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lunedì 5 dicembre 2011

Nuova Oggettività. Il blog “Perché N.O.?” * da Fondo Magazine

Di

abbiamo creato sul nostro blog ........   una sezione Perché N.O.? dedicata ad approfondimenti in funzione anche del nostro futuro convegno nazionale “Decadenza, espropriazione, partecipazione”, che si svolgerà nell’autunno prossimo in data e luogo da destinarsi. E’ una decisione già presa nelle riunioni premanifesto di Roma e Milano e poi approfondita in incontri successivi. Il primo approfondimento dialettico è all’insegna della vexata : “crescita/decrescita” ma siamo già certi che altri ne seguiranno a breve su altre tematiche non meno importanti…
Nel blog, tale sezione è autonoma…
Al proposito, mi auguro che, al di là di ogni possibile limitazione, che riguarderà questi nostri interventi, dovuta alle molte cose da fare, nel proseguo degli stessi si possa configurare un vero e proprio approfondimento, che realizzi quel percorso che abbiamo individuato per arricchire il nostro movimento di pensiero, le cui coordinate principe intendiamo ribadire nella scelta sempre dichiarata: olista, comunitarista, partecipativa, differenzialista, anticapitalista ed antiglobalista, ovviamente, ancora per ora, sommariamente delineate….....

C-  FONDO MAGAZINE ( a cura di Miro Renzaglia)
http://www.mirorenzaglia.org/2011/11/nuova-oggettivita-il-blog-e-la-pagina-perche-n-o/

giovedì 24 novembre 2011

Miro Renzaglia "UN ALTRO LINGUAGGIO È POSSIBILE-POEMA CORALE" *from Fondo Magazine

Il testo di Miro Renzaglia che segue è contenuto nel Libro-Manifesto "Per una nuova oggettività. Popolo, partecipazione, destino" curato da Sandro Giovannini per la Heliopolis Edizioni.  http://www.mirorenzaglia.org/2011/10/manifesto-heliopolis-poema-corale/

UN ALTRO LINGUAGGIO È POSSIBILE
POEMA CORALE
miro renzaglia


Bisogna avere il coraggio di Sandro Giovannini per credere ancora che un manifesto, benché centrato su pochi, condivisibili punti, abbia capacità di chiamata a raccolta. L'ho detto in una riunione preparatoria a Roma: punti programmatici a parte, compulsate i testi dei convenuti qui e se trovate solo due persone che siano completamente d'accordo con gli altri, magari anche con UN solo altro, pagherò la cena ai due fortunati. Il fatto è che le parole sono trappole e già metterne in fila due che non moltiplichino la trappola per "n" possibilità di equivoco sarebbe un successo enorme. Se, come sosteneva Heidegger, il linguaggio è la casa dell'essere, ormai l'essere è in moltiplicazione geometrica rispetto ai suoi esponenti. Da qui, ogni fraintendimento, ogni equivoco è possibile. Anzi: è certo.
Soluzioni ce ne sono due: o si riesce a ridurre questa moltiplicazione ad unicum, o a koiné se preferite, dove a unica parola corrisponde unico significato, il che allo stato attuale delle cose mi sembra francamente irrealizzabile o, come a me sembra sia più praticabile in età postmoderna, si cavalca il plurimo fino alle estreme conseguenze. Anche a rischio della totale incomunicabilità. Comunque, a quel punto (dell'incomunicabilità totale) il quadro sarebbe senz'altro più chiaro di oggi. E per arrivare a tanto, io non conosco altra strada che quella della poesia.
Accettando il dato postmoderno, come io auspico, il linguaggio poetico assume o ri-assume ogni possibile grado di conoscenza producendo mondi in continua variazione rappresentativa. Non c'è neanche più bisogno di distinguere istanza da istanza, campo semiologico da campo semiologico: la relatività della riproduzione annulla la necessità di determinarsi come verità extralinguistica. Ovviamente, per arrivare a tanto, servono strumenti appropriati. Vediamone qualcuno.
Dunque, io vengo dall'esperienza poetica del Vertex, nata, anche quella, da una genialata di Sandro Giovannini. Detto en passant: un giorno, con molta probabilità, qualcuno si degnerà di esplorare quella incredibile miniera di sussulti poetici, culturali, politici e meta politici che il Vertex fu. Non possiamo essere noi, i partecipanti a quell'avventura, a farlo. Ma tempo verrà. Nel frattempo, però, quell'esperienza torna estremamente utile per quello che voglio proporre. Utile in quanto fra il molto che propose, sperimentò il "poema corale".
Per i non conoscitori della storia del Vertex e di conseguenza, di questo strumento allora congegnato, riassumerò brevemente di cosa si tratta. Stabilito collegialmente un tema oggetto dello scrivere, i partecipanti all'opera scrittoria producevano dei testi che confluivano, sotto la regia di un coordinatore precedentemente designato, in un macrotesto. Il macrotesto, messo a punto dal coordinatore in bozza non finale, veniva riposto ai singoli per eventuali eccezioni e modifiche. Accolte o respinte queste ultime, si arrivava alla stesura definitiva. L'esperimento ha prodotto dei testi, probabilmente non eccelsi dal punto di vista squisitamente letterario, ma quello che valeva era il metodo.
Chiariamo subito una cosa: pur riconoscendone l'ascendenza, il "poema corale" aveva poco a che vedere con l'antesignano surrealismo dei "cadere exquis": nel nostro caso, non c'era scrittura automatica né raccordo immediato fra gli autori. Pur essendoci una preparazione corale all'argomento, ognuno era poi libero di produrre il proprio testo secondo proprie a attitudini, propri canoni stilistici, e tempi di elaborazione necessari. L'esercizio di controllo critico individuale sul materiale proposto individualmente, quindi, restava assolutamente intatto, fino all'assemblaggio finale, per poi scomparire a edificio completato.
E quello che si inverava, allora, era ciò che il metodo stesso sottintende: il superamento dell'opera-io verso l'opera-noi. Un'opera, cioè che superasse la finitudine narcisista dell'autore individuale e sconfinasse verso l'a-nonimia impersonale. Il linguaggio "finale" non risultava più una somma dei singoli testi ma qualcosa d'altro rispetto alle proposte individuali. E da qui al superamento del linguaggio de-finito nelle sue conclusioni coerenti in quanto dogmatiche e dogmatiche in quanto coerenti, come è avvenuto dalle origini della letteratura fino alla modernità inclusa, il passo è breve e consequenziale. Se pensate che la prima teorizzazione compiuta sul Postmoderno uscì in Francia nel 1979 (Jean Francois Lyotard, La condition postmoderne) e in Italia nel 1981 (ed. Feltrinelli), e che il Vertex operò proprio in quegli anni i primi esperimenti di "poema corale", potete agilmente cogliere la portata innovativa di quella nostra esperienza.
Ma c'è dell'altro. Con l'uso delle potenzialità del linguaggio postmoderno, non solo è possibile superare l'impasse della autorialità individuale – uno degli strumenti preferiti, infatti e non a caso, è la "citazione" – ma è possibile anche operare una critica "ironica" al sistema linguistico del potere (aggiungete al soggetto "potere" l'aggettivo che preferite: il risultato non cambia) per "distacco". Infatti, come sosteneva Manfred Frank nel suo Lo stile in filosofia l'ironia non ha come ultima finalità quella di suscitare il sorriso ma di mettere una distanza necessaria tra il fatto rappresentato dal potere e la sua interpretazione, contrapponendo alla verità linguistica del primo, le pressoché infinite e possibili verità che ci è data dalla decontestualizzazione (o estrapolazione) e ricontestualizzazione critica delle sue "citazioni". E in questo caso, anche in letteratura ci si può servire benissimo di quella tecnica specialmente cinematografica (ma anche televisiva: penso al popolare Blob, per esempio) che è il "montaggio".
A questo punto, mi sembra utile ricapitolare schematicamente il piano operativo che mi propongo realizzare:
a) accettazione della condizione della postmodernità;
b) ricorso al poema corale come strumento di elaborazione linguistica;
c) rinuncia all'opera-io e acquisizione orientativa dell'opera-noi;
d) uso, rimescolamento e rigenerazione di campi semiologici diversi;
e) citazione, ironia, montaggio come pratiche di costruzione del testo.

