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martedì 22 marzo 2011

Miro Renzaglia- Il Fondo Magazine Italia post150 con Antonio Pennacchi Sandro Giovannini ed altri

88741566.gifIn occasione del 150° anniversario della Unità d’Italia, Il Fondo ha rivolto ad alcuni amici e collaboratori quattro domande sui suoi significati salienti. Al forum hanno partecipato: Arba (opinionista), Angela Azzaro (giornalista), Giorgio Ballario (scrittore), Mario Bortoluzzi (musicista), Andrea Colombo (scrittore), Michele De Feudis (giornalista), Sandro Giovannini (poeta), Mario Grossi (critico letterario), Roberto Guerra (poeta), Alberto B. Mariantoni (scrittore), Raffaele Morani (opinionista), Antonio Pennacchi (scrittore), Raffaele Perrotta (poeta), Luca Leonello Rimbotti (scrittore), Giovanni Tarantino (scrittore).

La redazione

 


 

Definisci il tuo concetto di patria-nazione…

Arba - E’ indubbiamente innato. Dapprima inconscio, poi felice consapevoleza di appartenenza ed identità se accettato e nutrito. Può venire trasformato in nazionalismo egoista. Oppure negato,  rendendolo una caricatura  di se stesso. E facendosi del male inutile, quando se ne predica la sparizione o l’assenza. Le proprie origini, le origini della propria comunità, la storia vissuta insieme, le tradizioni, i patti comuni rappresentano per me la Patria. E’un legame verso una specifica terra: uno spazio fisico che esprime un’eredità che si tramanda e si gestisce come pegno di un “amore”. Volendo, la parte fisica della Patria, la terra che si calpesta, rappresenta l’anello, la fede, simbolo di una promessa di fedeltà fra il divino e l’uomo. Credo fermamente infatti che i popoli, le nazioni, le patrie, le frontiere siano per prima cosa di ordine spirituale e pre-stabilito: una istituzione pensata dal divino per aiutarci a compiere il nostro destino e crescere verso la meta, che è quella di migliorare il mondo partendo da noi stessi. Ovvero: l’occasione giusta, la più adatta per divenire veri uomini e donne coscienti e liberi. Avere un senso di patria interiore è necesario per riconoscere lo stesso desiderio negli altri popoli. Sentirlo, genera ed aumenta il rispetto verso gli altri: la vera fratellanza fra le nazioni si attua favorendo e rispettando la diversità di ogni nazione e la libertà altrui. Alcune persone ne racchiudono più d’una. I soliti fortunati… Senza patria si erra. In tutti i sensi racchiusi nel verbo…
Angela Azzaro - Io preferisco parlare di Stato. La patria non mi piace perché l’etimo, terra dei padri, racconta di un’idea fondata sul potere degli uomini e del sangue. In nome della patria si sono combattute le guerre e cacciati i cosiddetti stranieri. La mia patria diceva Virginia Woolf è il mondo intero. Lo Stato quindi perché permette di organizzarsi in istituzioni democratiche che per quanto piene di limiti consentono un minimo di partecipazione e di diritti. La patria fa riferimento a un’idea di cittadinanza fondata sul sangue. Per me la cittadinanza deve valere per tutti là dove si trovano senza distinzione di alcun tipo.
Giorgio Ballario – Patria è per definizione etimologica “la terra dei padri” (se usiamo madrepatria estendiamo il concetto a entrambi i genitori); nazione richiama non solo alla nascita e all’origine territoriale, ma alla comunità di diritto alla quale si appartiene per vincolo di sangue, lingua, cultura e tradizione. Entrambi i termini (patria e nazione) hanno però un significato spirituale, culturale, ideale e letterario che va al di là dell’appartenenza geografica e di stirpe. Nel mondo globalizzato sono concetti che vanno sfumando; anche se l’uomo contemporaneo, in apparenza sempre più sradicato e privo di riferimenti identitari, dimostra di aver ancora bisogno di punti fermi. Ecco allora l’esigenza di aggrapparsi alle “piccole patrie” locali, a identità più politico-ideologiche che reali (la Padania), a un neo-patriottismo artificiale (l’adesione a-critica alle celebrazioni dei 150 dell’unità d’Italia). In realtà patria e nazione sono due concetti in continua evoluzione e ridefinizione.
Mario Bortoluzzi – Se storia, cultura, etnia, lingua, territorio sono alcuni dei dati caratterizzanti costitituenti  una Nazione, per l’Italia penso si possa partire dalla cultura. Quella che, dall’epoca dei Comuni, ha caratterizzato tutti gli Stati pre-unitari. Una comune cultura italiana ben conosciuta in tutta Europa .Veniamo  da storie diverse tutte però intrise dalla medisima cultura che caratterizza l’appartenenza alla Nazione italiana nata ben prima di 150 anni fa. La Patria, intesa come “terra dei Padri”, e considerata singolarmente,  attiene di più alla genesi  degli stati pre-unitari, soprattutto a quelli più longevi come, ad esempio, la Repubblica di Venezia. Nel 1668 Alvise Leonardo Mocenigo, comandante della piazza di Candia così rispose a chi gli chiedeva la resa: “Casa Mocenigo non riceve dalla patria in comando e governo le piazze per darle al Turco”, ben significando così il concetto di Patria che veniva ancora prima di quello dello Stato da mar veneziano. Quando però nei popoli di una Nazione   esiste un  comune sentimento  di identità culturale  condivisa, legato al concetto di solidarietà e di assistenza reciproca   e quando questi popoli, con il loro “portato” di patria, decidono di  esistere come Stato, allora si può parlare di Patria-nazione. Ma deve essere una decisione presa in libertà.
Andrea Colombo - Oscillo tra due citazioni musicali. La prima è “Wherever I Lay My Hat, That’s My Home”. Ma la seconda,  meno rosea, è “No Direction Home”.
Michele De Feudis - Amore per la propria terra e per la missione di civilizzazione universale fondante l’idea di Italia.
Sandro Giovannini – «…ma la gloria non vedo…», dice il Leopardi ed io con Lui… la Gloria è la presenza costante alla nostra dignità, alla nostra sobrietà, al nostro destino… in realtà la ricostruiamo ogni giorno se seguiamo l’esempio dei grandi che ci hanno preceduto… non è solo una visione poetica…, è una vocazione metafisica e realissima…Ma salendo al livello comunitario, in questa metafisica realissima non c’è alcuna identità liquida, ma tanta consapevolezza metagenetica, rabbia controllata, disponibilità reattiva, sprezzatura rispetto alle infinite ed illusorie ipotesi accomodatorie…
