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venerdì 6 marzo 2015

Racconto surrealista "Il figliastro": di Laura Corsini


di Laura Corsini

 
Il figliastro

Partii da casa con le prime luci dell'alba, tanto il sonno se n'era andato già da un po' e camminare avrebbe aiutato il mio cuore a palpitare a ritmo, ad avere pazienza, a misurare spazio e tempo senza precorrere o bruciare. La città, raggiunta con un breve sfrecciar di treno, era un santo con l'alone rosa sui tetti, uno spettacolo mozzafiato, se si riusciva a non pensare che quel bel colore era donato da un miscuglio di gas venefici che brulicava sulle nostre teste di poveri esseri condannati a respirare. L'ufficio era in un palazzo antico; già l'ingresso, con la gradinata e il portone, metteva una gran soggezione e fuori c'era il silenzio.
“Sono arrivato per primo” pensai con una punta di soddisfazione mettendo in fila le tante cose che, in una lunga giornata che mi sarebbe rimasta, avrei potuto fare. Il corridoio semibuio sfociava in un piccolo atrio dove un usciere alla sua scrivania sonnecchiava, incassato nelle sue stesse spalle.
«Giorno...» gli feci timidamente, tanto piano che quello non aprì neppure un occhio in cambio. Ma non avevo bisogno di indicazioni, la porta bianca, un po' sbucciata, aveva un cartello scritto a mano e attaccato con le puntine che mi orientava, così la spinsi e in un attimo mi trovai in una gialla luce da neon mentre un brusio, un ronzare di voci che a tratti aumentava e diminuiva, senza una logica reale, occupava e saturava l'aria.
«Giorno» ripetei, ma nessuno si voltò. Non ero il primo, la lista delle cose da fare si doveva accorciare un po'. Pazienza. Erano circa trenta persone, sedute a semicerchio e in ordine sparso su seggiole di plastica azzurra, come a far la guardia a un'altra porta, a vetri smerigliati, e a indirizzare incrociando lì le varie attenzioni, seppur con finto disinteresse. Non appena, infatti, l'uscio si schiudeva leggermente come una bocca al suo sorriso, non v'erano terga che restassero appiccicate alla superficie su cui giacevano, ma si sollevavano di qualche centimetro, pronte a scattare all'occorrenza. Faceva capolino quella che doveva essere la segretaria, inespressiva, incolore, inodore, insapore e, con una voce che doveva far molta fatica a usare, pronunciava un nome che spulciava con una breve occhiata da una lista. Il nome corrispondeva a una persona che scattava all'attenti e si infilava nel misterioso antro della Sibilla che si richiudeva con gran fragore alle sue spalle.
«Chi è l'ultimo?» domandai come si fa all'ambulatorio, per prendere la fila.
«Sono io» esclamò un signore coi baffi che si era riadagiato comodo sul suo scranno.
«Ma tanto non vanno in fila, chiamano loro» intervenne una signora con un cagnolino annoiato in braccio.
«Sì, ma un po' ne tengono conto, della fila» precisò una vecchina che speravo non fosse diventata tanto grinzosa e rinsecchita ad aspettare il suo turno. Il brusio riprese. Intanto, dalla porta di ingresso, continuavano ad arrivare persone e i buchi-posti liberi diminuivano. Aspettavo e mi guardavo attorno. Non c'era nulla di interessante, le persone che mi circondavano erano ordinarie, anche se ciascuna di loro vantava, a parole, grandi glorie. Non gli avrei dato un euro, a quella specie di bancario là, invece aveva ottenuto vari premi e riconoscimenti che snocciolava in preciso ordine cronologico a ogni nuovo arrivato. La donna col cagnolino sembrava la perfetta casalinga, eppure sfoggiava sul petto una sorta di medaglia che scintillava donandole un raggio da Sacro Cuore. E il ragazzo senza un pelo sul mento? Appena diplomato alle medie? Ma no, aveva annosa esperienza da come diceva, cercando pateticamente di far la voce grossa.
