sabato 14 luglio 2018

14 LUGLIO, PRESA DELLA BASTIGLIA



Da: Circolo Culturale Excalibur 





RIVOLUZIONE FRANCESE,
ma i francesi, il 14 luglio, sanno cosa festeggiano?
di Gianfredo Ruggiero




    Se non si legge correttamente clicca QUI.

  
 

La presa della Bastiglia descritta nei libri di storia come un'impresa eroica e spontanea sollevazione popolare contro il simbolo del potere dispotico, e per liberare i prigionieri ingiustamente carcerati e sottoposti a indicibili torture e sofferenze.
In realtà la guarnigione si arrese senza combattere, e i reclusi erano in totale sette, per giunta incarcerati per reati comuni (quattro falsari, un maniaco sessuale e due insani di mente). Percorriamo i fatti.
La Bastiglia fu eretta a metà del 1300 come fortezza difensiva e, dopo, adibita a uso carcerario sotto Richelieu nel 1600. Poichè il mantenimento della grande struttura era diventato molto costoso, nel 1784 era stata decisa la sua demolizione, più volte rimandata a causa dei costi elevati. All'epoca della Rivoluzione, essendo poco utilizzata, il controllo dell'immenso bastione era affidato a un reggimento di soli ottantadue riservisti (soldati anziani o inabili per invalidità) e trentadue guardie svizzere.
Il 14 luglio una folla esagitata si accalca davanti alla Bastiglia per assaltarla alla ricerca di armi, e nonostante le forze fossero sufficienti a respingere i rivoltosi, il comandante della Fortezza de Launay si rende disponibile a trattare la resa a patto che fosse garantita l'incolumità sua e della guarnigione. Fu, invece, ucciso a tradimento e l' intera guarnigione massacrata. Le testa del comandate e quella del sindaco di Parigi Flesselles, nel frattempo intervenuto per sedare gli animi, furono infilzate su pali appuntiti ed esibite nelle piazze.
All'orrore si aggiunse il ridicolo quando furono mostrati, come strumenti di tortura, parte di una armatura medioevale spacciata come corsetto di ferro per spezzare le articolazioni e una pressa tipografica presentata come macchina per stritolare le ossa.
La scoperta di alcune fosse contenenti dei resti umani in un cortile interno della Bastiglia fece gridare allo sdegno, salvo poi riconoscere sommessamente che non si trattava delle ossa di oppositori politici giustiziati o morti per le sevizie subite, bensì di persone normali che essendosi suicidate non potevano essere sepolte in terra consacrata. A completare la montatura furono le stampe, fatte circolare per le vie di Parigi, che ritraevano gli emaciati prigionieri della Bastiglia incatenati tra scheletri penzolanti.
Questo fu l' inizio della Rivoluzione Francese tra orrore, ridicolo e falso.
Il seguito fu ben più raccapricciante e mistificante: Robespierre e il terrore, il genocidio della Vandea, la deportazione dei preti refrattari e le scorrerie di Napoleone.
Chi furono Robespierre e Saint-Just  a tutti noto, quello che sfugge e che su di loro gli storici ufficiali hanno fatto confluire tutte le nefandezze della rivoluzione.
Facendoli passare per dei pazzi sanguinari giunti al potere carpendo la buona fede dei rivoluzionari, si tenta maldestramente di ridurre la portata degli eventi a una sorta di incidente di percorso.  In realtà quei dodici mesi di autentico terrore (dal luglio 1793 al luglio del 1794) furono la conseguenza delle vicende precedenti e la premessa di quelle successive.
Dal 2 al 6 settembre del 1792 avvennero i massacri di settembre. In quei giorni la folla, secondo alcuni sobillata da Danton e Marat, inferocita per il disastroso andamento della guerra contro la Prussia e per le prime rivolte in Vandea, assalta le prigioni. In pochi giorni, sotto lo sguardo indifferente delle autorità repubblicane, metà della popolazione carceraria parigina, in massima parte detenuta ingiustamente e molti sacerdoti, è uccisa.
La strage, spontanea o organizzata che fosse, è avvenuta prima dell’inizio del Grande Terrore (luglio 1793) e rappresenta una costante nel processo rivoluzionario. Lo riconosce anche Michel Vovelle, uno dei più autorevoli studiosi della Rivoluzione Francese, di formazione marxista, secondo cui

