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lunedì 3 marzo 2014

Marcello Veneziani: Le buone ragioni per dirsi conservatori anche nel XXI secolo


IL GIORNALE


*" La lontananza tra Cioran e Noica (PHOTO) non è semplicemente spaziale, ma anche lessicale, una distanza sostanzialmente spirituale.  Due uomini (e non solo due) che si ritrovano nel tempo, ma non ancora nella dimensione interna.  Già l'inizio della lettera di Cioran ne è testimonianza : "...questo mondo 'meraviglioso' che, secondo voi, ho la fortuna di abitare e di esplorare. Potrei rispondervi... che questo mondo non è meraviglioso..."  Noica è in grado di percepire la bellezza sia del proprio che di "quel" mondo, perché ha radici ben salde, ha già il meraviglioso nella terra che non ha lasciato, nei luoghi e nella lingua che non ha abbandonato, lui già padrone, fin dalla giovinezza, del francese...."  Sandro Giovannini


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A usare il vecchio gergo automobilistico, i conservatori sono il freno, i progressisti l'acceleratore e i centristi la frizione. Moderata è solo l'andatura. Poi l'automatismo ha reso superflui i pedali. Ma la parabola ancora regge per far comprendere che in politica come nella vita sono necessari i conservatori quanto gl'innovatori.
Però il nostro è un Paese fermo o che gira a vuoto, con l'acceleratore a tavoletta e il freno a mano. Dinamico a parole, quietista di fatto; ossia ideologicamente progressista, praticamente stazionario. L'epiteto di «conservatore» resta tra gli insulti peggiori che si possa rivolgere a chiunque. Si sentono offesi anche gli stessi conservatori. Questo rende doppiamente meritoria l'opera di Gennaro Malgieri, Conservatori europei del Novecento, un'antologia uscita per I libri del Borghese (pagg. 265, euro 18) che raccoglie ventuno grandi conservatori di cui uno solo vivente (Roger Scruton). Nel suo bel saggio introduttivo, Malgieri offre al lettore un quadro d'insieme, ne fa la storia e la fenomenologia e giustamente definisce quella conservatrice non una ideologia ma una visione del mondo. Difficile e controversa la data di nascita. In senso lato conservatori furono anche grandi autori dell'antichità. Limitandoci alla modernità, il pensiero conservatore sorge nel day after della rivoluzione francese, con il saggio di Edmund Burke e gli aforismi di Rivarol. Sul piano storico, ha ragione Malgieri, la sua genesi ufficiale si può forse datare al 1818 con la nascita del giornale Le Conservateur di Chateaubriand. L'antefatto storico è il Congresso di Vienna, di cui quest'anno è il bicentenario, anche se per quell'evento è più giusto parlare di Restaurazione e non di Conservazione, cioè di un ritorno allo status quo ante, un ripristino e non una continuità, che è invece il perno del conservatorismo.
Grandi nomi allinea Malgieri nella sua antologia, e altri grandi se ne potrebbero aggiungere, a dimostrazione di quanto grande sia il pensiero conservatore. In Italia, si sa, non c'è mai stato un vero ed esplicito Partito Conservatore; ci andò molto vicino la Destra storica, ma il conservatore italiano ha sempre esibito l'altra carta d'identità: cattolica o nazionalista, ma a volte anche liberale o addirittura socialista. Da noi il conservatorismo è stato più una malattia degenerativa che una visione del mondo, un'indole viziosa di cui vergognarsi piuttosto che un'identità da mostrare senza complessi. Oggi il tema sembra superfluo perché l'automatismo vanifica le opzioni conservatrici e progressiste e neutralizza la politica. E poi domina lo stupido luogo comune apocalittico che non c'è niente da conservare: e allora buttatevi giù dal ponte, suggerisco. Non ha senso conservarvi in vita...Vi sono invece a mio parere quattro buone ragioni per dirsi conservatori nel corrente anno 