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mercoledì 8 agosto 2012

Pessoa anti antifascista!!! di AVERNO


IL SACCO DI LISBONA. PESSOA E' ANTIFASCISTA!
di Averno
Ce l'hanno fatta di nuovo. Ne hanno reclutato un altro. È lo scoop dell'Espresso. Fernando Pessoa era antifascista.
Tutti ormai sappiamo della vicenda del poeta plurimo per eccellenza, che sdoppiò, triplicò, quadruplicò la propria persona, per essere "plurale come l'universo", come ebbe a scrivere non solo egli stesso ma anche numerosi suoi "eteronimi".
È un gioco talmente complesso – e irriducibile ai dettami dello strutturalismo e del decostruzionismo imperversanti – che continua anche dopo la morte corporale dell'ortonimo. Che accade? Dopo la sua dipartita emergono dubbi su tutta una serie di personalità di cui si sa poco, che magari hanno pubblicato qualche articolo o poco più. Che si tratti di Pessoa, firmatosi sotto un altro nome? Che si tratti di un ennesimo gioco di prestigio del "poeta fingitore"?
È quanto recentemente emerso da una ricerca svolta in Portogallo da José Barreto e pubblicata sulla prestigiosa rivista "Pessoa plural", pubblicata dall'Università di Utrecht, dalla Brown University e dalla Universidad de los Andes, la quale mette a fuoco la complessità di una figura che può valere da cartina tornasole dell'atmosfera dei primi decenni del XX secolo. Questo rinvenimento è ricordato dallo zelante Marcello Sacco nell'Espresso di questa settimana, con toni che non possono non impensierire chi abbia a cuore una cultura finalmente libera dalle etichette di ieri. Ma, prima di tutto, ecco il retroscena.
Siamo nel 1926, scrive il nostro articolista. Da pochi mesi, il generale Carmona ha calcato la scena pubblica, instaurando una dittatura militare. In questo contesto, la rivista "Sol", la quale chiuse i battenti poco tempo dopo, ospita una curiosa intervista ad un esule italiano, tale Giovanni B. Angioletti. Un uomo la cui avversione verso il fascismo fu tale da spingerlo a definire Mussolini un "primitivo celebrale", a capo di un movimento contagioso come la follia, che avrebbe costituito uno dei capitoli del grande tradimento della "missione civilizzatrice" assunta dall'Italia subito dopo la sua Unità. Nulla di strano, no, soprattutto pensando a quanti avversari ebbe il Regime dentro e fuori dall'Italia? E ecco che invece è il nostro poeta che ci ha tirato nuovamente uno scherzetto. Dietro a quest'uomo, ignoto non fosse che per la detta intervista, si cela Fernando Pessoa.
Ma non è tutto. Nello stesso articolo si legge di un frammento trovato da Barreto nel celebre "baule" pessoano, le cui vicende hanno appassionato ragazzi e adulti di ieri ed oggi, il quale reca queste parole, atte a commentare la puntualità dei treni "quando c'era lui", con toni che sono a tutti gli effetti quelli pessoani: "Se i fascisti vi uccidono il padre a Roma, da Milano potete sempre arrivare puntuali al funerale". La grandezza di Pessoa risiede anche in questo: nel condensare la sua critica libertaria ad un regime populista, massificatore e chiassoso in poche, aggressive allocuzioni. Non c'è niente da fare, è così. Si possono elaborare lunghe ed elaborate argomentazioni ma chi ha il dono dell'aforisma, le scavalca, librandosi, scagliando le sue parole come schegge, come scrisse un grande scrittore di aforismo, Dàvila.
Benissimo. Questo ritrovamento depone a favore dell'esistenza di una parte – in senso letterale, s'intende, da un punto di vista eteronimico – antifascista di Pessoa. Niente di nuovo, purtuttavia. Già erano arcinote le avversioni pessoane verso il Regime mussoliniano – ma anche verso quello salazariano. Meno noto è forse che Pessoa ebbe a criticare tanto i summenzionati Regimi quanto comunismo e democrazia. Se pertanto, possiamo definire Pessoa "antifascista", allora dovremmo aggiungere alla dicitura anche il suo tratto anticomunista e antidemocratico. Pessoa, assieme a molti altri, criticò in detti regimi il livellamento delle specificità in masse amorfe ed acefale, disposte a scattare al primo tacco di stivale battuto al suolo. Nell'imbarbarimento operato da fascismi e comunismi egli vide la fine della storia, l'ingresso nella modernità. Pessoa era antimoderno – anche qui risiede la sua attualità. Forse a certi stomachini delicati non andrà giù, ma egli fu anche questo, tra le altre cose – tra le moltissime altre cose.
Sì, ma perché queste righe, allora? A parte suo il titolo – che pare comunque echeggiare qualche slogan trito e ritrito, che comunque non può che ossequiare il "buon senso" accuratamente coltivato da certa cultura italiana, la quale vive di parole d'ordine alle quali, per pavloviano influsso, letteratini di terz'ordine si alzano ed applaudono, al pari di quelle masse ammaestrate dai demagoghi di turno che l'articolo vorrebbe denunciare – il contributo è serio, obiettivo e scientifico. Si limita ad informare e nulla di più. Tuttavia, la chiosa finale ne preclude il carattere, rilevando la sua vera intenzione. "E pensare, scrive il Sacco, che da noi, anche in occasione della morte di Antonio Tabucchi, si è continuato a ripetere che Pessoa fosse stato un uomo di destra". Ahi ahi! Perché una caduta di stile di questa sorta? Forse era necessario aggiungere una tacca alla lista degli eteronimi per conoscere l'avversione del poeta a qualsiasi forma di oppressione legalizzata – fosse fascista o comunista o democratica?
