA

 di Pierfranco Bruni



A 115 ANNI DALLA NASCITA DI QUASIMODO E A 40 ANNI DALLA MORTE DI LA PIRA

Giorgio La Pira a  Salvatore Quasimodo: Pensati Apostolo

 
La Sicilia una terra che è isola. Un'isola che è mondo arabo e greco. Cristianità e rivelazione. La stessa terra, lo stesso viaggio, lo stesso camminamento esistenziale. Giorgio La Pira in una profondità scavata in quella cristianità che è essere e tutto attraverso l'esempio, la testimonianza, il Vangelo. Il prossimo anno si celebrano i 40 anni dalla morte.
Salvatore Quasimodo in una religiosa parola che diventa linguaggio dell'uomo nella sua contemporaneità e nella sua pietas. Amici per terra e per fede. Insieme per un senso sacro e un orizzonte d'anime. La loro amicizia nasce all'interno di una Sicilia e di una geografia che ha le rughe di una antropologia dell'umanesimo ma anche dell'erranza.Con Quasimodo siamo a a 115 anni della nascita.
Una ricerca che non è soltanto storica con un vento mediterraneo che soffia su Tindari e su Modica o su Pozzallo. Una ricerca che stringe in un battito l'Uomo e il Divino.
Quasimodo si specchia nell'uomo, in quell'uomo che vedrà crocifisso o battere il sogno nella carlinga di un aereo. La Pira vive il suo Cristo che diventa il Cristo della Resurrezione attraverso la Parola. Quella Parola che "userà" il suo amico – fratello Quasimodo per recitare il dolore e la magia dei linguaggi nelle distanze oltre l'isola.
L'isola è l'appartenenza metafora sia di Giorgio che di Salvatore. Una appartenenza che resterà tra le pieghe del cuore e lungo i destini nel dettato delle loro lettere che formeranno un carteggio di vita e di tagli di esistenza in una teologia e in un mistero in cui l'Essere è il tutto del loro viaggio verso il continente.

Nelle lettere di La Pira c'è la geografia di una consistenza umana nella quale l'incontro diventa una eredità di vite vissute lungo i sentieri dell'ascolto o degli asciolti. Un carteggio che è  rintracciabile nel testo di G. La Pira - S. Quasimodo, "Carteggio", curato da A. Quasimodo,  e pubblicato da Scheiwiller nel 1980; nel 1998 verrà pubblicata una nuova edizione ampliata e annotata e curata da Giuseppe Miligi, per l'editore Artioli.

La Pira, (generazioni della Messina terremotata) pone delle riflessioni molto attente sul legame tra la poesia e la religiosità della parola. Un La Pira che aveva studiato e amato scrittori come Gabriele D'Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti. Un La Pira che conosceva la letteratura non solo della teologia del linguaggio poetica ma anche della sperimentazione delle avanguardie. Tanto che scriverà nel 1928 in una lettera da Monaco di Baviera questa chiosa straordinaria:

"…disponi della tua vita come un'offerta che tu, giorno per giorno offri al Signore: pensati apostolo (…) quando avrai reso così il tuo essere … quali altezze conquisterai col tuo canto?".

La poesia come messaggio apostolico. È la bellezza del pensiero che esce da ogni sottosuolo e diventa miracolo per un ascolto della Parola che è sempre dettata da Cristo. Giorgio La Pira portava la dolcezza nel pensiero e la forza della delicatezza nella voce.
Mentre nella Pasqua del 1930 in un'altra missiva scriveva a Salvatore (Totò):

"La poesia è chiamata a cogliere il palpito invisibile delle cose visibili: quelle parole interiori che ogni cosa possiede, quella forma che ad ogni cosa imprime come un sigillo ed un'orma della bellezza divina".

Ma cosa era la poesia per La Pira? Aveva, comunque, come punto di riferimento sempre i versi di Quasimodo. Sempre nella lettera del 1930 cesellava:

"…cantare in eterno la bellezza suprema della fonte di ogni esultanza: il Dio di bellezza infinita".

Diventerà sindaco di Firenze, statista,operatore nelle culture ma, in fondo, resterà comunque costantemente un terziario francescano e domenicano. Anche la politica la affronterà secondo una chiave di lettura di partecipazione religiosa. L'avvicinamento al mondo cattolico e la sua richiesta di mistero in Quasimodo dipende anche dal suo dialogare con La Pira. Si condenserà nei versi di "Dare e avere" del 1966.