E se – come sosteneva Lyotard – la postmodernità si connota come "fine delle grandi narrazioni", di quelle costruzioni, cioè, che ambiscono dare ordine al mondo, io continuo a credere con Nietzsche che solo dal caos può nascere una stella che danza. L'opera non è finita: deve ancora cominciare.
miro renzaglia



martedì 27 settembre 2011

Manifesto Heliopolis. Una nuova oggettività *di Sandro Giovannini

*From Fondo Magazine a cura di Miro Renzaglia
Sarà disponibile entro breve, il libro-manifesto edito dalla Heliopolis Edizioni e curato da Sandro Giovannini, di cui più volte, su Fondo, abbiamo discusso. Di seguito la nota programmatica del curatore.
La redazione (Fondo Magazine)


Info Libro Manifesto vedi:


http://nuovaoggettivita.blogspot.com/2011/09/il-libro-manifesto-nuova-oggettivita.html#links

Libro-manifesto
Per una nuova oggettività

popolo, partecipazione, destino

Nel presentare il lavoro appena impostato più di un anno fa e sostanzialmente compiuto e tra poco in distribuzione, possiamo compiere alcune considerazioni, spero oneste e non trionfaliste. Anzi speriamo sostanzialmente autocritiche, se sempre, siamo convinti, ci debba assistere una forte insoddisfazione per ciò che noi stessi raggiungiamo, anche con sforzo notevole, per ambire a sempre maggiori risultati. Oltre 150 adesioni formali, oltre 90 contributi scritti riordinatisi naturalmente per “Argomenti”, a seconda di vocazioni ed attitudini. Ma al di là del dato numerico che potrebbe significare molto e poco, assieme, ciò che conta è verificare se da questo sforzo, che non ha oggettivamente eguali comunque negli ultimi decenni, venga fuori una prospettiva di lavoro utile. Nella Postfazione di Sessa, compiuta per necessità strumentali a circa ¾ del lavoro complessivo e quindi non includente necessariamente la totalità delle sollecitazioni derivanti dai contributi stessi, ma che con grande capacità coglie gli elementi fondanti tale insieme di espressioni, viene definita una “identità plurale”, non come minus, ma come una speranza di “fuoriuscita dall’apatia al progetto”, con implicita una “forte motivazione inclusiva”. Le prospettive sono le più varie “geo-filosofiche, estetico-politiche, psicologico-archetipali”, e questo oltre ad essere scontato è anche, a ben vedersi, una potenzialità spendibile in ogni campo, per articolazione e complessità. Il tutto sostanzialmente perché si è saputo comunque “pensare in modo critico l’identità ideale ed esistenziale prodottasi nel corso della nostra microstoria”. Proiettivamente, per usare ancora le sue parole: “felicità è agire” per riconoscere “le isole in arcipelago” e perché si riveli l’utopia come “sempre transitabile”.
Ora consideriamo quale è (ancora e sempre più ) attualmente il nostro punto di partenza. Una terra desolata ove le nubi della “smobilitazione ideale” ovvero della smobilitazione totale, operano trombonescamente e livide di rabbia contro ogni conato, prevedibile e sacrosanto, si opponga ad una deriva di fallimento prima spirituale ed animico e poi materiale ed economico. I pochi (o molti?) che si potrebbero opporre ancora con dignità di vita alle spalle ed indipendenza dimostrata spesso non vogliono più rischiare ulteriori delusioni o prevedibili fallimenti e così si ritirano in una torre ben difesa ed arredata, dalla quale fanno spesso solo singolari escursioni preoccupate e rapidissime, certo non favorite dal mugghiante e dolorante contorno di sommersi e salvati ed a tutto ciò presiede una cupola mediatica, sorta di ripetitore osceno sulle colline, che racconta fandonie insulse e vellica i peggiori istinti di fine ciclo.
Potremmo anche sorridere amaramente ma ciò non ci esime dal combattere per ottenere ciò che vogliamo con tutte le nostre forze, riordinando gli animi, i pensieri, le fila, le utopie. Lasceremo agli altri, perché l’abbiamo già fatto noi, prima ancora di cominciare, riscontrare ogni caduta di livello inscusabile, ogni monomaniacalità necessitata, ogni ingenuità prevedibile, per concentrarci sul possibile e sul giusto.
Diremo ancora di più e forse di peggio, e questo per avversari ed anche per amici: ciò che ci preoccupa non è la nostra diversità interna, che ad un occhio meno arreso alla quotidianità e meno arroccato sul nomadismo e l’anarcoidismo che va oggi tanto di moda – ulteriore segno dei tempi – non è metro di scandaglio profondo ma solo osservazione della tempesta superficiale, ma forse una relazionata concentrazione (semplificazione?) di diversità reale ed antagonista… quella che ci dovrebbe condurre al primato ed alla vittoria, per gradi. Per chi ha letto, parola per parola, i pensieri dei presenti ed anche degli assenti, di quelli che comunque potevano e dovevano esserci e non ci sono stati per disillusione, stanchezza od errata analisi di presunte inesistenti differenze, lo spavento non viene dalla diversità ma proprio dal contrario: cioè, al fondo, da un’accerchiata e dolente compressione del pensiero atto a creare il nuovo. Ovviamente all’interno dei parametri antiglobalisti, antiusurocratici, anticonsumisti, antiespropriatorii e relazionalmente popolari, partecipativi, differenzialisti, olisti e destinali. Tutti responsabilmente declinabili, ma tutti, per noi, invalicabili.
La necessità di una sorta d’urfuturismo – o chiamiamolo come vogliamo ma comprendendo endiadi ed ossimoro – quindi oggettivamente per principi espressi e per direzionalità scelte – è vitale e non solo spirituale, ideale, generazionale, artistica. E dobbiamo figurarcela come estranea a tutti i parametri della usualità borghese accettabile attuale, ovvero quel qualcosa che sta tra l’eccellenza senza paragoni (ovunque si verifichi) e la scorrettezza estrema del pensiero non assoggettato – almeno in prima battuta – ad alcun limite, né di tipo umanistico né di tipo confessionale ed una vitalità ritrovata e luperca che non deve prendere esempio da nessuno perché nessuno è in grado di darci ciò che non ci appartiene già, almeno come ipotesi di lavoro. Ogni volta nella storia in cui ci siamo accompagnati od affidati ad altro od ad altri siamo sempre miseramente falliti, prima o poi, perché la nostra vocazione è trovare la nostra strada da soli, in estremamente attenta ma perfetta autoreferenzialità, che è l’unico viatico, paradossalmente, anche per sopravvivere nel mondo globalizzato attuale. Auguri a noi.
http://www.mirorenzaglia.org/2011/09/manifesto-heliopolis-una-nuova-oggettivita-2/
Sandro Giovannini

mercoledì 20 aprile 2011

Miro Renzaglia: IL FONDO - anno III - n. 145 / 19 aprile 2011

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anno III - n. 145 / 19 aprile 2011


in questo numero articoli di


Giorgio Ballario, Mario Bernardi Guardi,
Mario Grossi, Alberto B. Mariantoni,
Simone Migliorato, Antonio Pennacchi, Marco Petrelli,
Miro Renzaglia,
Piero Sansonetti

 

nell'edicola di via
www.mirorenzaglia.org


 
*L’uscita di Asor Rosa? Colpa dell’antifascismo

L’articolo che segue è stato pubblicato sabato scorso, 16 aprile sul Riformista. E’ postato qui per gentile disponibilità dell’Autore.