Ci permettiamo un paio di considerazioni, a proposito di questo "Sacco di Lisbona". Circa l'equazione Destra-Fascismo, altri prima di noi hanno già scritto abbondanti pagine e non insisteremo ulteriormente. Come non ricordare, però, tutti quegli intellettuali da sempre fieramente proclamatisi di Destra che criticarono profondamente gli aspetti più populisti e deleteri del Fascismo, ma anche del nazionalsocialismo? Come non ricordare i nomi di coloro che si opposero al Regime non in quanto suoi avversari ma in quanto avversi al ducismo organizzato, alle sue forme più esteriori, alla sua biopolitica? Destra e "antifascismo", pertanto, sebbene il nostro articolista paia ignorarlo, non sono espressioni necessariamente antitetiche. È possibile criticare le adunate oceaniche ed essere al contempo di Destra – il fascismo, peraltro, non essendo che un capitolo tra gli altri della Destra. Sorprese, queste, che la storia riserva, che tuttavia riempiono di stupore solo chi sia in grado di intravederle.
Il che, comunque – diciamolo subito, prima che qualcuno gridi allo scandalo – non è il caso di Pessoa. Il quale non può essere – e non è stato – definito un uomo di Destra. Come è accaduto per numerosi altri scrittori e pensatori – valga come caso esemplificativo il nome di J. R. R. Tolkien – lo spettro dello "scrittore di Destra" è stato evocato "dall'altra parte. Che è accaduto a seguito della morte di Tabucchi? Non vi sono state che puntualizzazioni di carattere scientifico – che qualcuno, oggi come ieri, continua a confondere con ideologia – concernenti il modus operandi del grande traduttore e promotore, che ha diffuso sì la figura di Pessoa, mutilandola però da tutta una serie di tratti fondamentali – dagli studi sul mito agli interessi pessoani verso dottrine esoteriche e i suoi studi sulla tradizione. Questo è accaduto. E null'altro. Altro che "scrittore di Destra".
Prima di essere definito scrittore di qualsivoglia "parte" politica, Pessoa disponeva di una sua peculiare immagine del mondo, di una Weltanschauung – oggi un bene più prezioso dell'acqua nel deserto – che subordinò la storia al mito e rifiutò quelle innumeri dottrine moderne che legano il divenire dell'uomo e del suo ambiente circostanze alla mera materia. Fu avversario del progressismo, del materialismo, degli ideali della Rivoluzione Francese e se criticò il Fascismo, il salazarismo, il comunismo e il democratismo, ciò avvenne come declinazione particolare di questa sua visione delle cose. La sua avversione a questi fenomeni, vittoria della quantità, di un imbarbarimento che abbassa l'uomo al suo piano animale, dunque, non è che una applicazione di questa sua filosofia della storia. Nei detti movimenti – e anche qui risiede la sua drammatica attualità – egli vide la Modernità trionfante, nelle sue maschere più orribili, dalle orbite vuote. Vide la vittoria del nichilismo, tema tanto caro a Friedrich Nietzsche, di cui il poeta portoghese fu attento lettore, sino ad auspicare, in uno dei suoi scritti firmati dall'eteronimo futurista Campos, dopo aver messo al bando qualsiasi forma di potere organizzato e di cultura, l'avvento del superuomo, sì, proprio di quel superuomo:
"Il superuomo sarà non solo il più forte ma anche il più completo!
Il superuomo sarà non solo il più duro ma anche il più complesso!
Il superuomo sarà non solo il più libero ma anche il più armonico!"
E, si badi – e questo a ricordare la complessità di un pensiero che non è riducibile ad uno dei suoi tratti senza risultarne distorto e mutilato – nello stesso articolo, critica il nietzschianesimo d'oltralpe nonché la figura di d'Annunzio, che di quest'ultimo fu alfiere in Italia.
È a questa visione del mondo che occorre guardare, non alle sue declinazioni individuali. Ma, si sa, è molto più facile fissare il dito, piuttosto che la Luna. Soprattutto quando esso punta contro il Nemico Assoluto.
Pessoa non fu "uomo di Destra". Affermare ciò è tanto riduttivo quanto affermare il suo essere esclusivamente "antifascista". Queste sono bagatelle che riguardano solo ed esclusivamente una certa cultura italiana, ancora viziata da vecchie categorie che, non appena ne capita l'occasione, vengono ribadite, a suggello della loro perenne validità. È la "tradizione orale" del nostro Paese; per quanto ancora ci impedirà di accedere alla naturale complessità di un'opera e di un autore come quello in oggetto?