«la violenza nelle carceri serviva, da un punto di vista storico, ad alimentare la Rivoluzione la quale, altrimenti, si sarebbe potuta spegnere presto»

Questo spiega perchè la borghesia rivoluzionaria non solo abbia teorizzato, ma addirittura incoraggiato i massacri nelle prigioni. Senza la violenza, che come vedremo non si limitò alle carceri, la Rivoluzione si sarebbe arrestata come un'auto senza carburante.
Nel luglio del 1793, per fronteggiare la crisi economica che attanagliava le classi meno abbienti e la minaccia degli eserciti stranieri alleati contro la Francia, i poteri furono affidati a un Comitato di Salute Pubblica guidato da Robespierre che ebbe il compito di costituire un nuovo esercito e, soprattutto, di fare il lavoro sporco: l'eliminazione fisica degli oppositori e la repressione in Vandea che nel frattempo era insorta. 
Con il pretesto della necessità  di salvare la rivoluzione dagli attacchi dei reazionari (spesso povera gente che protestava per il pane) fu messo in atto uno spietato apparato poliziesco e repressivo i cui epigoni li possiamo trovare nella Russia di Lenin e nella Cambogia di Pol Pot (non a caso studi in Francia).
Per rendere pi efficace e veloce l'azione di Robespierre fu promulgata la famigerata legge del 22 pratile (10 giugno) 1794 di Georges Couthon, membro del triunvirato. In virtù di questa legge, che riduceva ulteriormente le libertà individuali stabilite dalla precedente legge dei sospetti del settembre 1793, i poteri del Tribunale Rivoluzionario di Parigi divennero in pratica assoluti. Le condanne a morte emesse furono oltre 17.000,
Furono vietati gli avvocati difensori, cancellato il ricorso all'appello e negate le testimonianze a favore degli imputati. Chi tentava di scagionare gli sventurati veniva a sua volta accusato di cospirazione. Per tutti la condanna era scontata: la ghigliottina. In un mese e mezzo furono decapitati più di 1.300 nemici della rivoluzione.
Tra le vittime dell'ondata repressiva troviamo il padre della chimica moderna Antoine Lavoisier, l'autore dell'assioma nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, e il poeta Andrè Chanier.
Il clima di terrore instaurato da Robespierre fu benefico per le sorti della rivoluzione poichè ridusse al silenzio l'opposizione e mandò un messaggio inequivocabile al popolo dubbioso.
Assolto il loro compito, i tre principali artefici del Grande Terrore, Maximilien Robespierre, Louis Saint-Just e Georges Couthon, diventati oramai impresentabili, furono a loro volta ghigliottinati dopo essere stati deposti con il classico colpo di stato e giustiziati senza processo, come prassi nei regimi dittatoriali.
Intanto la regione della Vandea, di sentimenti monarchici e cattolici, si ribella al potere rivoluzionario. La risposta del regime ¨: massacrare. E massacro fu, anzi, se guardiamo all'altissimo numero di vittime - 250.000 morti su una popolazione di 800.000 abitanti - non è fuori luogo parlare di genocidio.
La politica antireligiosa condotta dal governo repubblicano, sfociata nella "Costituzione Civile del Clero" che trasformava i preti in funzionari statali, venne mal digerita dalla popolazione della Vandea in maggioranza cattolica.  A ciò si aggiunse il malumore per le condizioni di vita che continuavano a peggiorare.
L'aumento delle tasse e l'arruolamento forzato di trecentomila uomini per sostenere le guerre contro l'Europa, furono la classica goccia che fece traboccare il vaso. La risposta del villaggio di Doulon, il primo a insorgere, fu lapidaria:

«Hanno ucciso il nostro Re; hanno cacciato via i nostri preti; hanno venduto i beni della nostra chiesa; hanno mangiato tutto quello che avevamo e adesso vogliono prendersi i nostri corpi¦ No, non gli avranno»