*(Fondo Magazine-La redazione)

MA SÌ!
SE NON POSSIAMO FARE LA RIVOLUZIONE
FACCIAMO UN GOLPE

Piero Sansonetti

Io penso che – paradossalmente – la sinistra italiana, o comunque la sua parte maggioritaria, sia oggi vittima dell’antifascismo. Cioè dell’elemento ideale e storico che per molti decenni ne è stato il pilastro. Sia in termini di “valori” sia in termini tattici, e cioè di unità politica.
Provo a spiegarmi, confessandovi che prendo spunto dall’uscita di Alberto Asor Rosa che – come sapete – ha auspicato un colpo di Stato contro Berlusconi. Ieri, su queste colonne, il direttore Cappellini ci ha offerto una analisi molto chiara – e per me largamente condivisibile – sul fenomeno politico del quale l’uscita di Asor è frutto e testimonianza. Puntando il dito, giustamente, contro il giustizialismo, e cioè l’idea che l’etica politica imponga il diritto dei “giusti” a governare, e che questo diritto, di conseguenza, debba essere tolto dalle grinfie delle “pastoie democratiche”.
Io però, come avete capito dalle prime righe, vorrei andare un po’ oltre. Perché ho l’impressione – che oggi mi limito ad accennare, e so che scandalizza molto a sinistra e forse anche al centro – che il giustizialismo non sia un fenomeno sbocciato dal nulla ma sia figlio di una degenerazione precedente della sinistra italiana, e che questa degenerazione dipenda in larga misura, appunto, dalla degenerazione dell’antifascismo.
Perché? L’antifascismo ha avuto una funzione formidabile e positiva nella nascita della sinistra italiana dopo la guerra – e nei decenni precedenti, in clandestinità – perché ha permesso alla sua componete maggioritaria – comunista o socialcomunista – legata all’Unione Sovietica e a regimi dittatoriali, di mantenere una sua componente fortissimamente democratica e antiautoritaria. Antifascismo, dagli anni trenta in poi, voleva dire lotta per la libertà, lotta per la democrazia, lotta contro l’autoritarismo, lotta contro il potere eccessivo delle istituzioni, del governo, della polizia, della magistratura, dell’esercito, della scuola. Senza l’antifascismo, la componente più forte della sinistra italiana, e cioè quella comunista, sarebbe diventata una infrequentabile roccaforte stalinista, violenta e antimoderna. L’antifascismo è stato la chiave della modernità del Pci e il punto di partenza di tutte le sue strategie, e il carburante – ideale ma anche tattico-politico – del suo riformismo.
Poi è successo qualcosa. Cosa? Che il fascismo, nel mondo occidentale, per fortuna è morto. Difficile stabilire una data. Forse il 1976, con la caduta del franchismo in Spagna, cioè dell’ultimo governo fascista in Europa. Forse una quindicina di anni più tardi, con la caduta delle dittature in America latina e quindi la definitiva rinuncia da parte del capitalismo a ogni forma di governo dittatoriale. Scegliete voi la data. Il problema è che da quel momento anche l’antifascismo è morto. Perché è restato privo del suo principale fattore vitale: la lotta alla dittatura, la lotta contro il regime. Naturalmente c’era un modo per riciclare l’antifascismo: trasformarlo in antiautoritarismo, e cioè in moderna dottrina libertaria. Oppure si poteva fare la scelta burocratica di mantenerlo in piedi, come simulacro vuoto, e di usarlo come antidoto alla mancanza di strategie politiche e dunque di identità politiche. Come si fa a surrogare una identità non più sostenuta da una idea strategica? Con la retorica, con le bandiere. E l’antifascismo può funzionare all’uopo. C’è solo un problema: bisogna inventare un nemico, un regime.
La sinistra italiana ha compiuto questa seconda scelta. E in particolare l’ha compiuta dopo l’ottantanove, quando si è posto il problema drammaticissimo che non solo l’antifascismo era diventato parola vuota, ma che il comunismo era morto anche lui. Era il momento giusto per una grande svolta. Liberale, libertaria. Invece si è compito la scelta vuota e antifascista......CONTINUA
http://www.mirorenzaglia.org/2011/04/luscita-di-asor-rosa-colpa-dellantifascismo/
 






 

lunedì 11 aprile 2011

Il futurismo sociale di Antonio Pennacchi? (*da Fondo Magazine-Miro Renzaglia)

http://www.mirorenzaglia.org/2011/04/lista-pennacchi-fli-planando-sopra-boschi-di-braccia-tese/

L’articolo che segue è stato pubblicato ieri, 10 aprile, sul Secolo d’Italia.