*
SEGNALATO da Andrea Scarabelli (Rivista Antares)




martedì 14 febbraio 2012

Giovanni Sessa: considerazioni critiche sul "Cavalcare la tigre" di Vitaldo Conte (da Pulsional Gender Art, A21)


Arte magica e sciamanica
Considerazioni sul “Cavalcare l’arte” di Vitaldo Conte
di Giovanni Sessa
Raramente, in particolare nell’ultimo periodo, ci è capitato di dover parlare di un libro, la cui effettiva comprensione implichi la decodificazione della sua densità contenutistica e della sua complessa stratificazione interna. Ci riferiamo a una recente pubblicazione di Vitaldo Conte, docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Catania, nonché artista egli stesso, Pulsional Gender Art, Avanguardia 21 Edizioni. Nelle sue pagine, l’autore presenta una concezione dell’arte in grado di cor-rispondere alle pulsioni vitali e al diffuso bisogno di conoscenza, non ancora an-estetizzati, dell’uomo contemporaneo, immerso nei flussi metamorfici della società “liquida”. Si faccia attenzione, però! Quando utilizziamo la formula “concezione dell’arte”, non ci riferiamo ai confini, ormai asfittici e sterili, che al produrre artistico sono stati attribuiti, a partire dal Settecento, dall’estetica moderna. Anzi, la teoria-pratica dell’Arte di cui Conte si fa latore, muove da una certezza: la necessità di superare le conclusioni cui pervennero le avanguardie del primo Novecento, in particolare il Dada. Per recuperare un’effettiva possibilità Cre-Ativa, vanno negate le stesse categorie artistiche, nella ricerca di passaggi verso l’Ab-grund, l’abisso sorgivo dell’Origine sempiterna, sottratta alle logiche produttivistiche, utilitariste, economiciste cui, nella contemporaneità, soggiacciono modalità creative solo convenzionalmente dette ancora tali. L’intento è quello di scoprire l’eterno, quale sempre possibile, nel qui e ora, in un confronto non più con il moderno, ma con il post-moderno, che conceda al poietes, al creatore, di scorgere l’universale nel particolare, l’infinito nel frammento, l’armonico nella lacerazione.
Alla luce di ciò, le prime pagine del testo, ci paiono pensate sotto la stella e l’estro di Walter Benjamin, maestro indiscusso di una vocazione letterario-rappresentativa eminentemente aforistica, attenta al frammento e metodologicamente aperta alla contaminazione di generi e stili, asistematica, sviluppata in saggi, come quelli di Conte, sospesi tra teoresi e critica “creativa”. Ma, il vero nume tutelare della prima parte del libro, Corpi d’arte estrema, è senza dubbio Jean Luc Nancy. Infatti, in essa vengono presentate e discusse diverse forme di arte estrema, legate alla Body Art, che sono, al medesimo tempo, arte dal vivo e Arte Vitale, implicanti immagini come quelle “segnate” con il sangue dei corpi in mostra, ritenute sconvenienti per le norme sociali e il senso comune. L’esibizione del corpo d’arte esprime: “purezza e impurità, il sacro e il profano, la vita e la morte” (p. 6). Dal che, si evince come questa forma espressiva implichi il recupero della mistica estatica, in quanto in essa si ri-propone, magicamente: “il contatto, visivo e intimo, tra il corpo segnato e l’occhio che guarda”, ben al di là del limite conseguito da qualsiasi comunicazione meramente verbale. E’ la parola, o meglio, l’urlo della carne, del confine corporeo, paradossalmente luogo epifanico dell’oltre.
Il corpo è stato variamente tematizzato dal pensiero contemporaneo, ma il Noli me tangere del filosofo Nancy, ha rappresentato il momento apicale in tale trattazione e la sua eco si ascolta, sia pure implicitamente, nelle pagine di Conte. In questo scritto del pensatore francese emerge un hapax teologico, nel movimento del trattenere o prevenire, da parte del Cristo, il gesto della Maddalena, dopo la resurrezione: si tratta di una tutela del corpo resuscitato. Dice Nancy: “Non toccando questo corpo, toccare la sua eternità”. Cosa evidenziata in particolare nei dipinti, dedicati al soggetto in questione, da Rembrandt, Dürer e Tiziano. Ciò che qui interessa rilevare, è la valorizzazione che Nancy compie, della Maddalena: questa donna è stata presentata tradizionalmente come una prostituta, dalla quale Cristo ha scacciato sette demoni, ma essa è stata, nel corso della sua vita, in costante prossimità con la morte e il dolore. E’ in grado di cogliere, pertanto, la vita nella morte, il risorto nel cadavere, poiché ha fatto esperienza della morte nella vita: nella sua figura viene suggerito il momento femminile e sinistro dell’ arché. Insomma, solo il corpo carnale rivela il corpo “glorioso”. Il tema, peraltro, non è presente solo nel filosofo transalpino ma, tra gli altri, anche in Franco Rella (Ai confini del corpo, Feltrinelli 2000) e, in altra prospettiva, in Xavier Lacroix (Il Corpo di carne, EDB 1996).