In modo del tutto spontaneo la Vandea e le regioni a essa vicine insorgono. Dopo i primi momenti in cui impegnano i repubblicani in azioni di guerriglia, i combattenti con la coccarda bianca al petto riescono a organizzare un vero esercito che ha ragione delle guarnigioni repubblicane e prende il controllo dell'intera regione.
In seguito, però, le forze inviate da Parigi, numericamente superiori e meglio organizzate, rovesciarono la situazione. Il popolo vandeano fu sconfitto, ma non vinto: il fuoco continuava a covare sotto le ceneri. Fu allora decisa dall'Assemblea la totale cancellazione della Vandea. Attraverso tre successivi decreti, a partire dal 13 gennaio 1793, furono emanate le seguenti disposizioni:

«Ogni capo di colonna dovrà perlustrare e poi bruciare tutti i boschi, villaggi, case e aziende agricole»

«Ogni brigante trovato con le armi in mano sarà  passato alla baionetta. Si farà lo stesso con le ragazze, donne e bambini. Le persone meramente sospette non saranno risparmiate»

«I materiali combustibili di qualsiasi tipo saranno confiscati e inviati al Ministero della guerra per bruciare i boschi, i boschetti e i cespugli. (...) Le foreste saranno abbattute, i nascondigli dei ribelli saranno distrutti, le colture saranno devastate, il bestiame sarà  confiscato. (...) La proprietà  dei ribelli della Vandea passerà  al patrimonio della Repubblica»

La Vandea conosce allora un terribile massacro che durerà fino al 27 luglio 1794, come ci ricorda Giuseppe Messori, uno storico di fede cattolica

«La massa dei vandeani catturati cresceva ogni giorno. S'istituirono allora le cosiddette "anticamere della morte", specie di campi di concentramento, dove venivano ammassati uomini, donne e bambini in attesa di essere eliminati. Gli stermini di massa vennero accelerati dagli "annegamenti", che potevano essere individuali, ma più¹ spesso a coppie (chiamati sadicamente "matrimoni repubblicani"), oppure collettivi»

Alla fine la Vandea fu pacificata, ma a che prezzo? La risposta la troviamo nel messaggio del generale Westermann al Comitato di salute pubblica di Parigi con il quale, il 23 dicembre 1793, annuncia trionfante la definitiva sconfitta degli insorti nella battaglia di Savenay:

«Cittadini repubblicani,  più nessuna Vandea! E'morta sotto la nostra sciabola libera, con le sue donne e i suoi bambini. L'abbiamo appena sepolta nelle paludi e nei boschi di Savenay. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli, e massacrato le donne che non partoriranno più briganti. Non ho un solo prigioniero da rimproverarmi. Li ho sterminati tutti... le strade sono seminate di cadaveri. Le fucilazioni continuano incessantemente»

In conclusione, ci domandiamo:

ma questi francesi, il 14 luglio, sanno cosa festeggiano?

Gianfredo Ruggiero, presidente Circolo Culturale Excalibur



Per saperne di più su questo e altri argomenti storico-politici è disponibile il libro di Gianfredo Ruggiero LA FORZA DELLE IDEE, euro 12 comprese spese di spedizione. Inviare richiesta a circolo.excalibur@libero.it


VIDEO: MATTARELLA VISITA LA COLLEZIONE DELLA FONDAZIONE ROMA (Mimmo Centonze)


From: MIMMO CENTONZE - (Ufficio Stampa) 




MATTARELLA VISITA LA COLLEZIONE D'ARTE

DELLA FONDAZIONE ROMA

CHE ESPONE UNA GRANDE OPERA DI CENTONZE


La Collezione d'arte della Fondazione Roma è stata definita
"la più grande collezione dal '400 ad oggi"

 

Guarda il video della visita del Presidente Sergio Mattarella
alla Collezione d'arte della Fondazione Roma
che espone una grande opera di Mimmo Centonze

LA NOTIZIA
 
ROMA - L'opera "Capannone" del Maestro Mimmo Centonze è entrata a far parte della prestigiosa Collezione d'arte della Fondazione Roma, la Pinacoteca definita dal Prof. Emmanuele Emanuele "la più grande collezione dal '400 ad oggi".