Mario Grossi – La definirei il corpo di sintesi spazio-temporale di un gruppo d’individui che hanno in comune un passato, che decidono di vivere insieme il presente e che hanno un’idea condivisa da realizzare. Una comunità aperta che può essere sposata, in quanto contano di più gli obiettivi futuri che non il passato (che si può condividere senza averlo vissuto).Un buon esempio, in campo letterario, è rappresentato dalle Tigri della Malesia. Un gruppo di persone, come Sandokan malese, Janez portoghese, Kammamuri indiano e Tremal Naik bengalese, diverse tra loro che si uniscono in Nazione in vista di un obiettivo accomunante e superiore: cacciare l’inglese James Brooke, il raja bianco di Sarawak e riconquistare a Sandokan il suo impero. Nella finzione letteraria tutti s’intendono e questo sottintende nella realtà che è la lingua, più di altre cose, ad accomunare i sodali della Nazione e quella va preservata come simulacro inviolabile seppur dinamico.
Roberto Guerra – La nazione-patria, oggi, è soprattutto un archetipo, una energia nucleare psichica, soggettiva e collettiva, per navigare nella propria anima e nel divenire storico e sociale, con una sorta di stile, simile e universale alla luce di certa evoluzione del concetto in Patria-Terra (pianeta), ma appunto impronta digitale unica nella danza delle differenze interculturali, fondamentale per non perdere la specifica memoria, naturale e elettronica, regredendo alla staticità dell’omologazione sempre incombente, che arresta la combinatoria im-prevedibile della storia stessa dei popoli e degli individui.
Alberto B. Mariantoni - La parola “Patria”, viene dal latino arcaico “pătriu (m)”, “(tĕrram) pătria (m)”; vale a dire, “terra dei Padri”: da “păter, pătris” (padre). E’ definita “terra dei Padri”, in quanto era (e continua ad essere) il luogo dove erano stati sepolti (e seppelliamo) i “Padri”, dunque, i genitori, i parenti, gli antenati. Da cui, ancora oggi, la classica e proverbiale espressione, la “Sacra Patria” o il “Sacro suolo patrio”: Sacra/Sacro, soprattutto, a causa di quelle sepolture. La parola “Nazione”, dal canto suo, viene dal latino “natio, nationis” (nascita, estrazione naturale). Vocabolo, a sua volta, scaturito dal participio passato del verbo “nascor, nasceris, natus (a, um) sum, nasci” (nascere, essere generato; derivare, discendere) che, a sua volta ancora, aveva preso origine dall’arcaico “gna-scor, gna-sceris, gna-tus (a, um) sum, gna-sci”, dalla cui radice, “gen” / “gna” (ger, na), si erano formati i vocaboli “genitalis, e” (genitale, riguardante la generazione, la nascita), “genitor, genitoris” (colui che procrea, genitore, padre, origine, causa), “genetrix, genetricis” (genitrice, madre), “gens, gentis” (famiglia, casato, razza, popolo), “genus, generis” (stirpe, schiatta, lignaggio), etc. Qualcosa, quindi, che è irrefutabilmente legato all’idea di nascita, di procreazione, di famiglia, di lignaggio. Ragione per cui, non credo possa esistere la “mia”, la “tua”, la “sua”, la “nostra”, la “vostra” o la “loro” definizione di Patria e/o di Nazione. Volenti o nolenti, d’accordo o non d’accordo, quelle appena citate, sono le loro irrefutabili ed imperiture definizioni! Va da sé, pertanto, che per essere un effettivo Italiano, non possa essere sufficiente parlare (più o meno bene) la lingua del nostro Paese, avervi stabilito la propria residenza (da più di cinque o dieci anni …) ed averci pagato le tasse.
Raffaele Morani – Sono nato in Brianza, da padre calabrese e madre romagnola. Il confronto, a volte anche aspro, tra nord e sud del mio Paese l’ho vissuto praticamente sin da quando sono nato, con diffidenza e pregiudizi degli uni verso gli altri. Dalla migrazione interna siamo passati a grandi ondate migratorie, conoscendo direttamente popoli e culture ancora più diverse e lontane. Per me la Patria è il luogo dove sono nato e dove vivo, ma soprattutto dove ho sviluppato la mia identità, grazie al contatto e all’incontro-confronto con le altre persone, e le altre culture al di fuori del mio ambiente familiare e sociale iniziale. Mi sento e sentirò sempre italiano, ma l’idea stessa di Patria a cui siamo stati educati ed abituati, deve secondo me tenere conto di questi cambiamenti epocali, e necessariamente essere inclusiva verso tutti coloro che nascono e vivono in Italia a prescindere dalle origini familiari di partenza. 150 anni fa c’erano grandissime differenze tra piemontesi e calabresi, adesso parliamo tutti la stessa lingua e abbiamo la stessa cultura pur con specificità particolari, perché non possiamo fare lo stesso con chi vive e lavora di fianco a noi?
Antonio Pennacchi – Per definizione, la Patria dovrebbe essere la terra in cui sono nati i miei padri. Io in realtà vengo dall’Agro Pontino, che ancora non c’era quando nacquero i padri miei. E’ lui, che è stato messo al mondo da loro, sgravato dalle melme e dalle acque. E i miei padri venivano dal Veneto e dall’Umbria e i padri di mia moglie invece anche dal Lazio e dalle Calabrie, mentre quelli delle nostre nipoti – le figlie di nostra figlia – anche dagli Abruzzi, dalla Sicilia, dalla Libia e dalla Tunisia. La Patria è quindi la terra e l’habitat – la realtà geopolitica – costruita dai miei padri per me, e da me per i miei figli e da chiunque altro, da qualunque parte provenga, per i figli suoi. La Nazione è il sentimento determinato da quel sostrato di tradizioni, storie, lingua, memorie, dolori, sacrifici e lavoro, che accomuna quei popoli che dall’Alpi alla Sicilia hanno costruito e costruiscono la mia Patria, la quale infine non sarà la più bella e la più giusta del mondo, anzi tutt’altro, mancandole lo Stato, ma è l’unica che ho. E’ la mia  e me la tengo.
Raffaele Perrotta - il concetto presume e rende conseguenziale il discorso. qui, mi limito a formulari condensati al massimo ‘patria’ significa patrimonio – consegna di valore di cui aver cura e da valorizzare; patria è allora tra-dizione, un antecedente comunque epico, parole d’ordine, sia per i popoli del Libro sia per i popoli che Libro non hanno. ‘nazione’: medievisticamente il luogo di nascita, attualmente… diamone un significato che si basi a partire dai molti accomunati nel parlare la stessa lingua – non di Stato, trattandosi di una comunità che non si fregi dell’autorità di Stato (palestinesi, curdi ecc.), ma che parlante la comune lingua è tuttavia una unità di fatto -, e accomunati in una ‘forma mentis’ – per la quale la cultura generale è caratterizzante il complesso della suddetta unità di fatto -.