Quando sarà il mio turno di cosa parlerò? Non ho nessun ornamento da parare... Vabbè si vedrà” e, in questi dubbi, aspettavo. Fortunatamente appartengo a quella generazione che ad aspettare è abituata. Sono nato con una gran fregola addosso, volevo tutto subito e senza indugi, mi scocciava pure stare cinque minuti con “Per Elisa” all'orecchio mentre il centralino mi passava l'ufficio. Poi, invece, a suon di attese, il mio animo si è tranquillizzato e ha fatto dell'indugio non più un mezzo ma un fine. Mentre si aspetta si possono comunque svolgere altre attività, ma quell'aver qualcosa da aspettare dà un senso a tutto, un più alto significato. Non importa se, poi, l'oggetto anelato non arriva mai. L'attesa ha avuto comunque il suo valore eticamente rilevante.
Dalla porta a vetri smerigliati ogni tanto sbucava il naso adunco della segretaria e il cliente, soddisfatto o meno, usciva. Un momento di suspense e poi la donna, sadica nel suo differirne la pronuncia, gettava là un altro nome e un cliente si alzava, si guardava attorno per cogliere negli sguardi il suo trionfo, e andava a prendere il suo compenso.
Cominciavo ad annoiarmi, così, lasciando girovagare lo sguardo, notai due o tre piante davvero tristi, con le foglie penzolanti e giallognole. “Poverine, chissà da quanto non bevono” pensai. Raggiunsi il bagno accompagnato dagli sguardi feroci di mezza platea che credeva che volessi infilarmi nell'ufficio senza essere convocato. Trovai una bottiglietta di plastica gettata a terra, la riempii e cominciai a prendermi cura dei poveri vegetali. Sentivo la loro gratitudine mentre succhiavano avidamente ogni molecola del liquido ed ero doppiamente contento: avevo fatto del bene a qualcuno e avevo impiegato un po' di tempo, circa due clienti. Vedendomi, mentre usciva per la solita incombenza, la segretaria mi fece il dito a uncino, segno che voleva che mi avvicinassi. Altri sguardi feroci.
«Vedo che si annoia» fece in un tono che voleva essere gentile, ma apparve alle mie orecchie sfibrate alquanto crudelmente indifferente.
«Beh, è un po' che aspetto e...» ma non mossi la sua pietà.
«Mi segua» tagliò corto. Si diresse verso una di quelle porticine segrete che si ritagliano nei muri gialli degli antichi palazzi. Si intravedeva solo una minuscola toppa scura, ma lei con decisione vi infilò una chiave, la girò ed entrammo. Mi trovai di fronte il bailamme più assoluto, comprensivo di scartoffie, faldoni con i laccetti aperti, fascicoli sbudellati, fogli di tutti i toni del giallo a tappezzare il pavimento.
«Questo è l'archivio» mi annunciò. Credevo che fosse uno scherzo di carnevale, ma era seria.
«Sa, non riusciamo mai a sistemarlo, qua siam pieni di lavoro. Se lei potesse veder di fare qualcosa... Tanto deve aspettare e quando sarà il suo turno verrò a chiamarla io.»
L'impresa era titanica, ma alzai le spalle e, rimasto solo, cominciai ad affastellare fogli, metterli in ordine alfabetico dentro le rispettive cartelle e queste in ordinata fila nei faldoni. Ogni faldone su uno scaffale. Man mano che procedevo davo anche una bella spolverata. Da lì i nomi pronunciati a voce alta mi arrivavano come eco lontane, ma avrei saputo riconoscere il mio. “Tra poco toccherà al signore coi baffi e poi ci sarò io” mi consolavo, e mi affrettavo perché mi sarebbe dispiaciuto, in tal caso, lasciare il lavoro a metà.
Finii proprio in tempo. L'archivio era un modello da seguire, ora, e lo ammirai soddisfatto nella sua riacquistata identità, ma solo un attimo perché, dalla porticina lasciata socchiusa, avevo visto entrare in ufficio il signore coi baffi.
Mi misi in piedi vicino alla porta come una guardia svizzera, ripetendo mentalmente quello che avrei dovuto dire, rapida ricontrollata dei documenti da esibire che avevo con me. Le lancette cadenzavano quei momenti infiniti, poi la segretaria sbucò dietro all'uomo baffuto che andava via, mi gettò un'occhiata interrogativa a cui risposi con un'espressione sicura da “tutto finito” e lei, tranquillizzata, esclamò un nome che mi fece battere il cuore solo per un secondo, perché non era il mio. La vecchina grinza mi sfiorò passando, con un lampo maligno nei suoi occhietti azzurri.