Quindi, il segno-ferita di cui dice Conte, testimonia, da un lato, la dimensione catartica e rituale della violenza, secondo la direzione indicata in noti studi da René Girard, ma: “…è anche un modo per opporsi a un esterno che tende a dissolvere la fisicità in una onnivora rete virtuale” (p. 9). Il linguaggio del corpo parla lingue diverse da quelle a cui la modernità ci ha assuefatti. La riconquistata significanza del corpo-simbolo, presentata dalle forme di arte estrema, può illuminare davvero di senso la nostra finitudine. Il dolore, la ferita, la lacerazione assumono, in questi contesti, valenze arcaiche e rituali, indicanti, come nelle autentiche tradizioni iniziatiche, il passaggio. Dal corpo cosale a quello sveglio o risvegliato, dal “silenzio” del corpo mercificato, anche dall’approccio medico-scientifico, di cui così esemplarmente ha detto il nostro più illustre scrittore d’aforismi, Guido Ceronetti, all’eloquenza del corpo d’arte. Per conseguire la quale il performer, nelle sue messe in scena, esce dalla visibilità: “Nascono così i luoghi dove si esprime l’assenza, la sparizione corporale” (p. 11). Una delle più pregnanti esperienze, in tal senso, è stata realizzata da Gina Pane, che utilizzava la ferita per suscitare emozioni indicanti la volontà di superamento della dimensione corporea propriamente detta. La “violenza” d’arte è esorcismo nei confronti della violenza dal carattere ontico, imposta dal Gestell, l’Impianto tecnico-produttivo.
Quest’arte è costituzionalmente e vocazionalmente sciamanica. Le stesse produzioni e gli allestimenti di Conte, lo testimoniano. A muovere da quello realizzato nell’ex-ospedale psichiatrico di Messina, di cui viene detto nel libro, nel quale: “La ferita- da segno patologico- diviene creativa in un evento collettivo e imprevedibile, espresso con comportamenti, danze, espressioni pittoriche e materiche, musiche. L’evento riunisce i terapeuti, i pazienti e gli esterni, nella medesima sostanza pulsionale, vestiti ognuno con una tuta e una maschera raffigurante il proprio altro volto” (p. 17). Oppure, la cosmizzazione dell’umano, può transitare attraverso il recupero delle energie telluriche in momenti d’arte-vita, che Conte a più riprese, ha ambientato nel Salento, nelle occasioni che scandiscono il ciclo dell’anno, ad esempio in prossimità dei solstizi: “La possessione ricerca la sua liberazione attraverso l’esorcismo sciamanico: la danza, il tamburo, il cerchio magico, diventano la segnaletica dello spazio altro” (p. 124). In ciò si evince, con chiarezza, la riemersione del mito di Anteo, la cui salvezza era correlata, nel racconto, al suo sintonizzarsi sulle energie ctonie e uraniche. Al suo essere sin-tonico rispetto ai ritmi cosmici.
Tutto ciò, è presente con ulteriore nitore, nella trattazione che l’autore dedica alla Poesia Sonora. Nell’esperienza riferibile a Demetrio Stratos, la ricerca della sonorità pura, conduce al predominio del significante fonico rispetto al significato semantico della parola. La voce, in quanto strumento sonoro, cor-risponde, in questa prospettiva al suono dell’Origine. Nei miti di creazione, secondo le convinzioni dell’etnomusicologo Marius Schneider, il momento acustico determina l’atto creatore: gli dei sono canti, poiché la fonte da cui il mondo emana, è sempre musicale. L’abisso primordiale, dal quale il mondo si eleva, è cassa di risonanza, la natura dei primi esseri è puramente acustica e la voce ne è l’eco, a livello microcosmico. La Poesia Sonora spostando lo sguardo sotto la soglia linguistica, dissolve il materiale verbale, frutto della ragione calcolante, ricollocandoci nell’arché-telos.
In fondo, la medesima funzione riconnettiva, è svolta da diverse forme di danger art, tra esse, l’autore richiama l’attenzione del lettore sulla Bondage Art. Qui riappaiono ritualità sacre di origine nipponica, e un uso anagogico della sessualità, fondato sull’abbandono alla sensualità, in quanto propedeutico all’ascolto profondo. Infatti:“Questi eventi estremi vogliono divenire anche delle testimonianze: verso l’insensibilità del corpo nell’era tecnologica, e di confronto verso angosce e demoni interiori, che spesso vengono ignorati e sublimati” (p. 23). La cosa naturalmente si realizza, a condizione che i praticanti siano motivati in tal senso e ambiscano effettivamente alla re-integrazione andro-ginica. In caso contrario, tali pratiche possono indurre, anziché aperture verso l’alto, regressioni psichiche verso il basso. Chiusure, anziché aperture e nuovi orizzonti. Non è casuale, quindi che nel libro venga presentata la figura di Aleister Crowley e analizzata la sua “magia sessuale”, quale tentativo di unione mistica con l’universo.
Le diverse tendenze artistiche discusse e i protagonisti che le animarono o, a seconda dei casi, le animano, hanno un tratto rilevante in comune: sono tutte espressioni di Arte-Vita, tendenti a liberare la creatività dall’invalidante dualismo/dicotomia di intelletto e azione. Il pensiero è per definizione azione. Solo in questa prospettiva l’arte introduce alla dimensione festiva della vita. Con Marinetti e il futurismo, Conte può affermare che: “…l’inferno economico sarà rallegrato e pacificato dalle innumerevoli feste dell’arte” (p. 82). Figura d’eccezione, in tale contesto, è Valentine di Saint-Point, la cui esistenza, scandita da sensualità e prepotente pulsionalità, è stata un vero percorso creativo. Altro esempio paradigmatico, ma sul piano storico-comunitario, è quello dell’esperienza fiumana di D’Annunzio, “Festa-Rivoluzione”, immaginifica e lirica, come nelle corde della concezione futurista. Il Poeta-Vate incarna la “fantasia al potere”, capace di sublimare il profitto in economia di dono. Guido Keller e Mario Carli trasformarono Fiume in “Città di vita”, incarnando, ancora una volta nel senso etimologico del termine, l’utopia estetica, di origine romantica. Questa vita-possibilità estrema, è indotta dall’accettazione tragica e, per questo, gioiosa del mondo, che da sempre è latrice di un’idea di creazione centrata su un’arte pulsionale che vuole: “cambiare il gusto e l’esistenza, anche quotidiana” (p. 91), e che mira, attraverso l’intensità, a porre in forma il reale, dominato dall’antiprincipio, l’hasard. Tale dimensione demiurgica è costitutiva anche delle avanguardie contemporanee, neofuturiste e neodada, attive sul web. La rete è concepita dai rappresentanti delle neoavanguardie come luogo di libertà creativa e diffusionale, cosa sulla quale ci permettiamo di avanzare qualche dubbio, vista la pervasività dell’eterodirezione socio-culturale. Resta il fatto che: “Il Futurismo e il Dada sono avanguardie che possono co-esistere in una continuità di azione-lettura, tanto da poter ipotizzare una creatività di FuturDada Oggi” (p. 96).