Luca Leonello Rimbotti – I termini si definiscono da soli, senza bisogno di aggiunte correttive: Patria è la terra dei nostri padri, di coloro che, generazione dopo generazione, ci hanno preceduti e dal cui sangue, piaccia o non piaccia, noi siamo venuti al mondo. La nazione è l’insieme delle famiglie che vivono lo spazio della Patria, è un’unità genetica basata sull’eredità. Noi non siamo che i discendenti dei nostri progenitori e i progenitori dei nostri discendenti. La “natio” è l’insieme dei “nativi”, di quanti, uniti dalla parentalità, costituiscono gruppi umani – le “gentes” – tra loro unite dal “gene” accomunante, cui si aggiungono i legami di cultura, di lingua, di religione, di storia, di destino. La Patria-Nazione è un’unità fondata sull’eredità: privata di questo nesso, perde il suo significato, e si entra nel cosmopolitismo: la patria è il mondo, e ogni discorso diventa generalizzazione, utopia a ruota libera, chiacchiera. I popoli, invece, non sono chiacchiere, ma solide realtà fatte di carne e di spirito.
Giovanni Tarantino - L’idea di Patria mi rimanda a quella di patrimonio condiviso. Un qualche cosa che è di tutti, che è nostro. Un patrimonio valoriale, esistenziale, artistico, etico. Nostro di chi? Della nazione, della comunità. Dell’aggregazione umana che si riconosce nella Patria e nella sua storia.
 
CONTINUA
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venerdì 18 marzo 2011

IL FONDO Magazine - Edizione Speciale - 17 marzo 2011 ITALIA 150


 88741566.gifAntonio Fiore Ufagrà : il futurismo celebra l'Italia 150° | http://lasinorosso.myblog.it/futurismo/



 

Edizione Speciale - 17 marzo 2011

FORUM


150° DELL'UNITA'
W L'ITALIA


hanno partecipato


Arba, Angela Azzaro, Giorgio Ballario,
Mario Bortoluzzi
, Michele De Feudis, Sandro Giovannini,
Mario Grossi
, Roberto Guerra, Alberto B. Mariantoni,
Raffaele Morani
, Antonio Pennacchi, Raffaele Perrotta,
Luca Leonello Rimbotti
, Giovanni Tarantino

 

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martedì 8 marzo 2011

Mino Renzaglia- lL FONDO magazine-inserto 7-3-2011

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anno III - n. 139 / 7 marzo 2011


in questo numero articoli di


Roberto Alfatti Appetiti, Arba, Angela Azzaro, 
Alessandro Campi, Mario Grossi, Alberto B. Mariantoni,
Marco Petrelli, Miro Renzaglia,
Federico Zamboni

 

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*Roberto Alfatti Appetiti

 