La redazione


FASCIOCOMUNISMO
L’ANTIDOTO CONTRO LA TRINCEA
(CHE NON C’È)
miro renzaglia

È bastata una foto [quella a fianco] che riprendeva assieme tre bandiere (un tricolore, una con la falce e il martello e un’altra di Futuro e libertà) e l’ipotesi di un’alleanza civica a Latina tra Pd ed esponenti provenienti da destra, per riaprire lo scontro tra i nostalgici dei vecchi steccati e chi propone nuove sintesi. Quella foto scattata a piazza Montecitorio, nel giorno in cui la Camera votava sul conflitto di attribuzione per il caso Ruby, ha ridestato dal torpore della seconda metà del Novecento addirittura i teorizzatori dello scontro “antropologico”. Una visione stantia, che era già archeologia per chi ha vissuto davvero lo stagione del Sessantotto. A questi, allora, è consigliata la lettura “preventiva” di un passaggio della Carta della Sorbona (il “documento” del Maggio francese) quando già, decenni fa, si affermava: «Nessuno si meravigli del caos delle idee, nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia. Questo caos è lo stato di emergenza delle idee nuove…».
La vita è difficile. Ma quasi niente, a parte l’immortalità fisica (per ora) è impossibile. La politica poi che, come sosteneva Otto von Bismarck, «non è una scienza ma un’arte» è, addirittura, «la dottrina del possibile». Come in tutte le arti, però, anche in quella del possibile, oltre agli artisti veri ci sono i pataccari, gli imitatori, i falsari. Gente che – metaforicamente parlando – saprà pure tenere il pennello, una chitarra o una penna in mano ma, mancando d’immaginazione, di fantasia, di estro si limita a ripetere il già dipinto, il già sentito, il già detto. Senza mai uno scarto innovativo, un’invenzione, un lampo di genio. Anzi, peggio: ogni volta che uno di loro incontra qualcuno capace di farlo, si barrica dietro le proprie certezze e bolla l’altro come un dilettante indegno di presentarsi al suo cospetto. Di esempi del genere, nella storia della politica, ce ne sono a bizzeffe. Ma senza andare troppo in là nel tempo, basta pensare a come i socialisti della sua epoca considerarono Benito Mussolini. Quel massimalista sovversivo che non aveva capito – secondo loro, i socialisti avveduti – come si facevano i veri interessi del proletariato. Beccandosi giustamente sulle mani le bacchettate di quell’altro grande artista della politica che fu Lenin: «Avete perso con Mussolini la grande occasione, l’unico in grado di fare la rivoluzione in Italia». Eh! che volete farci? Così va il mondo: artista intende artista, mentre i pataccari non arrivano mai alla loro altezza.
Ora, fatte tutte le debitissime proporzioni fra ieri e oggi, situazione e situazione, personaggi e personaggi, e mutatis mutandis, non è che le cose siano poi cambiate di molto. Prendiamo come riferimento la disputa di questi giorni sulla possibilità di creare una lista Pennacchi-Fli per le prossime consultazioni amministrative di Latina. Pennacchi chi, innanzi tutto? Ma sì, lui, Antonio Pennacchi il romanziere, il vincitore in carica dell’ultima edizione del Premio Strega con quel Canale Mussolini che segna, nell’asfittico panorama della narrativa italiana, il ritorno del grande romanzo epico e popolare. Lo scrittore, sì insomma: il fasciocomunista che in giovinezza aveva militato nel Msi per poi passare all’estrema sinistra, nei sindacati, nel Psi, nel Pci, sempre espulso per posizioni che i dogmatici di tutte le chiese trovavano immancabilmente troppo eretiche per i loro gusti. Avete inquadrato il personaggio? Bene: proprio lui che oggi si ritrova in tasca la tessera del Pd (e, stranamente, non ne è stato ancora espulso) se ne è uscito nei giorni scorsi con un’altra delle sue diavolerie: faccio una lista con Fli, ci metto faccia e nome, non mi candido in prima persona per la carica di Sindaco ma, insieme, appoggiamo il candidato di centrosinistra. Già detta così la cosa, ti prende un colpo. Ma state a sentire le ragioni che lo spingono a tanto.
Pochi giorni fa, su queste stesse pagine, in un’intervista concessa ad Antonio Rapisarda che gli chiedeva: «Pennacchi, intende fare di Latina un “laboratorio”?» rispondeva: «Qui non c’entra solo Latina. Perché il problema della città è lo stesso del Paese. Abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale, di ricomporre le fratture vecchie e nuove. Ma per fare questo occorre porsi una domanda: a chi interessa oggi lo Stato? Di sicuro non a chi sta adesso al governo: che è impegnato a garantire in questo preciso momento solo se stesso, al prezzo degli interessi della collettività. Per questo è necessaria un’alleanza di uomini di buona volontà. Sì, perché quello che si trova davanti non è solo l’antistato ma, mi si consenta, addirittura l’anticristo: perché a parole parla, invocando il Santo padre, di Dio, patria e famiglia mentre in realtà è un vero “drago”».
Oh! Gesù, Giuseppe e Maria. Lo vedete che scherzi fa il genio dell’arte che poi – come si diceva – è lo stesso della politica? In quattrocento battute scarse di tastiera quello (il genio) di Pennacchi prende e ti butta giù un manifesto che se non è per la rivoluzione ti scompagina sicuramente le care categorie di destra e di sinistra a cui si aggrappano gli identitaristi del presente perpetuo; t’inventa, così sue due piedi, un laboratorio politico che ritira fuori una parolina ormai desueta: “sociale”; lancia pure il progetto oltre i confini comunali della sua città, lasciando immaginare futuribili scenari nazionali. Non solo ma, udite udite, osa tanto: «È ora che i fasci veri tornino a casa, superando la frattura del 1914. I fascisti tornino a San Sepolcro!». Cose dell’altro mondo… Talmente dell’altro mondo che i conservatori (se non proprio i reazionari) di destra e di sinistra di questo mondo si sono subito affrettati a opporre il loro niet: ‘sto matrimonio non s’ha da fare. E perché, no? Perché, no. Pura tautologia. E se non è pura tautologia, sono motivazioni facilmente smontabili.
D’acchito, infatti, verrebbe da chiedersi perché Fli, in Sicilia, con due assessori nella giunta regionale, può stare in una maggioranza che comprende il Pd e mettere all’opposizione il Pdl e a Latina, invece, lo stesso non si può fare. Che ha fatto di male Latina per rischiare di ritrovarsi governata da una giunta di centrodestra che nemmeno un anno fa è stata commissariata? Ma il discorso è più largo e lo focalizza bene, ancora una volta, Pennacchi che rivolge a quei futuristi riottosi di guardare al futuro la domanda delle domande: «Ma allora che cosa siete usciti a fare dal Pdl? Tanto valeva rimanere lì dentro. E magari mettergli pure il preservativo, a Berlusconi». Sante parole, ma pensate che siano percepibili da chi comunque non vuol sentire? Diranno, piuttosto, che ci vuole saggezza, prudenza, che Pennacchi è un poeta e, come tale, a volte vaneggia… Che, soprattutto, l’elettorato non capirebbe. L’elettorato di un partito – capite? – che non ha ancora ricevuto un voto che è uno e che si pone da solo la questione della fedeltà ad una entità che ancora non esiste. Ha ragione Alessandro Campi quando, dalle pagine de Il Riformista (6 aprile scorso) brucia nella loro alienante fissazione di passatisti i custodi della vera-destra-vera, finendo per dare esplicitamente ragione a Pennacchi e a quanti in Fli (ne cito alcuni e mi scuso con gli altri: Umberto Croppi, Luciano Lanna, Flavia Perina, Fabio Granata, Benedetto Della Vedova, Antonio Bonfiglio, Filippo Rossi) hanno aderito alla proposta del narratore: «A quale elettorato può mai rivolgersi un partito che oscilla tra soluzioni tanto diverse, il cui vertice appare indeciso se schierarsi a destra, al centro o a sinistra?».
.....................ART.COMPLETO VEDI LINK IN ALTO A SINISTRA

MIRO RENZAGLIA

NOTA DI ASINO ROSSO: articolo di rara espansione di idee e inclassificabile, input alla luce del Sole di certa Destra Immaginaria culturale al quadrato, certamente del duemila, al di là del novecento terminato e della superstizione...destra/sinistra, sinistra/destra.....dell'Ideologia e della Divina Politica...  Va da sè, Antonio Pennacchi, primula rossa (o nera) d'altrettanta espansione intellettuale - vivente - non salottiera o kulturale reificata, contro la casta culturale e ideologica italiana ben nota,  persino il suo nuovo incredibile progetto antineopostpolitico, quasi un remix downloadato di certo futurismo sociale mai fiorito negli anni dieci del... Novecento stesso (e anche durante il ventennio...), in questione, finanche diversi altri- chiaramente indicati da Renzaglia (e quest 'ultimo stesso): Pennacchi e postcompagni o postcamarades... che c'entrano con l'equivoco- cattofascista e storicamente inaffidabile- del camaleontico Gianfranco Fini da Predappio/Montecarlo..., non perchè spirito... libero persino dalle proprie idee, ma in "scientifico", quasi copione appunto peggiordemocristiano e italiota? Per non parlare di comparazioni diciamo strettamente intellettuali neppure accostabili e af-fini?  Fini,  mentre la storiografia non ideologica negli anni 90 finalmente scientificizzava senza virgolette la storia del ventennio, da De Felice a Gentile, liberandola parzialmente  dal male assoluto e persino riattivando certo fascismo culturale non esorcizzabile (lo stesso menu più ò meno nel dibattito del Fondo attuale e del progetto di Pennacchi...) , relativizzandolo al passo con la complessità sia moderna...che contemporanea.., con la Svolta di Fiuggi celebre, positiva in sè, ha però parallelamente fatto il contrario.... anzi proclamando alla rovescia proprio ..e nuovamente certa vulgata ideologica dominante per 50 anni! Fini, mentre il futurismo doc al passo con il centenario usciva da certe nicchie e certo oblio (chi scrive, Graziano Cecchini Rosso Trevi, Antonio Saccoccio, anche certo neofuturismo transumanista), ha -con clichet orwelliano- inventato come un astrologo  un nuovo partito definendolo- vera e propria neolingua - futurista, inquinando informazione e linguaggio, innestando nuovamente- e specularmente all'informazione negazionista culturale pseudogramsciana del secondo novecento- nuovamente, mistificazioni e superballe sul futurismo già ampiamente nocive e fuorvianti!  Avallato magari da certa intellighenzia anche futuristica potenziale o legittima, ma incapace di aggiornarsi- nonostante i fatti- agli artisti più significativi di certa continuità futurista postinternet, anzi appunto obliandoli.... Tranne eccezioni, perchè no lo stesso Renzaglia e naturalmente Pennacchi e altri, un poco di ingegneria genetica ...  è necessaria e inrinviabile, soprattutto da un'ottica futurista doc, tecnoanarchica e neoprogressista (l'essenza del Futurismo, anteriore, contemporaneo e prossimo...).
Legittimo anche-ovvio- bordi rivoluzionari neoconservatori (sempre al di là del binomio numerologico...destra-sinistra..) ma -a parte- ribadiamo- l'arduo e improbabile eco finiano - certo radical chic non esiste soltanto nella matrice proveniente dalla paleosinistra.  L'Avanguardia non è nè sarà mai salottiera e troppo pensiero e meno azione... Altra modulazione, in scenari plurali di modulazioni appunto anche differenti e  legittime ma d'altro gioco linguistico-  non a caso diciamo "meramente" sperimentali, per rilanciare l'analisi fondamentale (a parte quelle sempre operative delle avanguardie soprattutto storiche...e dei futuristi contemporanei doc) di un certo Charles Russell, "Da Rimbaud ai Postmoderni", dove chiarissime le differenze tra i diversi bordi del gioco lingustico, tra Avanguardia e Sperimentazione (o Rcerca o Laboratori). La vita e la guerra delle idee principale laboratorio vivente per il Futurismo, sistema operativo,  l'hardware l'abbiam brevettato da 100 anni e +..... e funziona ancora meglio...   Chiamiamo le cose con il loro nome. Il Futurismo è il Futurismo,  il cosiddetto fascio-comunismo alla Pennacchi et amis  un software molto eccitante ma da riformulare in prospettiva, in quanto parole mediaticamente fallimentari per ovvi motivi.... E i finiani si chiamino finiani e basta, con il Futurismo non c'entrano nulla, chiaro?