2014, con il corrente, molto corrente premier Renzi, nel corrente degrado. Provo a dirle nel modo più semplice, come si addice ai conservatori. Per cominciare non riusciremo mai a salvaguardare l'Italia, la sua ricchezza, i suoi beni artistici e culturali se non acquisiremo la mentalità che c'è qualcosa di prezioso da conservare e proviene dal nostro passato. Si potrà mai fare vera conservazione dei beni culturali se si demonizza l'espressione conservare o la si riduce a quella chimicamente sospetta dei conservanti per gli alimenti? Se non coltivi la memoria, se non ami la tua storia, la tua tradizione, il tuo passato e le sue glorie, e le cose che esistono, non potrai mai tutelarle e valorizzarle.
Secondo tema su cui insisto è la connessione verticale. È necessario vivere connessi, ma non solo al proprio presente e non solo in latitudine, ma anche al passato e in profondità. Alla connessione orizzontale, garantita soprattutto da internet, è bene affiancare la connessione verticale, con la storia da cui proveniamo. Il conservatore fonda la sua proposta e la sua visione su un patto di sangue e di anima tra le generazioni. Non è un singolo ma un erede gravido.Terza ragione: nell'epoca del consumo rapido di vite, legami, affetti e merci, è bello scoprire la gioia delle cose durevoli, la continuità di una vita e scorgere in pieno movimento e mutamento punti fermi e riferimenti saldi, e distinguere nella provvisorietà di tutto alcuni orientamenti permanenti. Benché nemico dell'ottimismo, il conservatore non cede al catastrofismo, perché il suo sguardo lungo gli consente di dire che non andiamo né verso il migliore dei mondi possibili né verso l'ecatombe, i disagi cambiano aspetto ma ci sono sempre stati; questa non è la fine del mondo, semmai è una fine, si chiude un ciclo, un'epoca, non è l'apocalisse. Nihil sub sole novi, o meglio, in ogni mutamento ci sono analogie, ripetizioni e costanti; in ogni guadagno c'è una perdita, e viceversa.
Infine, la quarta ragione che le raccoglie tutte: il conservatore non è antagonista dei cambiamenti, dello sviluppo e della tecnica, ma vuole compensarli. Oggi più di ieri la conservazione è un principio di compensazione, non di reazione o d'opposizione alla realtà. Il conservatore bilancia la fretta con la lentezza, il globale con il locale, la tecnica con la cultura, l'artificiale con il naturale, la novità con la memoria, la mobilità con le radici. E ciò corrisponde a un'esigenza biologica perché abbiamo bisogno sia di novità e fratture che di sicurezze e persistenze. Il conservatore è realista, ha senso della misura, dei limiti e dei confini, sa che la vita inspira ed espira, ha sistole e diastole, è andata e ritorno.
Malgieri, come me, ama in particolare la rivoluzione conservatrice, non solo nel senso del movimento culturale e letterario emerso tra le due guerre, ma nel significato di coniugare la saldezza dei principi al dinamismo degli assetti, in quel punto in cui il radicato volge in radicale. Constantin Noica, nel Saggio sulla filosofia tradizionale (ETS, 2007), sostiene che il puro divenire è dissiparsi, perdersi e negare, «solo il divenire entro l'essere istituisce, edifica, afferma». Il divenire dentro il cerchio dell'essere è il senso proprio della rivoluzione conservatrice, fondata sul ritorno. Horror vacui contro cupio dissolvi. Nell'arcipelago conservatore c'è chi ha una preferenza di tipo liberale o di tipo religioso, chi è più pragmatico e chi è più orientato verso i principi metafisici. Per il conservatore la Tradizione è principio di fondazione, le tradizioni sono beni da salvaguardare, ma il tradizionalismo è sclerosi, la sua rigidità coincide col rigor mortis. La Tradizione sta al tradizionalismo come la fiamma sta alle ceneri. Il conservatore non è un imbalsamatore. Semmai un tedoforo.