In principio fu Fantômas

In principio fu Fantômas, il capostipite dei neri che proprio in questi giorni compie 100 anni senza per questo mostrare segni di cedimento, né al “bene” né alla vecchiaia. Vide la luce – si fa per dire, accuratamente mascherato com’era e rimanendo caparbiamente nascosto nell’ombra – nel febbraio del 1911. Da allora ne ha combinate più lui di chiunque altro, roba che al suo confronto Arsenio Lupin, creato cinque anni prima da Maurice Leblanc, più che un ladro gentiluomo sembra una dama di san Vincenzo. E lo stesso vale per quei figlioli italiani che al criminale per eccellenza devono più di qualcosa: dai “fratelli” kappa – Diabolik, Kriminal, Zakimort e Satanik – ai cattivi perduti dell’immaginario degli anni Settanta come Lo Sconosciuto di Magnus e Massimo Zanardi di Andrea Pazienza. Un testimone che scotta, quello lasciato dai francesi Marcel Allain e Pierre Souvestre. Misurarsi con un “professionista” spietato quanto diabolico, straordinario nei travestimenti e decisamente megalomane, non è stato facile per nessuno. Fonte di ispirazione per numerose generazioni di fumettari, scrittori e registi, i rifacimenti al fascinoso Signore del Male hanno prodotto personaggi interessanti ma anche qualche “scivolone” in edicola, libreria, piccolo e grande schermo. Perché “adattare” o reinventare Fantômas al di fuori del suo habitat naturale non è uno scherzo.
Ne sa qualcosa il regista Christophe Gans che, dopo averne annunciato trionfalmente il ritorno per il 2011 in una nuova pellicola in 3D – con il volto del magnetico Vincent Cassel cinquanta anni dopo l’interpretazione magistrale di Jean Marais – sembra incontrare qualche difficoltà. Le notizie al riguardo sono contraddittorie e il marito della Bellucci sembrerebbe essersi tirato indietro. Conciliare la figura del cattivo senza scrupoli, perché di questo parliamo, con quella del super eroe classico, non è impresa facile.
Eppure ad aver appena superato la prova con geniale disinvoltura sono due temerari del fumetto italiano: Luigi Bernardi e Onofrio Catacchio. È grazie al loro collaudato sodalizio artistico che il genio del male si trova catapultato in un futuro prossimo di guerre e crisi finanziarie globali e trasformato in una vera e propria organizzazione criminale: Fantomax, non solo un uomo ma una società segreta che obbedisce esclusivamente alla logica del Male e dichiara guerra al mondo attraverso una mirata strategia della tensione. Questione di diritti, ovviamente, che però non toglie nulla alla credibilità della storia – Fantomax (Coconino Press, pp. 208, € 17,50) – presentata in prima assoluta sabato scorso dagli autori al festival Bilbolbul di Bologna e disponibile in tutte le librerie dal prossimo 17 marzo.....

venerdì 4 marzo 2011

Mino Renzaglia- IL FONDO Magazine - Inse rto del giovedì - 3 marzo 2011

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Inserto del giovedì - 3 marzo 2011

LIBIA
MA QUALE RIVOLTA LIBERTARIA
E' UNA GUERRA FRA TRIBU'

articolo di

Miro Renzaglia



 

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È LA SCISSIONE
IL VERO INCUBO DELLA LIBIA
miro renzaglia

Una cosa è certa: le matrici delle rivolte o delle rivoluzioni sono sempre diverse le une dalle altre. In particolare, l’osservazione vale per quanto sta accadendo in Nord Africa da un mese a questa parte. L’unico minimo comune denominatore fra le vicende di Tunisia, Egitto e Libia sembra potersi trovare nel desiderio di modernizzazione di quei Paesi. Ma, pure qui, quando si osservano i movimenti che si sono fatti promotori delle sollevazioni, qualche dubbio sorge. I Fratelli Musulmani in Egitto, per esempio, non sembrano essere il massimo di modernità in termini di apertura alle libertà e ai diritti civili. E tanto in Egitto che in Tunisia, ai regimi deposti, che per quanto retrogradi erano comunque a sostanza “civile” di Moubaraq e Ben Ali, non si è trovato niente di meglio che sostituirli con gli stessi organigrammi preesistenti: militari a Cairo e civili a Tunisi. Il che – bisogna dirlo –  non è certo il massimo delle avventure libertarie.

E ora veniamo al regime in bilico del colonnello Muammar Gheddafi. Arrivato al potere con il classico colpo di stato, ormai può sostanzialmente contare sostegno solo su alcuni (neanche tutti) apparati dell’esercito e su una parte (nemmeno tutta) della sua tribù. Tanto è vero che, a quanto riferiscono le cronache, è stato costretto ad arruolare compagnie di mercenari per difendere il suo traballante regime, stante  la riluttanza dei militari ufficiali a sparare sulle folle in rivolta. Lasciamo stare il delirio secondo il quale, per lui: «Questa gente non ha richieste. Le loro richieste vengono dettate da Bin Laden. I vostri figli sono manipolati da Bin Laden». I segnali che arrivano dai rivoltosi vanno in una direzione che sembra essere di segno opposto ad un traguardo modernizzatore. Le folle scese in piazza, infatti, e se i simboli hanno senso, hanno recuperato insegne del passato. A cominciare dalla vecchia bandiera libica: il tricolore nero-rosso-verde che sventolava, sul regno di Re Idris, prima della Rivoluzione delle Masse (la Jamahiriya) imposta da Gheddafi.

Ora, è probabile che prima di un balzo in avanti sia necessario, come vuole un vecchio adagio, fare un passo indietro per prendere la giusta rincorsa. Ciononostante, gli scenari immediatamente palpabili non sono quelli che sarebbe in auspicio. Soprattutto valutando il sacrificio di sangue che quelle popolazioni stanno sostenendo per affermare un principio di liberazione. E il rischio che il regime libico soccomba a vecchie dispute tribali (mai sopite), fino alla scissione dello stato unitario in due diverse regioni geo-politiche – Tripolitania e Cirenaica -  non sembra essere nelle migliori aspettative per l’Italia e l’Europa.

Tuttavia, sarebbe del tutto errato soggiacere alla ferrea logica della real-politik. Quando interi popoli mettono in discussione la sussistenza dei loro sistemi politici versando il sangue dei propri figli migliori,  l’obiettivo primario non è quello di pensare ai nostri interessi immediati quanto, piuttosto, di comprendere le ragioni profonde del disagio che fatalmente è esploso. E di chiederci se le nostre politiche (nostre nel senso di Italia, Europa ed Occidente) non siano in qualche misura responsabili dell’esplosione......CONTINUA
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venerdì 18 febbraio 2011

IL FONDO - Inserto del Giovedì - 17 febb raio 2011


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Inserto del Giovedì - 17 febbraio 2011

LUCIANO LANNA
IL FASCISTA LIBERTARIO

articolo di

Nicola Piras


 