Manifesto Heliopolis Per Una Nuova Oggettività (postfazione) di Giovanni Sessa * from Fondo Magazine

In previsione dell’uscita del libro-manifesto metapolitico Per una nuova oggettività. Popolo partecipazione destino (Ed. Heliopolis) si terrà a Roma, il 16 aprile prossimo, con inizio alle ore 15, presso il centro culturale L’Universale, Via Caracciolo, 12, un incontro preparatorio aperto a tutti. Il Fondo ha già pubblicato vari interventi sull’argomento [si veda QUI] e, di seguito, propone in anteprima la postfazione di Giovanni Sessa.

La redazione

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UN’IDENTITÀ PLURALE
di Giovanni Sessa

Fin da quando, durante le giornate del Convegno “Evola e la filosofia” del Maggio 2010, Sandro Giovannini mi parlò del Suo progetto di realizzare un Libro-Manifesto rappresentativo di una ben individuata area di pensiero, colsi l’importanza dell’iniziativa, dato il particolare momento storico politico che stavamo e stiamo vivendo, in quanto europei e italiani appartenenti alla comunità ideale alla quale questo Manifesto è tornato a dar voce. D’altro lato, con Giovannini eravamo coscienti delle evidenti difficoltà che, inevitabilmente, avremo incontrato lungo il cammino, data la progressiva atomizzazione cui il nostro mondo è andato incontro nel corso degli ultimi decenni. La smobilitazione ideale che taluno ha realizzato, più o meno scientemente, non giocava certo a nostro favore. Al termine del lavoro, credo sia possibile dirsi almeno parzialmente soddisfatti di quanto, con mezzi minimi e grandi sacrifici, soprattutto di Sandro e pochi altri, si è riuscito a realizzare. Abbiamo, credo, corrisposto, innanzitutto, all’esigenza prioritaria che ha motivato la nostra fatica, quella “registrativa”. Il lettore può verificare di persona come i testi qui raccolti, siano tra loro diversificati per tematiche, stili, spessore: addirittura, alcuni tra essi, si distinguono anche per il momento propriamente progettuale. Penso che in questo dato, più che un elemento di debolezza intrinseca all’elaborazione teorica di un’area intellettuale, sia necessario leggere, sia pure in prospettiva, la sua costitutiva ricchezza propositiva. Per questo, la motivazione “inclusiva” e il rifiuto delle logiche escludenti verso gruppi, singoli o atteggiamenti ideali, è risultata proficua. Ha, infatti, a mio parere, fatto emergere elementi che accomunano e che consentono una ri-partenza, intellettuale e politica. Oltre al contributo specificatamente culturale, tutti i testi del Manifesto evidenziano i bisogni reali e profondi degli Autori stessi, centrati come sono attorno a una forte partecipazione emotiva ed esistenziale una fuoriuscita dall’apatia al progetto. Ciò attesta, quantomeno, una volontà di fare, evocatrice di speranza, capace di rianimare i tiepidi, i perplessi, i titubanti. Del resto, ogni uomo, ogni comunità, ogni gruppo umano trova o recupera l’identità raccontandosi: è quanto è stato fatto nelle pagine precedenti. Anni fa leggemmo in un testo di Philippe Forget, una frase che spiega perfettamente il nostro tentativo: “…è in termini di apertura del senso che bisogna pensare le fondazioni dell’identità. Esse devono rinviare a una comprensione dell’essere come gioco di differenziazione” (P. Forget, Phénomenologie de la menace. Sujet, narration, stratégie, in Krisis, Aprile 1992, p. 3). Conclusivamente, ci pare che la lettura dei diversi contributi forniti al Manifesto: Per una Nuova oggettività. Popolo, Partecipazione, Destino, siano segnati, innanzitutto, da un forte riferimento al pensiero della Tradizione, declinato secondo Vie e ottiche diverse. Molti gli scritti che si richiamano al classico (per citarne solo alcuni: quelli di Campa, Casalino, Consolato, Sestito, Venturini), altri che si ispirano all’Oriente (Gorlani), altri ancora al Cattolicesimo (Siena,Vassallo). Ma non mancano posizioni diverse: poundiane (Gallesi), postumaniste (Vaj), movimentiste (Adinolfi).

......CONTINUA  FONDO MAGAZINE

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venerdì 1 aprile 2011

mercoledì 30 marzo 2011

Miro Renzaglia IL FONDO - anno III - n. 142 / 28 marzo 2011 con Stefano Vaj

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anno III - n. 142 / 28 marzo 2011


in questo numero articoli di


Roberto Alfatti Appetiti, Arba, Angela Azzaro,
Umberto Bianchi, Giuseppe Di Gaetano, Alberto B. Mariantoni,
Simone Migliorato, Marco Petrelli, Miro Renzaglia,
Stefano Vaj
 
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sabato 19 marzo 2011

Roberto Guerra Opere Futuriste Complete *recensione de Il Fondo Magazine

  


Roberto Guerra è nato a Ferrara (1960) scrittore e videopoeta. Ha pubblicato Il Futuro del Villaggio (Liberty House, 1991) Opere Futuriste Complete (Nomade Psichico-2000,2011), Marinetti e il Duemila (in AA.VV. “Divenire 3 Futurismo” a cura di Riccardo Campa, Sestante Edizioni, 2009) Moana Lisa Cyberpunk (EDS, 2010). Ha collaborato con Futurismo Oggi (1989-1993) e curato nel 2009 con Graziano Cecchini Futurismo 100 live, Ferrara. Ha partecipato a “The Scientist International Videoart Festival” (2007-2010), Ferrara; a TransVision 2010, Milano a cura dei transumanisti italiani-AIT. Cura con Graziano Cecchini il giornale blog futurista “L’Asino Rosso“.