Il grande dipinto di tre metri dell'artista è esposto nella sede permanente della collezione ovvero Palazzo Sciarra, lo storico edificio che si affaccia su Via del Corso a Roma aperto gratuitamente al pubblico (accedendo da Via Marco Minghetti 17).

La Fondazione Roma, nel corso degli anni della presidenza del Prof. Emanuele e per sua forte determinazione, ha raccolto una importante e prestigiosa collezione di opere d'arte che abbracciano il periodo storico-artistico di ben sei secoli, dal XV al XX. Le opere ripercorrono le fasi salienti dei diversi periodi storici e alcune correnti artistiche grazie alla presenza in collezione di nomi illustri quali: Venusti, Ciampelli, Vignon, Baciccio, Andrea Pozzo, Batoni, Corvi, Van Bloemen, Panini, Jan Miel e Zuccarelli, sino ad arrivare ai giorni nostri in cui imponenti spiccano le opere di Lucio Fontana, Mario Schifano, Agostino Bonalumi, Enrico Baj, Roberto Crippa, Gianni Dova, e si conclude con artisti dela Transavanguardia quali ad esempio: Sandro Chia, Mimmo Paladino e Nicola De Maria

L'opera "Capannone" di Mimmo Centonze, esposta nella collezione della Fondazione Roma insieme alle opere di grandi maestri del passato e contemporanei, nella sua essenzialità compositiva ben rappresenta l'essenza stessa delle opere dell'artista dedicate al tema dei capannoni. Il dipinto è infatti costruito essenzialmente sull'uso di due colori principali: un rosso infuocato ed energico e il giallo della luce, materico e tanto palpabile da sembrare reale, che irrompe all'interno del capannone. La stessa essenzialità caratterizza anche i due cumuli di ferro vecchio, di colore bruno, sui quali si intravedono solo dei barlumi arancioni che si mescolano alla materia abbandonata. La quantità di colore utilizzato da Centonze per rappresentare la luce è impressionante: in alcuni punti della superficie pittorica supera i tre centimetri di spessore.

Il dipinto fa parte delle prime tre opere di tre metri realizzate dall'artista ed esposte in occasione della significativa esposizione monografica "Mimmo Centonze", organizzata in collaborazione con la Fondazione Roma, curata e presentata da Vittorio Sgarbi nel 2012 a Palazzo delle Esposizioni di Roma, nella quale sono stati tracciati dieci anni di sviluppo, dal 2002 al 2012, di un energico percorso artistico che parte dagli intensi ritratti, realizzati con eccezionale acutezza e vigore, e dalle maestose eppure intime figure ritratte nello studio dell'artista, fino ad arrivare ai grandi spazi luminosi dei capannoni e dei monocromi ad essi ispirati, sorprendenti e mistiche intuizioni luminose che protendono al divino.

Il 22 settembre 1969 lo storico edificio di Palazzo Sciarra (costruito nel Medioevo dai Colonna sui resti dell'acquedotto della Vergine e passato tra il Sei e il Settecento al ramo dei Colonna di Sciarra) fu venduto alla Cassa di Risparmio di Roma, che possedeva anche una collezione di opere d'arte, il cui nucleo originario risaliva al patrimonio storico del Monte di Pietà, di cui la banca era idealmente l'erede. Quando la Cassa di Risparmio è confluita in Unicredit, il Prof. Emanuele è riuscito a farsi lasciare in fondazione un piccolo nucleo di dipinti antichi, intorno ai quali ha costruito negli ultimi vent'anni una quadreria che ora conta circa 350 opere, dal Quattrocento a oggi.

Dice che la creazione di una pinacoteca da aprire gratuitamente al pubblico è uno dei suoi tanti sogni. "Dalla vita ho avuto tutto - racconta il Prof. Emanuele - addirittura molto di più di quanto speravo. Oggi è arrivato il momento di restituire agli altri". Aspira a realizzare quello che lo scrittore André Malraux aveva preconizzato mezzo secolo fa: "La grande sfida del nostro tempo consiste nel mettere a disposizione del pubblico le opere d'arte finora in possesso di pochi privilegiati". 