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martedì 15 febbraio 2011

IL FONDO - anno III - n. 136 / 14 febbraio 2011


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anno III - n. 136 / 14 febbraio 2011


in questo numero articoli di


Roberto Alfatti Appetiti, Arba, Angela Azzaro,
Alberto B. Mariantoni, Raffaele Morani,
Antonio Pennacchi, Marco Petrelli, Miro Renzaglia,

Angelo Spaziano, Federico Zamboni

 

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martedì 8 febbraio 2011

Stefano Vaj in IL FONDO - anno III - n. 135 / 7 febbraio 2011


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anno III - n. 135 / 7 febbraio 2011


in questo numero articoli di


Arba, Angela Azzaro, Graziella Balestrieri,
Mario Bernardi Guardi, Ivo Germano, Mario Grossi,
Miro Renzaglia,
Angelo Spaziano,
Stefano Vaj, Federico Zamboni

 

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 *

PROSPETTIVE INDOEUROPEE
Stefano Vaj

Guardiamoci negli occhi. Noi siamo Iperborei [...]
Di là dal Nord, dai Ghiacci, dalla morte – la nostra vita, la nostra felicità

Friedrich Nietzsche

 

In uno dei suoi insegnamenti più importanti, Giorgio Locchi ci aiuta a pensare sino in fondo le intuizioni nietzschane riguardo al tempo della storia. Non più un fisso segmento su una linea che punta in qualche direzione, non più un tratto irrimediabilmente sbarrato alle nostre spalle su una strada cxhe staremmo percorrendo.

Per la sensibilità postmoderna, tali immagini sono false psicologicamente, filosoficamente, empiricamente. Se il passato è ciò che è esistito, non esiste più; se non esiste più, non esiste: se non esiste, non è qualcosa di cui si possa parlare. Il passato non è invece altro che una dimensione del presente, in particolare quella delle radici e della memoria, alla stessa stregua dell’attualità (dimensione dell’impegno) e dell’avvenire (dimensione del destino e del progetto); e ci parla attraverso l’immagine che ci diamo di esso attraverso i documenti, le vestigia, le testimonianze che abitano il nostro tempo.
Così come ogni altra, tale dimensione si espande. Si espande banalmente nei tempi a noi più vicini,  con l’accumularsi di nuovi eventi, di nuovi ricordi. E si espande anche nella sua estremità più lontana, mano mano che il nostro sguardo, attraverso un’indagine critica sempre più interdisciplinare, si allunga ad epoche sempre più remote e si allarga a particolari ed aspetti sempre nuovi.
Ma soprattutto viene interamente ridefinito ad ogni istante a partire dalla particolare prospettiva di ciascun presente, non solo e necessariamente attraverso la chiave della revisione («chi controlla il presente controlla il passato, chi controlla il passato controlla il futuro», potremmo dire parafrasando Orwell), ma non fosse altro che per le diverse orecchie che ascoltano una musica pure in divenire, i diversi occhi che rileggono il libro dei simboli e ne traggono premonizioni e moniti e sfide per ciò che ancora ha da essere. Anche in campo storico, quindi, “la verità non è qualcosa che esista e che si debba trovare, scoprire, ma qualcosa che si deve creare e che dà il nome ad un processo o meglio a una volontà di dominio che in sé non ha fine” (Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, §552). Visione della storia questa che è anche un progetto di Erlösung dal provvidenzialismo monoteista: «Redimere nell’uomo il passato e ricreare ogni ‘fu’ finché la volontà dica: ‘Così volli! Così vorrò’. Questo ho chiamato redenzione, solo questo ho insegnato loro a chiamare redenzione» (Così parlo Zarathustra,”Delle tavole antiche e delle nuove”).
Gli indoeuropei, come nuovo passato che continua a spalancarcisi di fronte, e che alcuni scelgono di rivendicare come proprio retaggio, ci corrono perciò incontro dal nostro avvenire. Lo fanno come origine ultima di questa medesima sensibilità che giunge a consapevole maturazione con Nietzsche, Gentile, Heidegger, Spengler e la cui essenziale inevitabilità europea, “esperiale”, a partire da Eraclito, mette bene in luce Severino, ed ancor più il suo allievo Emanuele Lago in La volontà di potenza e il passato (Bompiani, Milano 2005). E lo fanno in particolare sotto un quadruplice sigillo solstiziale................


 CONTINUA
...............
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venerdì 4 febbraio 2011

IL FONDO - Inserto del Giovedì - 3 febbr aio 2011


 

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FONDO MAGAZINE
Inserto del Giovedì - 3 febbraio 2010

BERTO RICCI
O DEL VEDERE MEGLIO, VEDERE PRIMA

articolo di

Roberto Alfatti Appetiti


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giovedì 27 gennaio 2011

All'Armi siam fumetti a Roma il 5 febbraio con Alfatti-Appetiti, Renzaglia ed altri


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ALL'ARMI SIAM FUMETTI
di Roberto Alfatti Appetiti


edito per "I libri de Il Fondo"

La presentazione avrà luogo al Caffè Letterario, Via Ostiense 95, Roma
alle ore 17,30 del 5 febbraio (vedi biglietto invito in allegato).

Interverranno:
Roberto Alfatti Appetiti, autore
Massimo Ilardi, professore di sociologia urbana presso l'Università di Camerino
Luciano Lanna, direttore responsabile del Secolo d'Italia
Me Stesso (Mino Renzaglia *)

venerdì 21 gennaio 2011

il Fondo Magazine: articolo di Alberto B. Mantovani

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Inserto del Giovedì - 20 gennaio 2011

BERLUSCONI
LA "PAGLUZZA" E I "PALI"

articolo di

Alberto B. Mariantoni

 

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martedì 18 gennaio 2011

IL FONDO MAGAZINE- anno III - n. 132 / 17 gennaio 2011

 

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anno III - n. 132 / 17 gennaio 2011


in questo numero articoli di


 Gabriele Adinolfi, Arba, Graziella Balestrieri,
Silvio Botto, Mario Grossi, Alberto B. Mariantoni, Marco Petrelli,
Miro Renzaglia,
Angelo Spaziano, Federico Zamboni

 

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 * Miro Renzaglia

L’articolo che segue è stato pubblicato venerdì scorso, 14 gennaio, sul settimanale Gli Altri.