1922. Lettera di La Pira a Quasimodo:
"…io penso che il linguaggio sia la via del Signore: basta penetrarlo, basta scendere in esso, ricercarlo alle radici per vedere come da un solo tronco, da una sola inscindibile unità tutto si ramifica e sorge dalla Potenza all' Atto: come la natura ha pochissimi semplici elementi che poi non sono che aspetti d'una semplicissima materia, così la lingua non ha che pochi suoni originari tutti provenienti da una Radice che non si riveli se non a chi vi mediti con fede e ammirazione: così l'albero dalle migliaia di foglie canta a primavera il suo silenzioso stormire, così il linguaggio dalle migliaia di fremiti ripete a Dio in ogni parola il suo grazie eterno: tutte le parole non sono che come le foglie, linfe disposte in maniera varia, ma linfe d'uno stesso corpo, d'una stessa origine, estremamente unite".


D'altronde le esperienze vissute con La Pira lo porteranno verso le vie delle "Confessioni". Infatti le sue prime poesie, Quasimodo le pubblicherà nel 1917 sulla rivista "Nuovo Giornale Letterario". La Pira lo spinse alla conoscenza del greco e del latino. Questa conoscenza lo condusse a diventare un traduttore acuto dei lirici greci e latini.
Cosa era, dunque, la poesia per La Pira? Da Vienna nel 1930 La Pira gli scriveva:

"…tu hai la virtù di apparirmi in uno sfondo di infinito: di quell'infinito luminoso e sereno che Gesù è venuto a dischiudere nelle anime". E nel 1927: "…io non mi inganno quando penso che tu potresti col tuo verso - felice grimaldello che ti permette di aprire le mistiche case dell'anima- racchiudere brani notevoli di mistero: di quel mistero illuminato, e illuminante quale ce lo dà la Rivelazione di Gesù Cristo".

La poesia è, dunque, rivelazione. La grande e "miracolosa" rivelazione che incontro di Eternità dopo la lettera di La Pira, Quasimodo scriverà dei versi di una pregnanza religiosa ricca di contenuti mistici:

"Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno,
serrato ad ogni luce.
Di te privo spauro,
perduta strada d'amore,
e non m'é grazia
nemmeno trepido cantarmi
che fa secche mie voglie.
T'ho amato e battuto;
si china il giorno
e colgo ombre dai cieli:
che tristezza il mio cuore
di carne!".

Il titolo iniziale era, appunto, "Confessione" e successivamente avrà come titolo: "Si china il giorno". Il loro rapporto durerà sino alla morte di Quasimodo e La Pira lo consegnerà alla sua quotidiana preghiera. Ma quasi tutta la poesia di Quasimodo ha una tensione spirituale.
Una spiritualità che accompagnerà sia la raffinatezza del linguaggio in termini estetici sia l'ontologia della parola che risulterà sempre più ardente metafisica dell'Incontro. Quasimodo era nato a Modica il 20 agosto del 1901 e morto a Napoli il 14 giugno del 1968. Giorgio La Pira era nato a Pozzallo il 9 gennaio del 1904 e morto a Firenze il 5 novembre del 1977.
Due cittadine ragusane a distanze di non più di 16 chilometri.
La Pira, quasi a conclusione della sua missiva del 1930, trovava in Quasimodo:

"…Ormai non cerchiamo che le cose del cielo: al cielo è rivolto il nostro cuore: e canta in esso e pesa in esso tutto l'amore eterno della nostra patria sospirata! La Gerusalemme celeste!".

La poesia non è forse una Gerusalemme Liberata?
Giorgio La Pira resta il primo e sincero lettore della spiritualità poetica e umana di Salvatore Quasimodo, Nobel 1959.
Lettera di Giorgio La Pira a Salvatore Quasimodo. 1930:
"A quelli che non credono in Cristo rispondiamo con quest'unico argomento: Cristo solamente poteva compiere questo divinissimo miracolo della mia interiore resurrezione: Egli solo poteva aprirmi le porte del gaudio e dell'esultanza: Egli solo Dio fatto uomo -poteva rendere alla mia anima una verginità che la rende più splendente degli Angeli!
Ed in quest'amore pieno e confidente per Gesù rinnova con frequenza i tuoi giorni.
Tu l'avrai certamente ricevuto nel tuo cuore, pane di vita, il Signore Sacramentato: ebbene, abitua la tua anima ad avere più fame di questo pane: a sempre più dissetarsi a questa fonte d'acqua eterna!
Uniti nel comune sentimento di immensa gratitudine, con l'animo esultante di speranze immortali, cantiamo assieme agli Angeli: Alleluia, Alleluia!".