In allegato:
- L'opera "Capannone" di Mimmo Centonze esposta a Palazzo Sciarra nella Collezione della Fondazione Roma
- Il logo della Fondazione Roma
Copyright © 2018 Mimmo Centonze, All rights reserved.
Ricevi questa mail perché sei iscritto alla newsletter di Mimmo Centonze

Our mailing address is:
Mimmo Centonze
Via della Croce 51B
Matera, MT 75100
Italy

 

Ferrara, Tiemme eBook (a cura di R. Roversi) : Due ebook di Camilla Bisi, Poetesse Italiane e Essere Donna

 Doppia chicca news per Tiemme edizioni digitali  (da Ferrara), sempre rilanci classici,  in diverse occasioni (dal catalogo) preziose ANCHE per la nuova visibilità di libri o autori e autrici del passato, assolutamente di interessi attuali.  
Ad esempio questa scrittrice- CAMILLA BISI - del primo novecento capace - in epoca veramente ancora ardua per le donne- di fare parlare la libertà e la bellezza attraverso la poesia LETTERATURA e senza le sovrastrutture  femministiche sempre meno credibili contemporanee:  nel senso che oggi, troppo spesso si confondono  temi  sociologici con temi letterari  ma  anche il coraggio della libertà con il suo abuso (spesso) in nome di  pseudo libertà stesse e arroccamenti faziosi e veteroideologici (persino genderistici...).
Nella Bisi, alla faccia dell'epoca, tutta la creatività  femminile personale ma anche già "collettiva" e proprietà emergente sociale  (con la Bisi promotrice e critica anche letteraria),  è semplicemente in Primo Piano.
Da notare, altra caratteristica editoriale, la particolare attenzione alle copertine  eBook, forse tra le migliori finora realizzate (vedi anche link 2 per l'Book Essere Donna).

CAMILLA BISI   POETESSE ITALIANE
Camilla Bisi scrisse questo prezioso e imperdibile saggio nel 1916 (titolo originale Poetesse d'Italia), in cui commenta la muliebre sensibilità lirica di oltre 50 poetesse italiane, fra le quali: Gaspara Stampa, Ada Negri, Amalia Guglielminetti, Alinda Brunacci Brunamonti, Vittoria Aganoor, Luisa Anzoletti, Annie Vivanti, Anna Evangelisti, Ofelia Mazzoni, Anna Scalera, Elsa Schiaparelli, Alda Rizzi, Giulia Cavallari Cantalamessa.


CAMILLA BISI  Essere Donna

Questa famosa silloge di Camilla Bisi è composta da quattordici novelle, pubblicate nel 1934. Oltre a Essere Donna, il racconto che dà il titolo al libro, comprende anche lo struggente Sette rose, una vicenda ispirata dall'appassire delle sette rose che le donò Mario Baistrocchi, suo compagno di università, prima di partire per la Grande Guerra, dalla quale non tornò