**nota di RobyGuerra....

Gran articolo di Veneziani, conservatori e rivoluzionari, lo diceva anche Berlinguer potenziando sia ben chiaro e contro ogni ideologismo, quel che ha discusso Veneziani. Ma perché solo dal Novecento Malgieri cita, evidenzia un solo rivoluzionario conservatore vivente? E perché Veneziani non evidenza questo baco? Alain de Benoist che è ... un cattopaganocomunista? Oggi non esistono rivoluzionari conservatori in Italia viventi, lo stesso Veneziani ad esempio? O altri? Oppure magari questa grande letteratura diversamente rivoluzionaria e conservatrice in avanti in senso Eraclito magari o futuristico e non in banale linea retta veteroprogressista non decolla mai perché sotto sotto sempre meglio Spengler che il Futuro da scaraventare nel Reale per finalmente trasformarlo e renderlo Vivo e Sublime per la maggioranza degli esseri umani?  Poi dopo il web basta poco per farlo, almeno nella Parola...




giovedì 3 novembre 2011

Sandro Giovannini "Cioran-Noica: i due 'amici' ed il 'segretariato' "


Cioran-Noica: i due "amici" ed il "segretariato" (1)

La lontananza tra Cioran e Noica non è semplicemente spaziale, ma anche lessicale, una distanza sostanzialmente spirituale.  Due uomini (e non solo due) che si ritrovano nel tempo, ma non ancora nella dimensione interna.  Già l'inizio della lettera di Cioran ne è testimonianza : "...questo mondo 'meraviglioso' che, secondo voi, ho la fortuna di abitare e di esplorare. Potrei rispondervi... che questo mondo non è meraviglioso..." (2) 

Noica è in grado di percepire la bellezza sia del proprio che di "quel" mondo, perché ha radici ben salde, ha già il meraviglioso nella terra che non ha lasciato, nei luoghi e nella lingua che non ha abbandonato, lui già padrone, fin dalla giovinezza, del francese.  Cioran come può, invece, pur nella consapevolezza della bellezza stravolta (ma catafratta nel ricordo) del suo vecchio mondo, e nell'appercezione complessa ed irriducibile del suo nuovo mondo ("...ho un debole per l'orribilità") ormai, come persona, autoprivatasi delle radici in nome di una libertà parzializzata da ben conosciute esigenze di mercato, prendere possesso dell'eticità della bellezza?  E questa eticità è persino - per lui - ipotizzabile? 

Ma questa tensione è tuttavia intensamente vissuta o subita anche da Cioran, come lui stesso spiega all'amico lontano, rimasto in Romania.  E' vissuta nello stesso uso linguistico... parole prime pensate in un idioma misterioso per poi venire espresse in una lingua mielosa, capziosa e prepotente al tempo stesso.  Prepotente quanto il magiaro ("...del gendarme ungherese, terrore della mia infanzia...")  "possente e corrosivo, fatto per le preghiere, le urla e le lacrime...", che ricorda a Cioran le paure infantili, e, in fondo, il suo essere estremista ed assolutista, in tutte le dimensioni, ben oltre quelle isteriche-giovanili ("...la mia isteria di allora"), persino, poi, quelle della fuga, della derisione, della sprezzatura.  Una sorta di posatore mistico?  Già... come potrebbero apparire alcune sbiadite copie del cioranismo, soprattutto senza quei drammi e quelle follie... dietro le spalle... 

Lo stesso problema di linguaggio lo possiamo ritrovare in quei musicisti russi che, per fuggire alla demagogia comunista ed alla sua imperiosa richiesta espressiva, si sono visti costretti ad ottundere la loro potenza di selvaggia comunicazione con l'inquieto, rassegnato e multiforme "borghesismo occidentale".  Prepotenza e potenza in Cioran quanto, secondo altra modalità, l'estremismo linguistico di Noica, legato alla sua tradizione fonetica, che traborda dal parlato, al pensato, allo scritto, al letto e vissuto.  Vissuto da "scita" - ma potremmo sottolineare l'uso romano, addirittura giulianeo, di tale termine, cadendo tale utilizzo in una sorta d'autorappresentazione piena anche se orientale della cittadinanza tardoimperiale - non da "poeta celta di lingua romanza", nella consapevolezza comune della mortalità protratta (ma forse irriducibile) dei popoli schiacciati dall'imperialismo. 