 
Pierluigi Casalino (scrittore). Il futurismo rappresentò la prima significativa avanguardia culturale del XX secolo. La sfida del dinamismo e dell’innovazione in un quadro di illimitata fiducia nel futuro che avanza e di apertura alle conquiste della scienza e della tecnica si tradusse in una coscienza estetica ed epocale della modernità. A questo filone inesauribile e affascinante del lascito futurista si collega, finalmente, l’esperienza esplosiva di Roberto Guerra. Neofuturista e trans-umanista, percorre le vie non tradizionali dell’invenzione, rilanciandone il messaggio in un linguaggio poetico policromatico e pirotecnico, capace di resuscitare le emozioni del titanismo “macchinistico”di scrittori come Wells, Verne e degli italiani Crali, Mazzoni e Smenzi, gli stessi-lateralmente- Robida o Benco. Una tela del ragno di scoppiettanti versi che nell’audacia di circolari riflessioni ci offre un inedito immaginario delle meraviglie. Per Guerra il futuro non è mai atteso, ma è vissuto come ragion d’essere, viene fissato all’attuale, un attuale già anticipato nella danza cibernetica robotica dei suoi versi e delle sue intuizioni. In questo senso Guerra interpreta la nuova stagione del futurismo.
Gaia Conventi (scrittrice) Il futuro è qui e il Futurismo ne canta le lodi. La realtà e l’estetica si fondono in un unico bagliore, la poesia canta di microchip e robot, la bellezza artificiale è bellezza e nient’altro: il domani è alle porte e serve una mente pronta per consentirgli d’entrare. Il nuovo millennio è rivoluzione scientifica e cuori d’acciaio che battono lievi, come ali di farfalle, l’uomo nuovo è sempre migliore quando si limita ad essere se stesso, lasciando all’automazione le incombenze superficiali: necessarie al vivere ma non all’essere. Il buonsenso è corda tesa al passo futurista, bisogna essere sognatori per non temere il tempo che verrà, e poeti per interpretarne il senso. Opere complete futuriste di Roberto Guerra è questo e altro, perché ali di farfalla smuovono terremoti. L’importante è la coscienza – e l’ardimento – di compiere il primo passo.
Max Adler (scrittore). Uno dei migliori omaggi poetici, nel secondo novecento, a certa carica positiva del futurismo, vitale, è rappresentato a mio avviso dai versi esplosivi di Roberto Guerra. Amo queste liriche, poiché sono il veleno letale della nostalgia: un poeta robot, tecnobambino killer di ogni sentimento filiale, del patetico sguardo all’indietro: avanti, avanti, sempre avanti…Ecco dunque la nuova poesia futurista, la musica dell’irreligione, il pornoteismo neorepubblicano. Il rinascimento astrale. Fiele borgiano.
Zairo Ferrante (poeta). ll libro regala una vera ventata di futurismo, o meglio, di letteratura futurista. Roba d’altri tempi per una materia, il futuro, mai come adesso attuale: una raccolta poetica, emblema di un Futurismo letterario ancora vivo.  Roberto Guerra, un poeta che con circa vent’anni di anticipo aveva captato internet, i robot, la poesia cybernetica e l’arte del calcolatore.
Riccardo Roversi (scrittore). Fin dall’esordio, Guerra ha scelto la strada della provocazione artistica e intellettuale come “congegno” esplosivo della propria espressione, in odore di eresia, in conflitto coi mulini a vento di certo ipocrita e rassicurante conformismo culturale.
 
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mercoledì 16 marzo 2011

I Poeti x Italia 150 °- Miro Renzaglia


 
I POETI X ITALIA 150
Miro Renzaglia. Ha pubblicato Controversi (1988), I Rossi e i Neri (2002), A spese mie (2008). Nel 1990 ha fondato la rivista Kr 991. E´ autore e performer del concerto di musica-poesia Radiografia di uno sfacelo ((...)
 
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news POESIA
 
MIRO RENZAGLIA A SPESE MIE  con prefazione critica di Sandro Giovannini, raccoglie la produzione poetica dell'autore fra il 1988 e il 2000
 
 

martedì 15 marzo 2011

Miro Renzaglia- IL FONDO MAGAZINE - anno III - n. 140 / 14 marzo 2011 con Roberto Guerra Opere Futuriste Complete


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anno III - n. 140 / 14 marzo 2011


in questo numero articoli di

Roberto Alfatti Appetiti, Umberto Bianchi,
Giuseppe Di Gaetano, Mario Grossi, Roberto Guerra,
Simone Migliorato, Raffaele Morani, Marco Petrelli,
Miro Renzaglia,
Federico Zamboni

 

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*Redazione
 
"Roberto Guerra Opere Futuriste Complete" (Nomade Psichico, 2011)
*note di:
 Pierluigi Casalino-Gaia Conventi-Max Adler-Zairo Ferrante-Riccardo Roversi

martedì 8 febbraio 2011

Stefano Vaj in IL FONDO - anno III - n. 135 / 7 febbraio 2011


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anno III - n. 135 / 7 febbraio 2011


in questo numero articoli di


Arba, Angela Azzaro, Graziella Balestrieri,
Mario Bernardi Guardi, Ivo Germano, Mario Grossi,
Miro Renzaglia,
Angelo Spaziano,
Stefano Vaj, Federico Zamboni

 

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 *

PROSPETTIVE INDOEUROPEE
Stefano Vaj

Guardiamoci negli occhi. Noi siamo Iperborei [...]
Di là dal Nord, dai Ghiacci, dalla morte – la nostra vita, la nostra felicità

Friedrich Nietzsche

 

In uno dei suoi insegnamenti più importanti, Giorgio Locchi ci aiuta a pensare sino in fondo le intuizioni nietzschane riguardo al tempo della storia. Non più un fisso segmento su una linea che punta in qualche direzione, non più un tratto irrimediabilmente sbarrato alle nostre spalle su una strada cxhe staremmo percorrendo.

Per la sensibilità postmoderna, tali immagini sono false psicologicamente, filosoficamente, empiricamente. Se il passato è ciò che è esistito, non esiste più; se non esiste più, non esiste: se non esiste, non è qualcosa di cui si possa parlare. Il passato non è invece altro che una dimensione del presente, in particolare quella delle radici e della memoria, alla stessa stregua dell’attualità (dimensione dell’impegno) e dell’avvenire (dimensione del destino e del progetto); e ci parla attraverso l’immagine che ci diamo di esso attraverso i documenti, le vestigia, le testimonianze che abitano il nostro tempo.
Così come ogni altra, tale dimensione si espande. Si espande banalmente nei tempi a noi più vicini,  con l’accumularsi di nuovi eventi, di nuovi ricordi. E si espande anche nella sua estremità più lontana, mano mano che il nostro sguardo, attraverso un’indagine critica sempre più interdisciplinare, si allunga ad epoche sempre più remote e si allarga a particolari ed aspetti sempre nuovi.
Ma soprattutto viene interamente ridefinito ad ogni istante a partire dalla particolare prospettiva di ciascun presente, non solo e necessariamente attraverso la chiave della revisione («chi controlla il presente controlla il passato, chi controlla il passato controlla il futuro», potremmo dire parafrasando Orwell), ma non fosse altro che per le diverse orecchie che ascoltano una musica pure in divenire, i diversi occhi che rileggono il libro dei simboli e ne traggono premonizioni e moniti e sfide per ciò che ancora ha da essere. Anche in campo storico, quindi, “la verità non è qualcosa che esista e che si debba trovare, scoprire, ma qualcosa che si deve creare e che dà il nome ad un processo o meglio a una volontà di dominio che in sé non ha fine” (Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, §552). Visione della storia questa che è anche un progetto di Erlösung dal provvidenzialismo monoteista: «Redimere nell’uomo il passato e ricreare ogni ‘fu’ finché la volontà dica: ‘Così volli! Così vorrò’. Questo ho chiamato redenzione, solo questo ho insegnato loro a chiamare redenzione» (Così parlo Zarathustra,”Delle tavole antiche e delle nuove”).
Gli indoeuropei, come nuovo passato che continua a spalancarcisi di fronte, e che alcuni scelgono di rivendicare come proprio retaggio, ci corrono perciò incontro dal nostro avvenire. Lo fanno come origine ultima di questa medesima sensibilità che giunge a consapevole maturazione con Nietzsche, Gentile, Heidegger, Spengler e la cui essenziale inevitabilità europea, “esperiale”, a partire da Eraclito, mette bene in luce Severino, ed ancor più il suo allievo Emanuele Lago in La volontà di potenza e il passato (Bompiani, Milano 2005). E lo fanno in particolare sotto un quadruplice sigillo solstiziale................