--

giovedì 12 luglio 2018

Ovidio e il più antico destino di Saturno


Da: anggiub@tin.it   di ANGELO GIUBILEO
 

Ai tempi, sempre mutati, del divus Augusto, il poeta Ovidio, nel primo libro delle Metamorfosi, narra le vicende che sarebbero occorse dall'origine del mondo. In premessa, egli dice che l'estro lo spinge a parlare di forme mutate in corpi nuovi (1-2). L'uso del termine formas (acc., forma -ae), tradotto "figura", è da considerarsi nel senso che l'intero discorso attiene e non può che attenere alla "forma" - e non a quella che Aristotele per contrasto definirà viceversa "sostanza" -, delle cose di cui toto naturae vulnus in orbe, ovvero: ciò che concerne l'aspetto della natura in tutto l'universo (6). A tutte queste trasformazioni presiedono gli dei (2). Ma, per l'appunto, cosa abbia dato origine alla forma primigenia e indistinta non è e non sarà dato sapere. E, per tanto, a tale aspetto della natura in tutto l'universo è dato il nome di Caos (7). Ed è quindi dal Caos che ha "inizio" la storia di quello che potremmo definire il "primo cerchio dell'essere", che si completa con la presentazione di Fetonte, figlio del Sole (751), in cerca di suo padre.
Dal Caos, un dio, e una più benigna disposizione della natura sana i contrasti (21) delle forme indistinte che appaiono e sono. Sono, esattamente, per se stesse (divine, le dirà Platone) e non così come (politiche, le dirà Platone) appaiono. Questo dio è ignoto: quisquis fuit ille deorum (32). E tuttavia, egli non è già più l'Architetto che secondo alcuni avrebbe progettato il mondo prima dell'inizio; egli invece è il Fabbro: fabricator mundi (57). L'opera del Fabbro - celeste e non, che sarà in qualche modo inteso da Spinoza come deus sive natura -, una volta completata, apre "l'età dell'oro; che fiorisce per prima, spontaneamente, senza bisogno di giustizieri, senza bisogno di leggi" (89-90), dove si onorano la lealtà e la rettitudine (90). E dove, dice Ovidio, nacque l'uomo, o fatto con divina semenza da quel grande artefice, principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giapeto … (78-83), ovvero il titano Prometeo, e la primavera era eterna: Ver erat aeternum (107).
Aetas, quae vindice nullo (89), un'età, la prima e unica della storia in cui non occorre fare giustizia o più precisamente "vendetta". E tuttavia, questa età finisce, quando Saturno fu spedito nel Tartaro tenebroso e il mondo si ritrovò sotto il regno di Giove (113-114). Direbbe Heidegger che qui occorra piuttosto una delucidazione, dato che Saturno compare nella storia all'improvviso senza che di lui veniamo a sapere qualche altra notizia oltre il fatto che sia stato "gettato" nel Tartaro tenebroso. Per una siffatta delucidazione, decido di rivolgermi al maestro Giorgio de Santillana, il quale in Il mulino di Amleto sostiene che Saturno, alle più diverse latitudini e longitudini del mondo, sotto diversi nomi, è l'auctor temporum, colui che dà le misure del cosmo, il Primo Re, il sovrano dell'Età dell'Oro ora addormentato ai confini esterni del mondo, il Sovrano della Necessità e della Retribuzione (op. cit., 164-165). Un destino è quindi già cambiato, non sappiamo se per volere (o colpa) di chi o cosa. Potremmo anche pensare a una contesa che si sia svolta, che abbia però riguardato direttamente la stirpe degli dei, e che a questa contesa sia stata posta la fine necessaria mediante un patto di giustizia in base al quale a Saturno, il Primo Re, è toccato il Tartaro tenebroso e invece a Giove il mondo. Ma, di questa contesa, nel poema non vi è alcuna traccia. Diversamente, da quando accaduto e testimoniato nell'India vedica dalla storia dei Deva e degli Asura.
Scopriamo invece, ed è qui solo il caso di farvi immediatamente cenno, che il "destino" finora incerto (78-83), volga piuttosto in sofferenza: questa infatti è la peggior sorte toccata a Saturno, ma questa è anche la sorte, in forma d'ora in poi di contesa, che tocca ai protagonisti delle età che sopraggiungeranno. A partire dall'età di argento, in cui Giove riduce la durata originaria della primavera (116), seguita dall'età di bronzo, di pregio ancora minore (115) e fino all'ultima, quella del ferro duro (126), in cui accade che siano invece "i Giganti" (152), e tra questi per primo s'intenda Prometeo, a ribellarsi al proprio destino, aspirando al regno del cielo, su, fino alle stelle (153). D'improvviso, letteralmente protinus (128), così com'è sembrato per la fine dell'età dell'oro, nel mondo irrompe ogni empietà 8128-129).