Oggi spesso si pensa che questi timori non esistano più, per un'assuefazione globalista, che mentre ci sbatacchia irosi sui superficiali gorghi nevrotici ci ottunde irresponsabilmente per le profonde correnti di tempesta...  Così mentre l'antagonismo bipolare russo-americano permetteva, paradossalmente, un residuo di salvaguardia delle diversità, pur in una dolente e catafratta dialettica, il conflitto dei due assi è trabordato in quello social-spirituale tra l'omologazione liberal-capitalista nell'intolleranza omologata e più o meno plebea di ciò che si voleva - a ragione od a torto - proletario, ed il supponibile aristocraticismo residuale identitario (ma forse anch'esso irriducibile), non caricaturale o folkloristico, ma di matrice tradizionale. 

Tutto questo sotto lo sguardo sfrontato e rapace del principio consumista basato sull'indebitamento indotto e progressivo che crea dipendenze, di vario segno, moltiplicate ad arte.  A ciò s'oppone la potenza linguistica nell'attaccamento alla propria tradizione, che non è evidentemente un atteggiamento letterario ed ha un portato amplissimo, in una condivisione d'immagini visionarie e posture di pensiero.  E'la forza espressiva, distruttrice, salvifica e ricreatrice di Noica.  Il suo essere "ahoretico" (3) ha nella lingua il suo punto critico.  Si comprende benissimo quanta determinazione usi il filosofo nella difesa del suo idioma e quanto sia spinto il suo amore per la terra ed i frutti materiali e spirituali da questa prodotti e quanta persona si concentri nel coltivare la radice del proprio essere. 

Ed è la radice di tutti noi che siamo "immersi (volenti o nolenti) nell'Occidente".  Perché la terra di Noica è l'Europa, la culla della civiltà: "...in tutto questo c'è l'Europa, le cose ci appaiono semplicemente come le briciole di un banchetto...  Gli ideali di liberazione dei popoli di colore sono semplici echi del pathos europeo della libertà; l'umanesimo orientale è una mera replica, il loro Materialismo è una tecnica presa in prestito: e questo stesso comunismo... che misero rimasuglio rispetto al festino di Hegel e della cultura occidentale"!  E se tutti questi sono i resti, il cuore dov'è?..." (pag.54) 

Il cuore è l'Europa.  La cultura europea "vaga un po' dovunque su questa terra" e lo spirito dell'Europa è il suo restare attaccato alla lingua, il suo restare fedele alle origini.  E' la consapevolezza, mistica, che senza queste radici nessuno spirito potrà mai realizzarsi e "spiccare il salto nel nulla interplanetario del buon Dio". (pag.54)  Questo permette realmente il nuovo sulla base certa.  Ma non è solo questo, cioè solo saldezza interiore... ma capacità di dare senza pontificare, ragionando, esprimendo partecipazione reale ed offerta sul solo piano di verità che conti: la qualità dell'offrire e del ricevere. 

Noica nella sua risposta a Cioran dà compiutezza al suo ruolo paidetico.  Lo stesso ruolo che lo aveva aiutato a superare il periodo del carcere, quello dello sviluppo del "segretariato", "...dove i suoi allievi sono un contadino, un atleta ed un ingegnere..."  e che continua a Paltinis ove s'era ritirato dal 1975, divenuto poi il centro dell'insegnamento di Noica "l'ultimo grande metafisico del secolo".  Il segretariato prende spunto verbale dalla nomenclatura comunista prima, bolscevica poi, burocratica infine, nella progressione storicamente attuatasi dell'Urss e dei suoi satelliti.  Ma in Noica vi è una daimonica capacità d'utilizzare molti termini della comunicazione obbligata dalla dittatura e dalla sua forma mentis, per svelarne le componenti più profonde, "aliene" e necessariamente deviate, rimettendole così in un proprio codice linguistico prima, paidetico poi, mediante l'inusuale carisma di magistero. 