«Non seguono l'ordine» mi ribadì la signora col cane, mentre il suo raggio si depositava sulle orecchie della bestiola come una meche chiara. E il suo tono era fin troppo soddisfatto. Fu lei la prossima ad essere convocata e, transitando nei miei pressi, mi mise in braccio come un pacco il botolo che ringhiava come se gli si fosse acceso un motorino nella gola: «Me lo tenga, mentre sono impegnata. E magari perché non lo porta un po' nel balcone?» e con il mento mi indirizzò la porta-finestra che introduceva a una sorta di balconata spoglia e grigia. Portai il cucciolo a prendere aria e lo feci contento, finché la sua mammina venne a recuperarlo, di lì a dieci minuti. La segretaria la seguiva.
«Tocca a me?» azzardai ingenuamente.
«Non ancora, ci siamo quasi ma, mentre aspetta, così, lo dico per lei, per ingannar l'attesa, potrebbe dare una pulitina al bagno. Sa, la signora delle pulizie è in ferie questa settimana. Ne terremo conto, della sua gentilezza.»
Strano, non mi sentii umiliato dalla richiesta, piuttosto lusingato che un incarico così di fiducia, tanto delicato, fosse affidato proprio a me. Senza replicare entrai nello sgabuzzino, attesi che un corpulento cinquantenne ne emergesse inondando di violette l'aere e, munito di guanti di gomma e spugna abrasiva, ci diedi talmente bene che, in breve, quella specie di latrina maleodorante sembrò l'amena ritirata di una vecchia zitella. Avevo appena terminato quando le onde dell'etere mi portarono un suono amico: «Bianconi!».
Caspita! Sono io! Sfilai in un nanosecondo i guanti, mi lisciai i capelli davanti allo specchio ed ero già davanti alla porta a vetri dove entrai in collisione con una specie di satellite artificiale altro due metri e venti, uno Schwarzenegger che mi osservò come Terminator quando cercava con i suoi occhi cibernetici il nemico nella notte più nera.
«Bianconi sono io!» mi giustificai.
«Bianconi sono io!» mi fece eco quello con onde sonore più alte dei cavalloni dell'oceano.
«Bianconi è lui!» e la segretaria puntò il dito verso il guardaroba in giubbino di pelle, aggiungendo poi: «Io ho chiamato Italo Bianconi e lei è Mario Bianconi!».
Sospirai.
Seguirono per me altri lavoretti e altre persone che andavano e venivano. Le ore passavano e io ero sempre lì. Oramai non sollevavo neanche più il didietro di quei cinque centimetri quando attendevo l'esclamazione del nome dalla crudele bocca della segretaria. Piano piano mi rannicchiai sulla sedia, a guardare quella varia umanità che mi passava sotto il naso, che faceva le sue faccende e poi se ne andava. Oramai era sera ed eravamo rimasti solo io e un vecchio che masticava tabacco e lo sputava nel cestino, non sempre facendo canestro. Naturalmente fu chiamato e restai da solo nel più assoluto silenzio.
Dai, ci sei solo tu, ce l'hai quasi fatta. Se ti sbrighi riesci anche a prendere l'ultimo treno della sera ed essere a casa alle dieci e cinquanta. Manca poco... coraggio”.
Il vecchio e il suo odore acre uscirono infine dall'ufficio, dopo un tempo interminabile che mi fece friggere pensando a quel treno che dovevo prendere.
Dietro di lui c'era la segretaria, ma non aveva la solita divisa grigio asfalto. Portava il cappotto e la sciarpa. Chiuse a chiave la porta dietro di sé e, prima di uscire, mi salutò gentile: «Buona notte, Bianconi, a domani!».
La luce si spense e restai da solo lì, nella sala d'aspetto buia che diventava sempre più fredda, perché avevano spento anche la caldaia. Mi avvolsi nel mio cappotto di panno, sdraiato su due sedie accostate, senza aver toccato cibo per tutto il giorno, senza aver fatto ciò che avrei dovuto, ma con le ossa rotte per il tanto lavorare, per un attimo temendo che ci avrei trascorso il resto della vita, in quella sala d'aspetto; poi mi assopii non pensando più al treno, alla mia casa che era incredibilmente lontana, consolandomi un po' all'idea che l'indomani sarei stato il primo. Sognai tante facce, gente che mi voleva fare a pezzi per mangiarmi, occhi famelici e la segretaria che rideva sguaiatamente e mi frustava gridandomi: «Lavora, schiavo!».
Mi svegliai con un brusio noto. Le facce del sogno erano tutte lì, almeno una trentina, sedute a semicerchio nelle sedie di plastica. Non mi ero neanche accorto che fosse già arrivata tutta quella gente. Un altro giorno di attesa stava per incominciare.