Un viaggio spirituale che ci pone oltre le parole. Ci viaggia nell'anima. I linguaggi sono oltre. sempre. Resta la Contemplazione.
Contemplazione! La poesia attraversa il reale per vivere metafisicamente il senso e l'ascolto della contemplazione.



mercoledì 18 giugno 2014

Pierfranco Bruni, Quasimodo, Stato e Scuola...


Discutiamo del Quasimodo  proposto agli Esami di Stato… Oltre e vicini all’analisi del testo

di Pierfranco Bruni


La gazza, il suo riso, gli aranci. Non penetro l’analisi del testo e tanto meno mi immergo in un commento. È altro il mio percorso. Agli Esami di Stato c’è, comunque, Salvatore Quasimodo. Non è la prima volta. I proponenti di questa "proposta" quasimodiana non credo che brillino per originalità. Ma non può che farmi piacere e soprattutto mi fa piacere sapendo che si tratta di una poesia che risale al grappolo che va dal 1936 al 1942. ovvero la stagione del Quasimodo vero poeta.
Ed è tratta dal testo Ed è subito sera. Già nei primi cinque versi ci sono abbastanza elementi metaforici e reali che potrebbero permettere una interpretazione comparata del verso e dei versi. Siamo in una atmosfera di fascino delle “origini” geopoetiche di Quasimodo.
Le immagini, perché è una poesia fatta di immagini, sono il senso e l’orizzonte della sua terra, di quella Sicilia che respira il profondo segno mediterraneo. Il mito e la magia della parola in Salvatore Quasimodo hanno una rilevanza significativa. È appunto nel rapporto mito-magia, che la poesia di Quasimodo in Ed è subito sera si fa tensione lirica e gioco di immagini.

Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa”.

Il danzare in un gioco fatto di cadenze e di voci è un chiaro richiamo ad una visione etno-antropologica che ha una marcata anima archetipale. Ma Quasimodo conosce molto bene l’immaginario dei salici e degli aranti in un paesaggio dove i fanciulli sono l’infanzia nel tempo trascorso ma che resta come elemento ancestrale.
     In un discorso più complesso si potrebbe dire che  la sua poesia attraversa diverse fasi. Il momento più alto è certamente la prima fase: cioè quella fase che si conclude, appunto, con Ed è subito sera. Siamo con questo lavoro al 1942. C’è all’interno di questa sua prima ricerca una grande esplosione di motivi lirici e di temi conduttori.
      È qui che si avanza la richiesta religiosa e la ricerca di quel mito che fissa in Ulisse il simbolo di un personaggio che è sempre al centro del viaggio.
      Due momenti essenziali per usare una metafora che non si vede a primo impatto ma insiste nella sua provvisorietà del viandante che si cerca nella circolarità del viaggio : a) la religiosità e la possibilità di un dialogo cristiano; b) il Sud nel sentimento del viaggio e nel richiamo mitico delle origini. La “terra impareggiabile” che incontreremo nel 1958 è già in questo intreccio di ricerche. Così quelle poesie toccati che sono “Lamento per il Sud” e “Lettera alla madre”.
      La dimensione cristiana (la chiesa è un luogo non della periferia dell’anima ma della centralità del tempo del cuore) si incontra con la favola antica che è nel richiamo alle origini.

“Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna !
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
o per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri”