Al di là della geniale operazione linguistica, ciò si determina in una compiuta soluzione filosofica.  Due plessi storici del materialismo scientifico, come dialettica e segretariato, si rivelano quindi come nodi gordiani che il pensatore ardisce sciogliere e non tagliare, com'è invalso ormai per lo più dalla caduta del muro...   Nel segretariato ritroviamo un codice d'onore del servizio aconfessionale alla verità ed alla giustizia, compiuto nel crisma di una stoa, né misantropa né flagellante.  In Noica, con uno stile di simpatia istintualmente aristocratica, si rompe ogni schema di "pietismo stoico".  Quel lato pur nobilmente autopunitivo e drammatico del moralismo filosofico tipico dello stoicismo, pur nelle sue notevoli varianti e prossimo nelle scelte sublimi ad un sprezzare di sé e dell'altro e nella vulgata ad una sclerosi piagnona ed ottusamente conservativa, si presenta nella sua risolta immagine di "idea" platonica, depurata da ogni cascame moralistico. 

E così, tale versione testimoniata da Noica, ci appare molto più tradizionalmente centrata che infinite diatribe pseudotecniche tra escatologici ed apocalittici, tra carismatici ed iniziandi vari... sul tema.  La gioia vera di un'amicizia, di un servizio che abbia il suo solo ed ineliminabile fulcro nella ricerca della verità, comprese tutte le possibili poste giocate nel secolo dall'interno della personalità e dall'esterno del mondo così com'è... senza infingimenti... con ogni possibile estrema riserva, (perché sempre comunque operata anche nelle peggiori evenienze) dell'ironia e con la saldezza dettata dalla serietà disarmante di una lucidità giocosa e profetica. 