Ferrara, intervista alla scrittrice Laura Corsini: Psiche nel Post Reale



(Laura Corsini intervista) a cura di Roby Guerra

D -  Diversi romanzi di carattere psicologico esistenziale, un postrealismo raffinato, esatto?
Ciao Roby, sì, hai colto nel segno. Esaminare la psiche umana mi ha sempre intrigato. Sarà perché di “matti” nella mia vita ne ho incontrati tanti. Mi piace sviscerare le patologie, anche quelle nascoste, che ammalano la nostra anima di uomini moderni; non a caso adoro Pirandello e Svevo, quella loro antesignana capacità di cogliere la miccia della follia anche in un soggetto apparentemente sano e la sanità in una personalità disturbata. Per quanto riguarda l’aggettivo “raffinato” ti ringrazio. Sono i miei studi i responsabili, a volte credo che sia una condanna esprimersi in maniera corretta nell’epoca della lingua sbrodolata e approssimativa, ma non posso fare altrimenti, non so scrivere in altro modo che non sia questo

.

D-   Più nello specifico, una mini autobiografia, evntuali "modelli" d'ispirazione?
On c’è molto da dire su di me, non scriverei mai un libro su una persona come Laura Corsini, schiva, poco avventurosa, tranquilla e solitaria. Dalla vita assolutamente insipida. I modelli dei miei personaggi sono gli incontri quotidiani, gli ascolti che mi piace fare. Quando devo scrivere di un personaggio io cerco, tra la folla, uno con il suo stesso viso, i suoi gesti, la sua voce. Poi lo trovo e di nascosto lo esamino e scruto. Ho anche modelli letterari e cinematografici. Io amo molto il cinema e quando scrivo mi vedo già davanti il ciak e la scena. Le storie migliori si pescano per la strada.