Quando Giove, figlio di Saturno, vide questo dall'alto della sua rocca, mandò un gemito, e ripensando al mostruoso banchetto di Licaone (nessuno ancora ne sapeva nulla, perché il fatto era recentissimo) s'infiammò in cuore d'ira grande e in tutto degna di Giove (163-166). Or dunque accade che la stirpe degli uomini, anche quella rinata dalla Terra (160), già intrisa di sangue (162), guidata dal figlio di Giapeto (83), che è Prometeo, si ribelli al dio del cielo che è Giove; il quale Giove è però figlio di Saturno; e, come sappiamo, è divenuto re quando Saturno, padre, è stato spedito nel Tartaro tenebroso.
Quindi tocca ora a Giove subire la contesa, e a noi ascoltare quale destino la storia riservi ai nuovi protagonisti. Con l'aggiunta, a cui qui Ovidio fa espresso riferimento, di Licaone: chi è costui? Egli, sovrano dell'Arcadia, diventa (n.d.r.: il "divenire", così come in Aristotele, rappresenta il processo di trasformazione delle cose, che pertanto non mutano quanto alla "sostanza", che permane sempre uguale a se stessa, ma alla "forma") l'emblema di ogni empietà suddetta, e, la più grave, quella di aver dubitato che Giove, calato dalla sommità dell'Olimpo per accertarsi, sotto umano aspetto, sperando che non sia tutto vero (211-213), sia veramente un dio o un mortale (222-223). L'ira di Giove sembra non abbia più fine, e così prorompe il diluvio su tutta la terra, anch'essa travolta dal ciclo della vendetta, che, mediante un eterno ciclo, è generata e genera. Chi vendicherà, e quindi rivendicherà, ora, la giustizia per entrambe le stirpi, quella degli dei e questa degli uomini? In realtà, entrambe, finiscono per soggiacere a una sorta di legge del contrappasso, ovvero "soffrire il contrario" per analogia e, nel racconto, solo dall'età dell'argento, per colpa; una legge che, non dall'inizio ma da principio, garantisca definitivamente che non arda il lungo asse del mondo (255), flammas longus ardesceret axis.
E' quindi sul Parnaso, le cui vette sovrastano le nuvole (317), (l'unico non sommerso) che Deucalione approdò su piccola barca con la sua compagna di letto, Pirra (318-319). Deucalione, figlio di Prometeo o Promethides (390), e Pirra, figlia del titano Epimeteo, fratello di Prometeo ed entrambi figli di Giapeto: chi sono Deucalione e Pirra? Ovidio dice che: Mai ci fu uomo più buono di lui e più amante della giustizia, mai ci fu donna più timorata di lei (322-323). Spetta dunque a costoro "vendicare" la stirpe degli uomini rispetto al cospetto dell'intera stirpe divina capeggiata da Giove. Così che il mondo torni come prima, ma non esattamente, dato che la terra partorì un'infinità di specie e in parte riprodusse le forme di una volta, in parte creò mostri sconosciuti (436-437), così come già prima aveva generato una nuova schiatta di uomini (ma) anche questa spregiatrice degli dei (160-162).
La terra, dice Ovidio, certo essa non avrebbe voluto – e, dunque, quale colpa potrebbe mai averne -, eppure allora generò anche te, immenso Pitone, serpente mai visto prima, che divenisti il terrore dei popoli rinati (438-440). La terra assurge ora al ruolo del più antico Fabbro. Ma, allora, che n'è di Giove? Prima che, in tal guisa, Ovidio ci dia una risposta, egli introduce la più antica storia di Febo o anche "colui che splende, che illumina e percorre il cielo conducendo un cocchio d'oro e di gemme, trainato da quattro cavalli", il così più noto Apollo. E infatti è Febo, figlio di Giove (517), che uccide quest'essere mostruoso (444). Dopo di che, narra Ovidio che il primo amore di Febo fu Dafne (452). Il dio di Delo, ancora tutto insuperbito per aver vinto il serpente (454), non crede che Cupido, figlio di Venere (463), possa trafiggerlo; ma, così accade e Febo s'innamora di Dafne, figlia di Peneo, fiume della Tessaglia. Febo proclama: La mia freccia è infallibile, sì; una però è stata più infallibile della mia, quella che mi ha ferito il cuore sgombro (519-520). L'"amore", si dirà poi nei tempi successivi ad Augusto, vince anche Febo, mentre Dafne sfugge piuttosto alla sua bramosia. Il racconto finisce che Dafne, dopo aver pregato il padre Peneo, viene trasformata in albero di alloro; così che Apollo e l'alloro siano da quel momento in poi legati per sempre, lo stesso alloro che sarà ai lati della porta della dimora di Augusto (562).