Note:
1) Emil M. Cioran - Constantin Noica, L'amico lontano, Il Mulino, 1993.  Cfr.: anche i miei "Eliade, Cioran, Noica - Un'approssimazione alla lettura socio-letteraria del fenomeno" in S. G., L'armonioso fine, SEB, 2005, pag.117; "Sottigliezza narrativa e spirito, alcune note su Noica", ibidem, pag.259; ed ancora S. G., "Il Grande Gioco di Noica", in questo stesso testo.
2) L'amico... cit., pag. 27.
3) C. Noica, Sei malattie dello spirito contemporaneo, Il Mulino, 1993, pag.111 "...L'ahoretia designa il rifiuto, oppure la rinuncia, più attenuata o più categorica, ad avere degli horoi, delle determinazioni."  Noica stesso esegue - se pur in terza persona - la sua "cartella clinica": "...Dopo aver presentato l'ahoretia tanto attraverso casi generali quanto, eccezionalmente, attraverso un caso individuale, la sua descrizione riassuntiva è semplice: è la malattia nata da un rapimento spirituale o intellettuale, che porta ad una brusca illuminazione o lucidità di coscienza, la quale fa sì che il soggetto si vieti la partecipazione, domini le sue determinazioni, veda il positivo del non-atto e del negativo, accettando la sconfitta, assimilandola ed imboccando la strada dell'indifferenza..." (ibid.: pag. 134)  E' questo l'atteggiamento ed il filo conduttore del libro, che tradisce lo spirito dell'autore o meglio svela la strada che Noica ha imboccato non solo per sopravvivere al regime comunista, ma avendo trovato quello che definisce sostanzialmente come uno stato di perfezione: "...Ora sei uscito da sotto la tutela della specie, della società, come pure dalle tue vane aspirazioni o ambizioni, e sei finalmente uomo, un uomo libero, soggetto umano, e non essere manovrato da tutti gli altri: Non vivi più neppure con vane speranze - che accada qualcosa, che il mondo ruoti di 180°, che scenda su di te chissà quale investitura o felicità - non vivi più con 'ce sȃle espoir', come diceva uno scrittore francese.  Non puoi più aspettare, rinviare, sperare nulla. Ma essendo così, è la sola cosa in cui non vivi più in sospensione..."  (ibid.: pag.132).  Strada che Marco Cugno ci presenta, appunto, nell'Introduzione a "Sei malattie dello spirito contemporaneo" prendendo spunto dal testamento politico di Steinhardt e dalle tre soluzioni di costui "per uscire da un universo concentrazionario" e affermando: "...La 'via' scelta da Noica rientra tra le tre soluzioni indicate nel Testamento di Steinhardt come le sole mondanamente possibili oppure prefigura un'ulteriore possibilità?  Sarei propenso a credere che ci troviamo di fronte ad una 'quarta via', non molto dissimile, per altro, da quella 'mistica' di Steinhardt, di cui potrebbe rappresentare il correlativo sul piano laico, 'mondano'...".  Potremmo quindi chiamare la via di Noica una via stoica, vista l'affinità fra il misticismo cristiano e quello stoico.  Dice Noica:"Gli stoici mantenevano ancora una forma di ritiro 'nel' mondo, sostenendo il ruolo che era stato loro affidato 'da colui che allestisce il dramma'.  Ora, con gli asceti, il rifiuto è anche esteriore, l'ahoretia diventa assoluta, e se all'interno persistono determinazioni coscienti, anzi vere e proprie lotte contro le inquietudini del proprio spirito o contro le tentazioni dell'Altro, tutto ciò che avviene nelle loro anime mira ad una forma di pienezza che porta, al limite, alla totale abolizione delle determinazioni, mediante la fusione della natura generale e mediante l'estasi." (ibid.: pag. 115).  Ovviamente questa affinità che Noica raffronta alla propria, trovando momenti di forte coincidenza ed anche elementi di differenziazione su cui non spinge a fondo l'acceleratore, come potrebbe, è qui, da noi, solo delineata, perché vi sarebbe molto da dire e soprattutto ancora da investigare, sul processo di cosciente interiore sdoppiamento che porta un atteggiamento stoico, storico o contemporaneo che fosse o che sia, alla doppia anima di tipo benniano, jüngeriano, borgesiano e di tanti altri grandi (cfr.: il mio "Ricercare le due anime, anima-spada ed anima-libro" in questo stesso testo) ed in sostanza a quella duplice disposizione di presenza/assenza, di weiwuwei che innerva tutta la misteriosofia operativa anticoccidentale ed estremorientale...  Attorno a ciò vi è comunque una postura dello spirito in Noica, quella da lui - in qualità di buon sistematico - definita ahoretia, ma che noi - in ben più prosaiche temperie - possiamo appercepire in una dimensione onnicomprensiva od appunto adeterminata, ed è la medesima che su un orizzonte più ampio lo ha spinto a scolpire la mai abbastanza genialmente appresa e recepita formula dell'universale attraverso l'idiomatico.  Per questo dopo aver pagato con la carcerazione le letture ed i dialoghi comunitari sugli scritti di Cioran e che gli fa - senza mai citare tali spiacevoli conseguenze - rispondere all'amico francesizzato, (determinazione paidetica del tutto consciamente assente in Cioran, che anzi si compiace di scioccare salottieramente il borghesismo, e non solo, con la sua meravigliosamente folle - da lui stesso dichiarata tale - tirata contro l'indebolimento e l'imbonimento) formula e squaderna organicamente e pianamente il concetto di segretariato, assimilandolo dal socialismo reale e praticandolo persino in carcere, con quelli che partecipavano (a perdere!?) con lui alla disavventura concentrazionaria, certo più legati alla presentità del tempo e certamente meno capaci di disindividualizzazione ed in ciò molto più (ma - a contrariis - è sommo artificio letterario e tradizionale dell'autore di Pregate per il fratello Alessandro) "simpatici, naturali, comprensibili, umani"...

*Sandro Giovannini