Insomma, di fronte alla metamorficità della vita, nell’età post-moderna accelerata dalla mercurialità comunicativa, quale il ruolo dell’arte? E, inoltre, quale il punto archimedeo delle diverse suggestioni indotte dalle pagine di Conte?
Oggi l’arte vive un’evidente dispersione nella società dei non-luoghi, non è più oggettivabile nei confini segnati dall’estetica, rigidi e in contrasto con la transitabilità contemporanea. Essa è: “…entrata dentro l’esistenza come essenza e presenza quotidiana” (p. 98). Per questo, di volta in volta, può assumere il carattere della visibilità o dell’invisibilità, in un’illimitata sinestesia. L’arte oggi, ha portato a piena maturazione la sua implicita tendenza all’oltre. Può risultare destabilizzante per l’ordine costituito, in un mondo in cui il riferimento prioritario non è l’intellettuale tradizionale, ma il blogger. Essa rappresenta nel web un virus non controllabile. In questo luogo, in qualche modo “eletto”, si sottrae alle logiche di mercificazione, cui soggiace nell’ambito del mercato globale, in cui: “…il prezzo dell’opera diviene segnale della reputazione di un artista, del gallerista e del potenziale compratore” (p. 100). In questo nodo teorico, può ravvisarsi la risposta al secondo quesito che ci siamo posti. Conte individua nel pensiero di tradizione, esemplarmente rappresentato da Julius Evola, e in particolare dal suo “Cavalcare la tigre”, una forza sovversiva nei confronti delle logiche del pensiero dominante. Trasforma, in un certo senso, l’indicazione evoliana mirata a controllare la corsa impazzita della tigre della modernità verso il basso, in una possibilità d’ascolto delle “potenzialità” che, una tale condizione, può presentare. Suggerisce una sorta di “Cavalcare l’arte”, avendo individuato nella poiesis e nelle sue potenzialità, il dato sismografico della crisi e la sua terapia. Certamente, per l’autore, mistica e tradizione, hanno oggi un volto diverso da quello abitualmente attribuito loro, si riproducono, come ogni cosa in questo tempo ultimo, in modo estremo e con maschere di nomadismo che, apparentemente, non sono loro proprie.
Ha ragione Conte, nel dire che Evola in questo libro del 1961, chiude un ciclo e ritorna alle posizioni da cui era partito negli anni della giovinezza, attraverso il recupero del momento filosofico-speculativo. Infatti, al centro di opere come L’Individuo e il divenire del mondo è da cogliersi una valorizzazione senza precedenti del dionisimo e delle sue valenze conoscitive. Non è forse il recupero della medesima potestas divina, che sta a monte delle diverse espressioni d’arte presentate dallo studioso in questo volume? In tal senso, risulta significativo e sintomatico il paragrafo dedicato ai “Nudi di Julius Evola come Metafisica del sesso”. Tali dipinti di nudi femminili, realizzati nel decennio 1960-70, sono portatori di archetipi e simbologie erotiche che mettono in luce il mondo “segreto” femminile, in funzione delle pratiche di magia sessuale. In essi, perfino il colore dei capelli, assume una valenza di richiamo realizzativo. I tre quadri sono collegati tra loro, esemplificano le potenzialità del femminile, positive e negative, incarnate dal demetrico e dall’ afroditico.
Quindi, se come ricorda Evola in Cavalcare, l’uomo differenziato può profittare della situazione attuale, determinata dalla meccanicizzazione della vita: “…attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità ” (J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971, p. 113), al fine di enucleare la persona assoluta, tale prospettiva apre sul reale nuove porte. Esso viene esperito in uno stato in cui non c’è soggetto dell’esperienza, né oggetto che venga sperimentato, ma esclusivamente la semplice, pura, essenziale, presenza delle cose. I fatti, gli enti, sono in-sensati, senza scopo ed intenzione, ma in quanto tali assumono una significanza assoluta. Si tratta di una “denudazione” del reale, che induce la visione di Neue Sachlichkeit, di Nuova Oggettività. Ecco, mi pare che il risultato tangibile della Pulsional Gender Art, teorizzata e praticata da Vitaldo Conte, nelle sue diverse forme ed espressioni, possa trovare il proprio snodo focale, in questa sintetica definizione.
Poiché, negli ultimi tempi, sulla scena italiana ha fatto la sua comparsa il Libro-Manifesto di un nuovo movimento di idee, intitolato, Per una Nuova Oggettività. Popolo, partecipazione, destino (Heliopolis 2011), alla cui stesura ha collaborato lo stesso Conte, ci auguriamo che i contenuti del libro qui brevemente presentato, per la loro importanza, possano inaugurare sul tema un dibattito critico, aperto, produttivo.
Vitaldo Conte, Pulsional Gender Art, Avanguardia 21 Edizioni (Roma 2011)