La redazione (Fondo Magazine)

L’ALDILÀ SENZA DIO
miro renzaglia

Non ho visto il film di Clint Estwood Hereafter e, probabilmente, non andrò a vederlo. Forse è un capolavoro o forse, no: la disputa sul suo valore squisitamente cinematografico è aperta e io non mi intrometto. Ma ho letto molte recensioni meritevoli del trattamento che Nanni Moretti riserva a un noto critico nel film Caro Diario, quando va ad agitare i suoi sonni leggendogli, con cinica cattiveria, una sua recensione delirante a proposito di una pellicola coreana. Mi si obietterà: ma se non hai visto il film, come fai a giudicare le recensioni? Perché, cari miei, del film, in senso oggettivamente critico, si dice poco o niente: brevi cenni sulla trama e notiziole da comunicato stampa. Si dice molto, invece, e quasi sempre a sproposito,  dei temi che ha per contenuto: la morte, la vita dopo la morte, i possibili canali di accesso fra il nostro mondo, quello dei vivi o sedicenti tali, e l’al di là. E, allora, parliamo di questo.

Non ho visto il film – come ripeto – ma ho visto il trailer dove, fra scene di indubbio effetto spettacolare, si ascolta la domanda saliente: «Secondo te che succede quando moriamo?». Tutte le religioni, nessuna esclusa, hanno cercato di dare una risposta. Tutte valide, validissime, per chi ha fede: il Regno dei cieli, il Nirvana, il Walhalla, l’Ade… Tutte rappresentano uno sfondo immaginabile. E il problema è proprio qua: qualunque sia la rappresentazione, il risultato non può che essere umano, troppo umano. Dall’estinzione del dolore alle vallate celesti in ricompensa della nostra rettitudine terrena, fino alle fiamme dell’inferno in espiazione dei propri peccati,  non si può far altro che immaginare l’immaginabile. Eppure, per definizione, la metafisica ovvero: ciò che è al di là della fisica e delle nostre capacità sensitive di percepirla è “trascendente”. Prendiamo, per esempio, una delle prospettive più problematiche e, in qualche modo, più consolatorie che ci offre la religione cristiana: la resurrezione della carne. E’ del tutto evidente che una tale possibilità va di gran lunga oltre ogni nostra capacità di comprensione. E se provate a fare qualche obiezione a chi vi crede, tipo: a che età il nostro corpo risorgerebbe: ai nostri 10, 30 o settant’anni? e chi è nato morto? e chi ha patito sul suo corpo qualche malformazione congenita,  risorgerà con le stesse sofferenti limitazioni? e se, sì: dov’è il premio? Vi risponderà che bisogna aver fede nella parola di Dio o che questo è un mistero della fede. La fede, dunque, e solo la fede dà sostegno. Ma, considerando che la fede è un dono di Dio, chi non l’ha ricevuto che fa? Che si arrangi: il problema è suo....

C- Il Fondo Magazine n. 132

venerdì 14 gennaio 2011

IL FONDO MAGAZINE - Inserto del Giovedì - 13 gennaio 2011 con Antonio Pennacchi


 

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Inserto del Giovedì - 13 gennaio 2011


MARTIN HEIDEGGER
E I PUPAZZETTI DI PABLO ECHAURREN

articolo di

Antonio Pennacchi

 

nell'edicola di via
www.mirorenzaglia.org
 

 Dice: “Ma che significano quei pupazzetti di Echaurren?”.

Ah, e lo chiedi a me? Cosa vuoi che ne sappia io? Io di arti figurative non capisco niente. Vado solo a “mi piace” o “non mi piace” e in tutta la storia dell’arte gli unici che mi siano sempre piaciuti senza riserve – ma non ne so bene il perché – sono Hopper, Salvador Dalì e le torri di Babele dei Bruegel. Prima mi piaceva anche De Chirico – fin che lo conoscevo solo dalle riproduzioni a stampa o sopra i libri – ma quando la conoscenza s’è fatta più intima, dopo che sono andato a una mostra e ho visto i quadri veri con la pittura tutta screpolata, ho detto: “Ma vaffallippa va’, ma che si lavora così?”. Resta comunque che di arte non capisco nulla. Tra impressionismo e espressionismo – per dirne una – faccio una confusione che neanche fra tangente e cotangente quando studiavo topografia al geometri, e quella volta che mi sono dovuto fare l’Argan all’università, certi dolori di testa che nemmeno le botte della Celere. L’artrosi cervicale. Le fitte suboccipitali.

Dice: “Vabbe’, Argan scriveva un po’ difficile, diciamo così. Tu però perché ti sei accinto anche tu ad un saggio di critica d’arte? Non ti pareva un po’ azzardato, non capendoci poi molto?”. Certo, e chi ti dice di no? Tu pensa che sono pure daltonico.

Ma quelli hanno insistito, hanno detto che non gli importava: “Chi vuoi che se ne accorge? Siamo in Italia: se il figlio di Bossi fa il deputato regionale tu non puoi fare il critico d’arte? Ma scherziamo?”. E così m’hanno convinto. Hanno detto che il mio metodo – “mi piace” o “non mi piace” – è più che sufficiente. E a me Pablo Echaurren mi piace. Stop. Ho finito qua.

Dice: “Sì, vabbe’. Però a te Pablo Echaurren ti piace perché è amico tuo. Se non era amico tuo, mica ti piaceva. A fare le critiche così, sono buoni tutti a questo mondo”. No compa’, ferma. Un passo indietro.