      Campeggia nel tutto di questo verseggiare la pietà. Ovvero il senso della pietà. Altre metafore incidono e insistono. Per esempio per un poeta mediterraneo sono punto nevralgici: il fuoco, la luna, la memoria, il sonno, il pozzo, la marea, e l’ora che  cerca “remoti simulacri”. Allora. Quella sera che vive nella pietà ha un “riciclaggio” chiaramente foscoliano, ma Foscolo è greco. Le ombre vengono allontanate, nell’anima e nel tempo del poeta dalla verde erba. E poi potrebbe avere senso, avrebbero detto Pavese e Bodini, un fuoco che non abbia il coraggio di cercare la luna o una luna che non abbia il destino di diventare fuoco. Insomma è il gioco incastrante di una metafisica dell’anima che diventa metafisica della poesia. Ma il poeta del Mediterraneo è fatto di marea, di sonno delle epoche che passano dentro (come dice Corrado Alvaro) e soprattutto di tempo. Quel tempo però si lega inesorabilmente alla metafora, ancora una volta, del pozzo. Thomas Mann, che Quasimodo conosceva, contiene l’acqua della memoria che diventa rigenerazione e rigenerante diventa il baso in quelle acque perché si riscopre l’infanzia e la sua eredità.
In fondo il “naufragio mistico” tocca così momenti significativi e importanti per la vita stessa del poeta.
      C’è, dunque, nel poeta (perché è impossibile commentare una sola poesia, in modo particolare per un poeta come Quasimodo, dove insiste un progetto poetico e di estetica del linguaggio) il naufragio aggrappato alla speranza religiosa. C’è un’ansia mistica. E c’è il ritorno alla terra attraverso una dimensione magica che coinvolge quel respiro ellenico e mediterraneo sempre vivo e presente in una poesia che ha tocchi mitici. Il mito della poesia quasimodiana è nel ritrovare nell’infanzia del tempo la propria infanzia e la propria storia.
      Oreste Macrì osserva : “La splendente Trinacria mediterranea ed ellenica, il fasto degli alberi e dei fiumi, l’amore e l’eco dei recessi estivi, l’ingenuità delle carni luminose, la verginità dei costumi mitici, il sapore d’eterno e di visibile, le certezze solide e durature :  la memoria dell’infanzia, della famiglia, dei primi giorni; è soprattutto la parola ‘isola’ l’estrema suggestione che ricostruisce cantando il mito della purezza, della esattezza del limite…L’infermità, la debolezza, il patimento, la sofferenza, il dolore e la pietà cristiana sembrano l’altro polo, la regione opposta, il continente amaro e terribile, il luogo dell’esilio e del rimorso permenente” (Oreste Macrì, La poetica della parola di Salvatore Quasimodo, Prefazione a Poesie , “Primi Piani2, Milano, 1938).
I versi di “Ride la gazza, nera sugli aranci” hanno un mistero rivelante ma anche segreto. Così come quando il pensiero è il Sud.

“E tu vento del sud forte di zagare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavallo, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci”.


      Motivi essenziali nel cammino poetico di Quasimodo. Questo Sud che continua ad essere attraversato dal “Lamento” porta con sé le zagare e la luna e i bambini non smettono di scommettere il loro destino nel loro passato giocando, come recita Sinisgalli, con le monete battute per terra. La terra custodisce gli echi dei passi dei cavalli e le orme diventano segni indelebili, perché il mare resta sempre quell’orizzonte infinito, ovvero la quarta parete raccontata da Cesare Pavese. In questo Sud dove le madri ancora cercano i loro figli le nuvole che come un simbolo escono dagli alberi e l’airone ha il respiro della libertà. Ma non bisogna mai dimenticare che c’è sempre il fango impastato alle spine e l’ironia della gazza, la gazza nera, osserva e ascolta dagli aranci il mutare delle stagioni e il cangiare dei sentieri dell’anima.
Siamo quindi a quella poesia quasimodiana già individuata e che porta nel suo cuore le precise caratteristiche già evidenziate. In realtà siamo a quella stagione importante che raccoglie il senso del tempo, la necessità della comunione nella parola, l’interpretazione del segno mitico. Il recupero dell’infanzia o l’infanzia come “beato Eden” è il centro propulsore di questo viaggio che è sostanzialmente un antico viaggio nel cuore della parola e dell’uomo. Cose che si sfilacceranno con le poesie dal 1947 in poi. Ciò in parte verrà motivato in alcuni suoi saggi dedicati appunto alla poesia.
 Una partecipazione che riporta voci lontane e mai dimenticate. Il colloquio si intensifica. Si ritorna al tempo. Ma è nel tempo che la morte e la vita trovano il loro viaggio. E così le voci e i silenzi.
      In Salvatore Quasimodo, infatti,  ci sono elementi poetici eterogenei. E c’è una spaccatura, fra due modi di fare poesia. O meglio la spaccatura e il limite della sua ricerca si avvertono quando viene a mancare quella tensione mistica con la quale era nata la sua prima poesia e subentra un rarefatto stimolo sociale.
Qui la poesia perde il suo fascino e anche il suo mistero e diventa cronaca. E con essa si brucia l’ansia e quel desiderio di infinito che si individua nel momento della contemplazione. La cronaca è perdita della parola-tensione.
In Ed è subito sera è tensione che si riconquista. E i versi di “Ride la gazza, nera sugli aranci” è un testamento non solo poetico. Ma una dettatura esistenziale in quella ricerca del sommerso e dell vicinanze – distanze che hanno fatto di Quasimodo il cantore del vento che dalla sua Sicilia ha toccato l’intreccio dei venti degli Orienti e degli Occidenti.
Infatti la gazza e gli aranci non sono una rappresentazione. Sono piuttosto una metafora nella danza delle cadenze. Una poesia che ha odori e radici. Una geografia che la gazza vive tra la terra delle radici e la terra promessa.