domenica 11 dicembre 2011

Un aspetto del Caso Heine *by Paolo Melandri

Che ci sia simpatia, certo è molto bello, ma che questa simpatia si traduca di continuo nella volontà di riabilitarlo come uomo “buono” è davvero curioso!

Sarà certamente ingiusto da parte mia, ma ho ormai l’abitudine, quando sento l’espressione «un uomo buono», di tradurla istantaneamente in francese: un bonhomme. Lo si potrebbe considerare un esempio del famoso passaggio dal sublime al ridicolo; a mio avviso, tuttavia, al “buono” nell’accostamento sopraccitato il sublime aderisce così poco che, se qualcuno mi attribuisse un tale predicato, mi sentirei addirittura offeso.

E dico questo non dal mio consueto punto di vista filosofico, secondo il quale considero le parole “buono” e “cattivo” come etichette sociali senza alcun significato filosofico e come concetti il cui valore teorico non è più grande di quello dei concetti di “sopra” e “sotto”. Un assolutamente “buono” o “cattivo”, “vero” o “falso”, “bello” o “brutto” esistono tanto poco nella teoria quanto nello spazio esistono un sopra e un sotto.

Tuttavia, dicevo, non c’è bisogno di scomodare tanta filosofia per comprendere che cosa intendo. A prescindere dalla grigia teoria, chiedo soltanto che una buona volta mi venga mostrato nella viva, aurea pratica un uomo davvero buono. Giuro che, sùbito pentito, mi batterò il petto, perché un uomo del genere sarebbe un’apparizione veramente sublime.

Ma non seccatemi con questi cosiddetti uomini “buoni”, la cui bontà è fatta di pratico egoismo vitale e morale cristiana rappezzati con la massima incoerenza possibile! Dall’uomo ideale veramente buono, sublime, a questa ridicola razza di vipere c’è non un passo, bensì un’eternità!

Ed è con un simile spregevole marchio che si cerca continuamente di bollare il mio Heine?!

Qualche tempo fa, sullo «Zeitgeist» (glorioso supplemento del «Berliner Tagblatt») un tale Dott. Conrad Scipio si lanciava in un articolo piuttosto schematico dal titolo Zur Würdigung Heinrich Heines [“Omaggio a Heinrich Heine”], nel quale sosteneva con tutte le sue forze la necessità di assolvere senz’altro la dissoluta vita privata di Heine, il quale in fondo era stato un buon protestante e un buon patriota – e altri apprezzamenti di questo conio.