D-   Recentemente, anche una vera e propria biografia per il "personaggio" Kitty Vinciguerra...
Collaborare con Kitty è stata un’esperienza gratificante. Anche se ho dovuto “piegare” la mia scrittura a una storia già esistente. Ma, come sappiamo, c’è differenza tra fabula e intreccio e Kitty è stata talmente generosa da lasciare a me tutta la costruzione del secondo, così che la storia, rielaborata, diventasse mia quanto sua. Chi sta leggendo Kitty ad ogni costo dice “credevo che il libro sarebbe stato noioso come tante biografie di personaggi famosi. Invece è avvincente, è un romanzo”. Certo, l’intento di uno scrittore è coinvolgere, non lasciare mai il laccio che tiene il lettore legato al suo libro, o lo perderà. Avvincere e appassionare è la mia maggiore ambizione. Poi, se la storia è bella, ci si guadagna tutti.

D-  Esiste una peculiare letteratura al femminile o mito ancora fallocratico?
Sì, esiste una letteratura femminile, già da diverso tempo, ma non ne faccio parte. Per me la letteratura è cultura e universalità. Pensa che in “Non si dispensano tartase” mi trasformo in un uomo per narrare una storia tutta maschile e per farlo ho osservato decine e decine di maschi, che sono poi riassunti nel mio Guido. Non sono una femminista, non sono arrabbiata col fallo né ne sento la mancanza e sono contenta di essere donna. Non invidio nulla all’uomo, come credo che un uomo non dovrebbe invidiare nulla a una donna. Esistono scrittori bravi e scrittori mediocri, uomini o donne, senza distinzione. Non mi riconosco in nessun filone. Scrivo, questo è tutto.

D – Progetti e un sogno per l’avvenire?
Dovrebbe a breve uscire “Ritorno a Canossa”, romanzo dedicato a uno dei personaggi della storia che mi affascinano di più, la contessa Matilda di Canossa. Questo è il progetto più imminente, poi si vedrà. Sogni e aspirazioni? La serenità, continuare a essere in pace con me stessa e riconoscermi allo specchio. Oltre a vedere una delle mie storie diventare un film.

*Laura Corsini ha edito diversi libri, vedi link IBS, tra essi Tutti gli incontri possibili e  Kitty ad ogni costo (con Kitty Vinciguerra- biofrafia) per DavidandMarthaus edizioni;  Non si dispensano tartase (Ediz. 6pollici), Il cuore a volte cammina all'indietro (come i gamberi), Universitas Studiorum (vedi photo)
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sabato 21 febbraio 2015

Laura Corsini, Il cuore a volte cammina all'indietro... recensione


di Kitty Vinciguerra

Laura Corsini, Il cuore a volte cammina all'indietro (come i gamberi), ediz. Universitas Studiorum  (collana Inchiostri)

La scrittrice Laura Corsini ha uno stile coinvolgente, capace di portare il lettore all'interno della narrazione, fargliela vivere in prima persona, donargli ogni sensazione. Grande cacciatrice di storie, riesce a trovare quelle più particolari, interessanti, che sappiano insegnare oltre a trascinare. Lo stile è elegante e colto, ma mai astruso, sempre scorrevole e adatto a ogni tipo di lettore. Sia che parli ai bambini sia che si rivolga alle persone più mature sa mantenere sempre un suo ritmo, che non incalza ma non perde mai di vista il filo, fino alla risoluzione finale, ricca di emozione. I suoi personaggi sono presi dalla vita di tutti i giorni, potremmo ritrovarli nel vicino di casa o nell'uomo che ci siede accanto in autobus, eppure possiedono sempre qualcosa di magico e avventuroso, uno spirito ricco e metamorfico che li porta fuori dal loro corpo di marionetta per donarne uno in carne e ossa.