 CONTINUA
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venerdì 14 gennaio 2011

IL FONDO MAGAZINE - Inserto del Giovedì - 13 gennaio 2011 con Antonio Pennacchi


 

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Inserto del Giovedì - 13 gennaio 2011


MARTIN HEIDEGGER
E I PUPAZZETTI DI PABLO ECHAURREN

articolo di

Antonio Pennacchi

 

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 Dice: “Ma che significano quei pupazzetti di Echaurren?”.

Ah, e lo chiedi a me? Cosa vuoi che ne sappia io? Io di arti figurative non capisco niente. Vado solo a “mi piace” o “non mi piace” e in tutta la storia dell’arte gli unici che mi siano sempre piaciuti senza riserve – ma non ne so bene il perché – sono Hopper, Salvador Dalì e le torri di Babele dei Bruegel. Prima mi piaceva anche De Chirico – fin che lo conoscevo solo dalle riproduzioni a stampa o sopra i libri – ma quando la conoscenza s’è fatta più intima, dopo che sono andato a una mostra e ho visto i quadri veri con la pittura tutta screpolata, ho detto: “Ma vaffallippa va’, ma che si lavora così?”. Resta comunque che di arte non capisco nulla. Tra impressionismo e espressionismo – per dirne una – faccio una confusione che neanche fra tangente e cotangente quando studiavo topografia al geometri, e quella volta che mi sono dovuto fare l’Argan all’università, certi dolori di testa che nemmeno le botte della Celere. L’artrosi cervicale. Le fitte suboccipitali.

Dice: “Vabbe’, Argan scriveva un po’ difficile, diciamo così. Tu però perché ti sei accinto anche tu ad un saggio di critica d’arte? Non ti pareva un po’ azzardato, non capendoci poi molto?”. Certo, e chi ti dice di no? Tu pensa che sono pure daltonico.

Ma quelli hanno insistito, hanno detto che non gli importava: “Chi vuoi che se ne accorge? Siamo in Italia: se il figlio di Bossi fa il deputato regionale tu non puoi fare il critico d’arte? Ma scherziamo?”. E così m’hanno convinto. Hanno detto che il mio metodo – “mi piace” o “non mi piace” – è più che sufficiente. E a me Pablo Echaurren mi piace. Stop. Ho finito qua.

Dice: “Sì, vabbe’. Però a te Pablo Echaurren ti piace perché è amico tuo. Se non era amico tuo, mica ti piaceva. A fare le critiche così, sono buoni tutti a questo mondo”. No compa’, ferma. Un passo indietro.

Io conosco Pablo Echaurren dal 1973. O meglio: nel 1973 l’ho conosciuto io. Lui no, lui manco m’ha filato e se glielo chiedi adesso, nemmeno si ricorda. Me lo fece vedere Paolo Forte dentro la tipografia di Lotta Continua a Roma quando andammo a portargli i soldi delle sottoscrizioni per le armi al Mir dopo il golpe in Cile. “Quello è Pablo Echaurren”, mi fece piano piano Paolo Forte dandomi di gomito sul fianco – ahò, noi venivamo da Latina – manco fosse stato Che Guevara.

Io – sia chiaro – con Lotta Continua non avevo e non ho mai avuto niente da spartire. Quelli erano trotzkisti. Spontaneisti. Io ero uno stalinista marxista-leninista che veniva da Servire il popolo, ma mi si era già sfasciato il partito mio e adesso ero un cane sciolto – come sostanzialmente poi sono sempre rimasto – senza più catena e senza padroni (la cosa più drammatica è che ogni volta che ho tentato di rimettermela la catena, e di ricercarmi un nuovo padrone, sono sempre stati loro poi – Uil, Psi, Pci, Cgil – a tagliarmela ed a cacciarmi via: “Vaffanculova’, vaffanculo a un’altra parte”. Espulso). Comunque ero stalinista; ma senza partito, senza casa e senza famiglia e quando c’è stato il golpe in Cile non c’era nessuno con cui fare qualcosa a Latina, e allora sono andato da questi di Lotta Continua e assieme a Paolo Forte – che era il segretario – abbiamo messo su la raccolta fondi. Siamo andati in tipografia a farci fare i blocchetti per le ricevute con scritto sopra “Armi al Mir – Soccorso Rosso” e poi via in giro per tutti i professionisti progressisti ad estorcergli qualcosa....

 

FONDO MAGAZINE-  ANTONIO PENNACCHI

giovedì 13 gennaio 2011

Stefano Vaj: Manifesto Heliopolis. Postumanesimo e ultra * from Fondo Magazine

VERSO IL MANIFESTO HELIOPOLIS

Esiste uno spazio e/o un interesse per un complesso di idee che si distingua dalla vulgata contemporanea che vuole che l’”ultimo grido” in campo etico, estetico, politico, o più generalmente filosofico, sia anche il grido ultimo ed insuperabile, che cioè non può, ma soprattutto che non deve, essere superato? Il grido di una “modernità” indistinta, universale, tiepida e minimalista che del resto non fa ormai che ripetere se stessa, ossessionata da un puritanesimo la cui concitata riaffermazione stessa ricrea inevitabilmente il fantasma (ed implicitamente la possibilità) del peccato, dell’eresia, della strega…
L’amico Sandro Giovannini, non da oggi instancabile agitatore “culturale”, pensa di sì. Da qui l’idea perfettamente inattuale di un Manifesto che ignorando del tutto i vari “movimenti di truppe” che possano allineare tutti e ciascuno in vari campi per cause più quotidiane ed immediate abbia il coraggio di applicare il rigore della critica e la nostalgia dell’avvenire a fronte di un contemporaneità egemone volta a bandire l’idea stessa di cambi di paradigma, di “nuovi inizi”, di palingenesi tanto storiche quanto epistemologiche e culturali proprio nel momento in cui l’uomo, nel quadro delle proprie eredità ed appartenenze, è invece chiamato a ripensare se stesso all’atto di “ereditare la Terra” e declinare tale riflessione in scelte estremamente concrete.
Se è davvero questo ciò di cui vale la pena un po’ più spesso di parlare, tanto più sono lusingato di essere stato invitato a parteciparvi con quello che è il mio punto di vista e la mia altrettanto personale collocazione rispetto alle varie questioni destinate a determinare il nostro avvenire – o l’esistenza stessa di un avvenire purchessia – e che comandano oggi approcci largamente trasversali e complessi.