Che cosa ridicola! Crede dunque davvero, questo homunculus, di fare un favore postumo al defunto Harry Heine dicendo di lui tali scempiaggini? E che razza di prove sono quelle! Siccome Heine parla con trasporto di Martin Lutero, allora è un protestante! Con pari legittimità il Dott. Scipio potrebbe dire: siccome Heine – credo fosse a Helgoland – leggeva la Bibbia con tanto zelo e trovava il libro così bello, era un pietista! Heinrich Heine, mio caro signor dottore, ammirava Napoleone, benché fosse un tedesco di nascita, e ammirava Lutero, benché non fosse un protestante.

E perché affaticarsi a smentire Heine stesso, che ancóra nell’ultimo periodo della sua vita, quando «di tanto in tanto credeva nella Resurrezione» ed esprimeva la speranza: «Dieu me pardonnera, c’est son métier», si difendeva con zelo dalla diffusa dicerìa che fosse «tornato in seno a una Chiesa»? Per spiriti ben diversi dal suo, caro signore, certe camicie di forza dogmatiche non sono tagliate.

Ah! e poi il grido di trionfo che spesso si è costretti a sentire: «Già! Che questo Heine, il quale per tutta la vita ha oltraggiato la nostra morale con parole e opere, sia tornato al suo Dio sul letto di morte prova che…». Come, scusi? Quand’è che il giudizio su un uomo è più competente, quando questi è nel pieno delle sue forze fisiche e spirituali o quando, ridotto, secondo le sue stesse parole, a uno «scheletro spiritualistico» (così Heine definiva se stesso negli ultimi anni, a Parigi), langue di fronte alla completa dissoluzione?!

E il patriottismo di Heine!

Devo ammettere che le prove addotte al riguardo dal Dott. Scipio sono ormai per me troppo lontane perché io possa richiamarle qui. Ma quando in genere si parla di patriottismo, mi sovviene sempre una frase che ho sentito una volta da un colto commensale: «Lo spirito di Goethe» all’incirca così disse quell’uomo ardito «era troppo grande e poderoso perché potesse accontentarsi dell’amor di patria; esso abbracciava il mondo intero». Bravo! Dunque il nostro uomo dev’essere un po’ limitato nello spirito per potere essere un patriota. Che lo spirito di Heine fosse sufficientemente limitato per questo, Dott. Scipio?

No, Heinrich Heine non era un uomo “buono”. Era soltanto un grande uomo. Soltanto…!

D’altra parte, l’articolo era scritto con tanta asciuttezza e dignità che il Dottore meriterebbe davvero di divenatare Professore.