Questo "impulso", piuttosto direbbe Plutarco, che riempie il cuore sgombro del dio, finisce per catturare anche Giove e lo spinge a tradire la moglie Giunone, saturnia, come Giove, entrambi species Saturnia (612). Giove è attratto da Io, figlia di Inaco, fiume dell'Argolide, e anch'essa, come già Dafne, intende sfuggire al dio predatore che la insegue, correndo verso il fiume paterno. Giove, per occultarla alla vista della moglie, trasforma Io in giovenca (611): anche giovenca essa è bella. La figlia di Saturno elogia l'aspetto della vaccaGiove le inventa che è nata dalla terra, perché smetta d'indagare sulla provenienza; e Giunone gli chiede di regalargliela (612-616). Che fare? Sarebbe crudele consegnare l'amata; non farlo sarebbe sospetto (617-618). E allora Giove la cede a Giunone che, come sempre sarà, per vendetta decide di farla soffrire, e fino a quando Giove la supplica di porre fine alle di lei sventure (733). Allora la dea si placa e Io riprende l'aspetto di una volta e torna com'era prima (738-739): nulla resta in lei della vacca, tranne il candore della figura (743) (…) Ora è una dea famosissima, venerata dalle folle vestite di lino (747). E' Iside, ai tempi ancora di Augusto.
A questo termine del racconto, il primo cerchio dell'essere, così come noi l'abbiamo chiamato, non è ancora chiuso; per chiudersi, occorre la comparsa sulla scena di Fetonte e la narrazione dell'antefatto legato al suo più celebre mito. Fetonte, figlio del Sole (751), si vanta con Epafo della sua supposta paternità. Epafo, figlio di Giove e di Io, gli rinfaccia di credere scioccamente a questa diceria della madre Climene - moglie del re etiope Mèrope, amata dal Sole e madre anche delle Eliadi - di un padre "immaginario" (753-754). Fetonte si rivolge alla madre e, su invito di lei, decide di andare dal padre: Se così ti aggrada, vai a informarti da lui direttamente (775). E così, il cerchio si chiude. Non prima però che Fetonte, lasciata la sua Etiopia, traversata l'India, arrivi prontamente al cielo dove sorge suo padre.
Per tanto, Necessità vuole: I) che, dopo l'inizio (da cui il "pensiero iniziale" di Heidegger) del Caos e poi dell'età dell'oro, in principio (secondo l'ordine "politico" di Platone che subentra all'ordine "divino" del Caos) sia Giove, regnante figlio di Saturno, a riscattare il destino avverso capitato al padre, così precipitato nel Tartaro tenebroso; II) che siano soprattutto i titani, capeggiati da Prometeo, e gli uomini a volersi vendicare nell'età del ferro duro dell'operato di Giove regnante nell'età dell'argento; III) che sia ancora Giove e l'intera stirpe divina a volersi vendicare a propria volta, scatenando il diluvio e servendosi delle forze della natura così violata dall'operato degli uomini; IV) che siano Deucalione, figlio di Prometeo, e Pirra, figlia di Epimeteo, a riscattare gli uomini e la terra; V) che sia la terra, pur non volendo, a generare l'immenso Pitone, terrore dei popoli rinati per volere degli dei; VI) che sia Febo, figlio di Giove, a trafiggere il serpente; VII) che sia Cupido, figlio di Venere, a trafiggere Febo e a farlo innamorare di Dafne, figlia del fiume Peneo; VIII) che sia il figlio del dio Giove che la figlia del fiume Peneo subiscano il destino amaro di restare legati per sempre, in modo che l'uno ami l'altra trasformata in albero di alloro (dati i tempi in cui predomina il valore stoico della virtus augustea); IX) che sia ancora Giove a tradire la sua stessa stirpe divina (saturnia) con Io, la figlia del fiume Inaco, e che sia però lo stesso Giove a chiedere a Giunone che Io riprenda l'aspetto originario; X) che, in fine, sia Epafo - figlio di Giove e di Io, divenuta Iside, così che cielo e terra siano di nuovo insieme - a sfidare la paternità di Fetonte, figlio del Sole e di Climene - moglie del re etiope Mèrope e madre anch'essa delle Eliadi, così che cielo e terra siano di nuovo insieme -, allo stesso modo in cui Licaone aveva già sfidato la "divinità" di Giove prima del diluvio.
                                                                                                                      Angelo Giubileo