Se il progetto così mira chiaramente a mobilitare energie, prospettive ed angolature disciplinari molto differenti, ciò non è certo in una velleità di porsi “al di là della destra e della sinistra”, secondo la poca fortunata e non certo inedita formula a suo tempo fatta propria ad esempio da un Marco Tarchi. Anzi, è probabile che il concetto stesso che vada superato – come se si trattasse di categorie hegeliane munite di un qualche intrinseco status ontologico! – qualcosa che non esiste più, se non forse nella retorica linguisticamente maldestra della politica politicante, conduce forse inevitabilmente alla ricaduta in sbocchi conservatori. In particolare laddove tende ad occultare proprio il fatto che la “sinistra”, qualsiasi cosa abbia significato tale termine in passato, è stata nel frattempo completamente riassorbita dalla “destra” nel cui ambito rappresenta comitati d’affari, o nella migliore delle ipotesi sensibilità e blocchi di interessi, perfettamente funzionali allo stesso identico sistema di valori, alla medesima realtà sociale ed antropologica, al medesimo modello di (non) sviluppo.
 
continua
 
http://www.mirorenzaglia.org/?p=16564   il FONDO MAGAZINE a cura di Mino Renzaglia
 
 

martedì 11 gennaio 2011

Mino Renzaglia il Fondo Magazine n. 131 in edicola

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anno III - n. 131 / 10 gennaio 2010


in questo numero articoli di


Angela Azzaro, Graziella Balestrieri, Mario Bernardi Guardi,
Alessandro Cavallini, Mario Grossi, Alberto B. Mariantoni,
Simone Migliorato, Raffaele Morani, Miro Renzaglia,

Luca Leonello Rimbotti, Federico Zamboni

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Battisti/Berlusconi  Strane somiglianze di Mario Grossi

Quando infuria la polemica, per avere uno sguardo per quanto possibile imparziale, è bene non tanto starsene da una parte, ma piazzarcisi nel centro e osservare quello che succede. È la posizione ideale: una specie di calmo occhio del ciclone fermo, stabile, tranquillo, mentre tutto intorno ruota a velocità crescente e in maniera sempre più distruttiva. È da questa posizione che si riescono a osservare risvolti che, benché marginali, sono assai curiosi e meritano di essere registrati, perché è proprio dall’osservazione dei particolari e delle cose inutili che nascono poi riflessioni che possono aiutarci a mettere ordine nella faccenda.

Anche per il caso Battisti ho fatto lo stesso. Mi sono piazzato nel calmo occhio del ciclone, come sempre quando le situazioni mi turbano oltremisura, per trovare un rifugio, un asse al quale aggrapparmi e non farmi travolgere. Da questa posizione d’osservazione mi sono affiorate di fronte agli occhi immagini che mai a prima vista avrei pensato mi si parassero davanti. Ho osservato Battisti, o meglio ho letto il profluvio di parole spese su di lui e ho seguito, visto che è impossibile fare altrimenti data l’onnipresenza pervasiva del personaggio, Berlusconi, rilevando tra i due affinità istruttive.

Il sogno. Entrambi sono partiti da un loro personale lucido delirio che configura i loro divergenti identici sogni. Battisti, fulminato sulla via di Damasco, si è “politicizzato” in galera, in ritardo su molti altri. Più realista del re, come solo gli schiavi resi liberti sanno fare, ha vagheggiato (e vagheggia?) l’attacco allo stato borghese delle multinazionali con le armi in pugno, con la violenza. Di fronte alla violenza di stato è solo quello il modo di agire e far trionfare il proletariato. Berlusconi, è per questo (dice lui) che è sceso in campo, sogna la dissoluzione di uno stato liberticida dominato dal comunismo, in cui tutti indossano colbacchi con stella rossa, e minano i santi principi liberali. Entrambi convergono su un comune delirio, esiste un’entità oscura sovrastante che stende le sue mefitiche ombre soggiogandoci tutti e dalla quale bisogna liberarsi con qualsiasi mezzo. Chi non è d’accordo con loro è, ipso facto, alleato del “Nemico” o il “Nemico” stesso.

L’incubo. Entrambi questi sogni deliranti hanno un unico risvolto inquietante. Per tutti coloro che non condividono questi sogni, i nemici del popolo o della libertà fa lo stesso, i due sogni irreali si trasformano in altrettanti incubi reali. Il sogno di Battisti, l’avvento della dittatura del proletariato e delle sue sorti luminose e progressive, si trasforma in un incubo fatto di sangue, morte e lutto per le sue vittime che tutto sembrano tranne che agenti nemici al soldo della reazione mondiale (ma questo è irrilevante. Un agente nemico è tale proprio perché non sembra quello che realmente è). Il sogno di Berlusconi, l’avvento di uno stato liberale che affranca la sua imprenditorialità da qualsiasi vincolo, si trasforma per le sue vittime (noi tutti) in un incubo in cui tutto diventa merce, mercato, transazione commerciale, consumo. L’avvento della dittatura liberista, in cui le sue vittime sono ridotte a un’unica dimensione, quella economica. Due totalitarismi convergenti. Da un lato l’unica classe, dall’altro l’unico senso per gli uomini.

La giustizia. I loro due sogni sono ostacolati da forze oscure che gli si contrappongono e che utilizzano la giustizia e i giudici come delle armi tese a distruggerli. Un complotto reazionario per Battisti che vede in Italia un governo dominato dalla Mafia e dai fascisti (gli Urfascisti sarebbe meglio dire). Un complotto comunista per Berlusconi che considera il comunismo alla stregua di un contenitore in cui mettere tutto ciò che non gli aggrada.Entrambi, nel loro immaginario, sono innocenti e sono stati condannati solo in virtù di questi complotti convergenti, orchestrati a loro danno. I processi che gli sono stati intentati sono ovviamente etero diretti e scontati nella loro conclusione.

La strategia processuale. In questi processi, sostengono di non aver avuto la possibilità di difendersi, nonostante entrambi abbiano avuto a disposizione avvocati da loro stessi istruiti che hanno tentato tutte le vie possibili per rimandare, insabbiare, eccepire, porre dei distinguo sempre più bizantini, per deviare a loro favore (com’è peraltro legittimo) il corso dei processi. Entrambi hanno messo in piedi la stessa identica strategia processuale che prevede la presenza dei loro avvocati, quando costretti dal calendario, e la loro assenza. Battisti ha visto bene di squagliarsela, di filarsela all’inglese, scegliendo come patria d’elezione quella Francia sempre disponibile a coccolare i presunti esuli, tanto che è poi stato condannato in contumacia. Berlusconi ha brigato per farsi prescrivere i reati che gli venivano di volta in volta contestati e briga tuttora con tutti i “legittimi impedimenti” per rendersi contumace in Patria. Il dato di fondo che emerge però è che tutti e due hanno una considerazione della giustizia (in questo caso italiana, ma ci piacerebbe vederli però a confronto con altri ordinamenti) che li vede al di sopra della stessa. Loro evidentemente non si considerano cittadini come tutti ma soggetti speciali che non devono sottostargli. Non sono degli untermensch come noi tutti.

Gli amici potenti. Entrambi hanno dimostrato di sapersi muovere e di saper muovere amici assai influenti. Si atteggiano a vittime abbandonate e bersagliate da tutti ma hanno spalle copertissime e potenti. Berlusconi, che si avvale di ampia copertura mediatica e fiancheggiatrice, ha manovrato un po’ tutti, a cominciare dal potentissimo Craxi del tempo che fu. Battisti che si compiacque dell’appoggio di Mitterand e che oggi è protetto da Lula, ha infinocchiato una fitta schiera d’intellettuali francesi e nostrani, a partire da Henry Levi, che lo sostengono con un battage molto blasè ed efficace....

C- Fondo Magazine