Paolo Melandri

10 dicembre 2011

Ritratto di Mozart *by Paolo Melandri

Dell’aspetto e del carattere di Mozart in età virile abbiamo numerose e soddisfacenti testimonianze, tra cui spiccano quelle dei coniugi Novello, desunte da conversazioni con Konstanze Nissen ved. Mozart, e le ultime lettere della sorella Nannerl, scritte per soddisfare le curiosità di un musicologo quale il Burney, che se ne sarebbe servito per l’ultima parte della sua “History of Music”. Le testimonianze, per quanto diversamente polarizzate, concordano nel fornirci il seguente ritratto.
Mozart appariva innanzitutto come una persona di bassa statura, un metro e sessanta centimetri circa. Aveva piedi molto lunghi su gambette agilissime e striminzite. Le mani erano paffutelle e spiccavano al Cembalo per un incomparabile “jeu perlé”: erano insomma molto agili e addestrate nel “rubato”. A questo proposito lo stesso Compositore cita in una lettera il detto evangelico: «non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra». Il “rubato” consiste nell’anticipare o nel ritardare impercettibilmente l’ingresso di alcune voci durante l’esecuzione. A un primo colpo d’occhio non poteva sfuggire la straordinaria eleganza e la fattura ineccepibile dei suoi vestiti. Mozart spendeva molto nel proprio vestiario, ed era abbonato alla Rivista di lusso «Il Manuale del Vero Elegantone Viennese», sulla quale nel Carnevale del 1784 pubblicò gli “Enigmi Zoroastriani”, presentati ad un ballo in maschera e sùbito inviati (con le soluzioni) al padre Leopold, che ne fu molto fiero. Questi acquistò poi numerosi volumi della Rivista con gli “Enigmi” del figlio e li distribuì presso le famiglie nobili di Salisburgo. Le spese per il vestiario incisero molto sul bilancio finanziario di Mozart e furono tra le prime cause dei suoi famigerati debiti, precedute soltanto dalle fortune perdute giocando a biliardo e dal mantenimento dei sei cavallini ungheresi, alla lena dei quali affidava la sua sontuosa carrozza. Tra la fine del ’700 e i primi dell’800 la maggior parte dei beni dilapidati dagli aristocratici viennesi, lo furono al gioco del biliardo, au dernier cri, e non, come si crede, al gioco delle carte. Mozart fu dunque un forte giocatore, ma solo di biliardo: non era però attratto dal gioco delle probabilità, ma soltanto dal desiderio di circondarsi della più altolocata aristocrazia viennese, che, almeno fino al 1785, lo adulava spudoratamente. Anche mentre giocava a biliardo, comunque, componeva: secondo una testimonianza un Terzetto del “Flauto Magico” fu composto durante una partita di biliardo. A Praga, mentre attendeva alle prove della “Clemenza di Tito”, compose numerosi numeri del “Flauto Magico” nelle più disparate circostanze, tra cui mentre faceva colazione. Per lui “comporre” era fissare mentalmente tutti i dettagli della composizione, mentre il mettere “nero su bianco”, altro non era che una trascrizione dalla memoria allo spartito, durante la quale la sua mente era nuovamente impegnata a comporre altre opere che aveva in cantiere. In questo modo componeva moltissimo, ma non, come potremmo immaginare, “di gran carriera”, perché le sue partiture erano ampie ed esattamente differenziate per molti strumenti e, anche se l’ideazione non richiedeva molto più tempo del nostro ascolto, la trascrizione era lenta e meticolosa, avvalendosi di una calligrafia magnificamente chiara e pulita. L’eleganza del Compositore era tale, che quando nel 1782 Clementi si recò alla Hofburg per gareggiare con lui in improvvisazione al fortepiano, lo scambiò per un ciambellano di corte o, come si diceva allora, per un maître de chambre. Mozart cingeva sempre lo spadino e, alla prova generale delle “Nozze di Figaro” (1785), portava stivali gallonati e con speroni. Alle ovazioni dei musicisti in orchestra che battevano gli archetti sui leggii replicò con un semplice e distratto sorriso. Anche quando parlava, benché fosse estremamente cortese e cerimonioso, sembrava sempre pensare “ad altro”: ed in effetti pensava “ad altro”: alle nuove composizioni che nascevano in lui.
Aveva radi e sottili capelli biondi, che portava lunghi all’indietro, rattenuti con finta incuria da un codino portato molto lento, cosicché i capelli si potessero sviluppare considerevolmente in altezza. Non portava la parrucca, ma spruzzolava in modo studiatamente improvvisato i propri capelli, che risultavano così d’un biondo cinerino: di essi era estremamente vanitoso. I capelli servivano anche a mascherare un difetto: il suo orecchio destro aveva il padiglione superiore esageratamente sviluppato, e terminante a punta. Tale malformazione viene chiamata ancor oggi “orecchio di Mozart”. Ovviamente non esiste alcuna relazione tra tale malformazione dell’orecchio esterno e l’estrema ricettività dell’“orecchio interno” del Nostro, capace di cogliere anche i più lievi sussurri. Durante il secondo parto di Konstanze, quello dal quale doveva nascere Carl Thomas, futuro funzionario dell’Impero Absburgico a Milano, egli era alla scrivania e stava componendo un quartetto. La balia gli fece cenno e rispettosamente lo invitò ad appressarsi al letto della partoriente, e a stringerle le mani; cosa che Mozart prontamente fece, ma per tornarsene poi sùbito al tavolo di lavoro: aveva percepito i gemiti del travaglio della moglie come suoni e accordi distinti, così nitidi che li poté inserire nel Trio del Menuetto del Quartetto in re minore che stava giust’appunto componendo. È un raro caso di onomatopea nella musica del Salisburghese.
 Il volto di Mozart apparve sempre scialbo e lo sguardo dei suoi occhi azzurri poco accattivante: uno sguardo distratto e distante, immerso in qualcosa di imperscrutabile, che si animava solo quando suonava o, sedendo al Cembalo, dirigeva l’orchestra. Quando suonava o si concentarva nella composizione, il suo viso appariva pervaso da una malinconia soave e miracolosamente bella, e al contempo appariva singolarmente triste e benevolo, come quello di una persona che conosce a fondo tutti i dolori dell’umanità. Sublime profondità di pensiero e ineffabile espressione di una gioia spirituale che si manifestano in pressoché tutte le composizioni della maturità, persino nelle più effemeriche e “occasionali”, ma che non hanno quasi mai riscontro nelle conversazioni del Compositore, pure uomo di non poche parole e dotato di una meravigliosa capacità d’espressione anche letteraria, per esempio in non pochi brani delle “Lettere”. I tratti del volto del Compositore mentre suonava (e probabilmente improvvisava al Cembalo) sono stati mirabilmente fissati su tela nel ritratto eseguito dal cognato Alois Lange, marito della sorella di Konstanze Aloysa Weber-Lange, architetto, ambasciatore e pittore dilettante, ma di molto talento e sicura preparazione tecnica. Sicuramente Lange ha ritratto Mozart mentre siedeva al Cembalo (la cui sagoma, non colorata, si riconosce senza margine di dubbio in basso a destra) e non ha terminato il suo lavoro, limitandosi alla figura seduta del Compositore, evidentemente per mancanza di tempo.

*PAOLO MELANDRI