"Questo romanzo è la storia di un viaggio geograficamente breve, ma che si svolge soprattutto nella profondità dell'anima dei protagonisti, per la necessità di far rivivere un passato difficile e portare alla luce una verità che per troppo tempo è rimasta nascosta. Da questo passato riaffiorano volti e avvenimenti, scoperte dolorose ma necessarie per riacquistare la serenità e la voglia di andare avanti. Perché a volte bisogna fare in modo che il cuore cammini all'indietro, come i gamberi, perché le cose ricomincino ad avviarsi verso la giusta direzione, verso il futuro. Il passato non è mai del tutto dimenticato, riaffiora più bruciante che mai, più nitido che mai"


domenica 18 gennaio 2015

Kitty ad ogni costo

Redazione


Kitty ad ogni costo, come una saga familiare, si apre con la narrazione delle vicende che precedettero la nascita di Concetta Vinciguerra e che, come vedremo, non sono raccontate a caso. La madre e il padre, sposi per via di un matrimonio riparatore, la Sicilia, così misteriosa e pittoresca, ma anche tremendamente dura e ostile, il nonno, assimilabile a un antico patriarca dalla numerosa famiglia. Questi gli ingredienti all'apparire nel mondo della piccola Kitty, chiamata da tutti, a Piazza Armerina dove trascorse l'infanzia, “La straniera”. Era già una diva in erba, ma quei genitori soffocarono sul nascere i suoi sogni, fino a imporle un matrimonio con un uomo che conosceva appena. A quindici anni la ragazzina, senza aver mai conosciuto l'amore, si ritrovò moglie e, poco dopo, madre di un maschietto. Il suo destino pareva segnato, la sua vita risucchiata nella voragine scura della rassegnazione, al pari di tante altre donne di quella strana terra. Ma la straordinaria bellezza e l'altrettanto fuori dal comune grinta fecero il miracolo. Concetta, che già aveva cambiato il suo nome in Kitty, un bel giorno lasciò dietro di sé tutto il dolore e la tristezza e si trasferì nelle più importanti metropoli d'Italia a tentare la via del successo. Aveva con sé solo una valigia piena di sogni, non sapeva bene come, né cosa sarebbe andata a fare, ma in breve si ritrovò modella e attrice, catapultata in una realtà popolata di personaggi famosi, begli abiti, gioielli e locali alla moda. Lasciò troppo presto la sua carriera per inseguire l'amore e per un po' visse una favola con il suo principe, il ricco e affascinante Ennio. Il lieto fine per la coppia fu rovinato da una tremenda piaga: il gioco d'azzardo. Un nuovo periodo buio per la nostra eroina, ma fu proprio allora che, accompagnando il figlio (che stava intraprendendo la carriera di musicista) in tournée a Londra, conobbe John Lennon e visse con lui una meravigliosa, intensa fiaba...
Ma la storia non era ancora finita e Kitty si trovò, in seguito, ancora a crollare e risorgere molte volte, per insegnare al lettore che non bisogna perdersi d'animo; mai.

Il libro Kitty ad ogni costo, uscito a settembre 2014 per i tipi di David and Matthaus in “Nude e crude”, la divisione editoriale che raccoglie opere scritte da donne che si raccontano senza gli schermi e le patinature che spesso le storie al femminile portano con sé, è straordinario perché, pur con i toni e il linguaggio di un romanzo, narra una storia completamente vera, dall'inizio alla fine. Per poterlo ultimare sono state necessarie quattro mani e due teste. Da una parte quelle della protagonista, Kitty Vinciguerra, che, con estrema lucidità e trattenendo a forza le emozioni che ricordare le procurava, ha esposto i fatti e gli eventi, descritto i personaggi, palesato le sensazioni. Dall'altra quelle della scrittrice Laura Corsini che ha avuto il difficile compito di tradurre sulla carta ogni sfumatura, cercando di mantenere una filologica aderenza alla verità, senza dimenticare l'aspetto coinvolgente che ogni romanzo che si rispetti deve avere.

Era poco più che una bambina, eppure veniva già dilaniata da una realtà in cui si sentiva fuori posto e che la sbranava pezzo a pezzo, che avrebbe fatto di tutto per piegare la sua testa altezzosa, sgretolare i suoi sogni ambiziosi e irraggiungibili”.

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David and Matthaus