Io conosco Pablo Echaurren dal 1973. O meglio: nel 1973 l’ho conosciuto io. Lui no, lui manco m’ha filato e se glielo chiedi adesso, nemmeno si ricorda. Me lo fece vedere Paolo Forte dentro la tipografia di Lotta Continua a Roma quando andammo a portargli i soldi delle sottoscrizioni per le armi al Mir dopo il golpe in Cile. “Quello è Pablo Echaurren”, mi fece piano piano Paolo Forte dandomi di gomito sul fianco – ahò, noi venivamo da Latina – manco fosse stato Che Guevara.

Io – sia chiaro – con Lotta Continua non avevo e non ho mai avuto niente da spartire. Quelli erano trotzkisti. Spontaneisti. Io ero uno stalinista marxista-leninista che veniva da Servire il popolo, ma mi si era già sfasciato il partito mio e adesso ero un cane sciolto – come sostanzialmente poi sono sempre rimasto – senza più catena e senza padroni (la cosa più drammatica è che ogni volta che ho tentato di rimettermela la catena, e di ricercarmi un nuovo padrone, sono sempre stati loro poi – Uil, Psi, Pci, Cgil – a tagliarmela ed a cacciarmi via: “Vaffanculova’, vaffanculo a un’altra parte”. Espulso). Comunque ero stalinista; ma senza partito, senza casa e senza famiglia e quando c’è stato il golpe in Cile non c’era nessuno con cui fare qualcosa a Latina, e allora sono andato da questi di Lotta Continua e assieme a Paolo Forte – che era il segretario – abbiamo messo su la raccolta fondi. Siamo andati in tipografia a farci fare i blocchetti per le ricevute con scritto sopra “Armi al Mir – Soccorso Rosso” e poi via in giro per tutti i professionisti progressisti ad estorcergli qualcosa....

 

FONDO MAGAZINE-  ANTONIO PENNACCHI

giovedì 13 gennaio 2011

Stefano Vaj: Manifesto Heliopolis. Postumanesimo e ultra * from Fondo Magazine

VERSO IL MANIFESTO HELIOPOLIS

Esiste uno spazio e/o un interesse per un complesso di idee che si distingua dalla vulgata contemporanea che vuole che l’”ultimo grido” in campo etico, estetico, politico, o più generalmente filosofico, sia anche il grido ultimo ed insuperabile, che cioè non può, ma soprattutto che non deve, essere superato? Il grido di una “modernità” indistinta, universale, tiepida e minimalista che del resto non fa ormai che ripetere se stessa, ossessionata da un puritanesimo la cui concitata riaffermazione stessa ricrea inevitabilmente il fantasma (ed implicitamente la possibilità) del peccato, dell’eresia, della strega…
L’amico Sandro Giovannini, non da oggi instancabile agitatore “culturale”, pensa di sì. Da qui l’idea perfettamente inattuale di un Manifesto che ignorando del tutto i vari “movimenti di truppe” che possano allineare tutti e ciascuno in vari campi per cause più quotidiane ed immediate abbia il coraggio di applicare il rigore della critica e la nostalgia dell’avvenire a fronte di un contemporaneità egemone volta a bandire l’idea stessa di cambi di paradigma, di “nuovi inizi”, di palingenesi tanto storiche quanto epistemologiche e culturali proprio nel momento in cui l’uomo, nel quadro delle proprie eredità ed appartenenze, è invece chiamato a ripensare se stesso all’atto di “ereditare la Terra” e declinare tale riflessione in scelte estremamente concrete.
Se è davvero questo ciò di cui vale la pena un po’ più spesso di parlare, tanto più sono lusingato di essere stato invitato a parteciparvi con quello che è il mio punto di vista e la mia altrettanto personale collocazione rispetto alle varie questioni destinate a determinare il nostro avvenire – o l’esistenza stessa di un avvenire purchessia – e che comandano oggi approcci largamente trasversali e complessi.

Se il progetto così mira chiaramente a mobilitare energie, prospettive ed angolature disciplinari molto differenti, ciò non è certo in una velleità di porsi “al di là della destra e della sinistra”, secondo la poca fortunata e non certo inedita formula a suo tempo fatta propria ad esempio da un Marco Tarchi. Anzi, è probabile che il concetto stesso che vada superato – come se si trattasse di categorie hegeliane munite di un qualche intrinseco status ontologico! – qualcosa che non esiste più, se non forse nella retorica linguisticamente maldestra della politica politicante, conduce forse inevitabilmente alla ricaduta in sbocchi conservatori. In particolare laddove tende ad occultare proprio il fatto che la “sinistra”, qualsiasi cosa abbia significato tale termine in passato, è stata nel frattempo completamente riassorbita dalla “destra” nel cui ambito rappresenta comitati d’affari, o nella migliore delle ipotesi sensibilità e blocchi di interessi, perfettamente funzionali allo stesso identico sistema di valori, alla medesima realtà sociale ed antropologica, al medesimo modello di (non) sviluppo.
 
continua
 
http://www.mirorenzaglia.org/?p=16564   il FONDO MAGAZINE a cura di Mino Renzaglia
 
 

martedì 11 gennaio 2011

Mino Renzaglia il Fondo Magazine n. 131 in edicola

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anno III - n. 131 / 10 gennaio 2010


in questo numero articoli di


Angela Azzaro, Graziella Balestrieri, Mario Bernardi Guardi,
Alessandro Cavallini, Mario Grossi, Alberto B. Mariantoni,
Simone Migliorato, Raffaele Morani, Miro Renzaglia,

Luca Leonello Rimbotti, Federico Zamboni

 nell'edicola di via
www.mirorenzaglia.org.

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Battisti/Berlusconi  Strane somiglianze di Mario Grossi

Quando infuria la polemica, per avere uno sguardo per quanto possibile imparziale, è bene non tanto starsene da una parte, ma piazzarcisi nel centro e osservare quello che succede. È la posizione ideale: una specie di calmo occhio del ciclone fermo, stabile, tranquillo, mentre tutto intorno ruota a velocità crescente e in maniera sempre più distruttiva. È da questa posizione che si riescono a osservare risvolti che, benché marginali, sono assai curiosi e meritano di essere registrati, perché è proprio dall’osservazione dei particolari e delle cose inutili che nascono poi riflessioni che possono aiutarci a mettere ordine nella faccenda.

Anche per il caso Battisti ho fatto lo stesso. Mi sono piazzato nel calmo occhio del ciclone, come sempre quando le situazioni mi turbano oltremisura, per trovare un rifugio, un asse al quale aggrapparmi e non farmi travolgere. Da questa posizione d’osservazione mi sono affiorate di fronte agli occhi immagini che mai a prima vista avrei pensato mi si parassero davanti. Ho osservato Battisti, o meglio ho letto il profluvio di parole spese su di lui e ho seguito, visto che è impossibile fare altrimenti data l’onnipresenza pervasiva del personaggio, Berlusconi, rilevando tra i due affinità istruttive.

Il sogno. Entrambi sono partiti da un loro personale lucido delirio che configura i loro divergenti identici sogni. Battisti, fulminato sulla via di Damasco, si è “politicizzato” in galera, in ritardo su molti altri. Più realista del re, come solo gli schiavi resi liberti sanno fare, ha vagheggiato (e vagheggia?) l’attacco allo stato borghese delle multinazionali con le armi in pugno, con la violenza. Di fronte alla violenza di stato è solo quello il modo di agire e far trionfare il proletariato. Berlusconi, è per questo (dice lui) che è sceso in campo, sogna la dissoluzione di uno stato liberticida dominato dal comunismo, in cui tutti indossano colbacchi con stella rossa, e minano i santi principi liberali. Entrambi convergono su un comune delirio, esiste un’entità oscura sovrastante che stende le sue mefitiche ombre soggiogandoci tutti e dalla quale bisogna liberarsi con qualsiasi mezzo. Chi non è d’accordo con loro è, ipso facto, alleato del “Nemico” o il “Nemico” stesso.

L’incubo. Entrambi questi sogni deliranti hanno un unico risvolto inquietante. Per tutti coloro che non condividono questi sogni, i nemici del popolo o della libertà fa lo stesso, i due sogni irreali si trasformano in altrettanti incubi reali. Il sogno di Battisti, l’avvento della dittatura del proletariato e delle sue sorti luminose e progressive, si trasforma in un incubo fatto di sangue, morte e lutto per le sue vittime che tutto sembrano tranne che agenti nemici al soldo della reazione mondiale (ma questo è irrilevante. Un agente nemico è tale proprio perché non sembra quello che realmente è). Il sogno di Berlusconi, l’avvento di uno stato liberale che affranca la sua imprenditorialità da qualsiasi vincolo, si trasforma per le sue vittime (noi tutti) in un incubo in cui tutto diventa merce, mercato, transazione commerciale, consumo. L’avvento della dittatura liberista, in cui le sue vittime sono ridotte a un’unica dimensione, quella economica. Due totalitarismi convergenti. Da un lato l’unica classe, dall’altro l’unico senso per gli uomini.

La giustizia. I loro due sogni sono ostacolati da forze oscure che gli si contrappongono e che utilizzano la giustizia e i giudici come delle armi tese a distruggerli. Un complotto reazionario per Battisti che vede in Italia un governo dominato dalla Mafia e dai fascisti (gli Urfascisti sarebbe meglio dire). Un complotto comunista per Berlusconi che considera il comunismo alla stregua di un contenitore in cui mettere tutto ciò che non gli aggrada.Entrambi, nel loro immaginario, sono innocenti e sono stati condannati solo in virtù di questi complotti convergenti, orchestrati a loro danno. I processi che gli sono stati intentati sono ovviamente etero diretti e scontati nella loro conclusione.

La strategia processuale. In questi processi, sostengono di non aver avuto la possibilità di difendersi, nonostante entrambi abbiano avuto a disposizione avvocati da loro stessi istruiti che hanno tentato tutte le vie possibili per rimandare, insabbiare, eccepire, porre dei distinguo sempre più bizantini, per deviare a loro favore (com’è peraltro legittimo) il corso dei processi. Entrambi hanno messo in piedi la stessa identica strategia processuale che prevede la presenza dei loro avvocati, quando costretti dal calendario, e la loro assenza. Battisti ha visto bene di squagliarsela, di filarsela all’inglese, scegliendo come patria d’elezione quella Francia sempre disponibile a coccolare i presunti esuli, tanto che è poi stato condannato in contumacia. Berlusconi ha brigato per farsi prescrivere i reati che gli venivano di volta in volta contestati e briga tuttora con tutti i “legittimi impedimenti” per rendersi contumace in Patria. Il dato di fondo che emerge però è che tutti e due hanno una considerazione della giustizia (in questo caso italiana, ma ci piacerebbe vederli però a confronto con altri ordinamenti) che li vede al di sopra della stessa. Loro evidentemente non si considerano cittadini come tutti ma soggetti speciali che non devono sottostargli. Non sono degli untermensch come noi tutti.

Gli amici potenti. Entrambi hanno dimostrato di sapersi muovere e di saper muovere amici assai influenti. Si atteggiano a vittime abbandonate e bersagliate da tutti ma hanno spalle copertissime e potenti. Berlusconi, che si avvale di ampia copertura mediatica e fiancheggiatrice, ha manovrato un po’ tutti, a cominciare dal potentissimo Craxi del tempo che fu. Battisti che si compiacque dell’appoggio di Mitterand e che oggi è protetto da Lula, ha infinocchiato una fitta schiera d’intellettuali francesi e nostrani, a partire da Henry Levi, che lo sostengono con un battage molto blasè ed efficace....

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