Miro Renzaglia: IL FONDO - anno III - n. 144 / 11 aprile 2011


 


anno III - n. 144 / 11 marzo 2011


in questo numero articoli di


 Roberto Alfatti Appetiti, Giorgio Ballario, Andrea Colombo,
Mario Grossi, Alberto B. Mariantoni, Simone Migliorato,
Raffaele Morani, Miro Renzaglia,
Federico Zamboni

 

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www.mirorenzaglia.org


 

Roberto Alfatti Appetiti
Fumett’Altro. Jean-Marc Reiser, il libertario
Il prossimo 13 aprile Jean Marc Reiser (nato a Réhon nel 1941) avrebbe festeggiato settant’anni e invece se n’andato da un pezzo: il 5 novembre del 1983, a soli quarantadue anni. Pochi ma intensi, gran parte dei quali spesi a combattere ogni conformismo sociale a suon di vignette. Aveva iniziato a seminarne sin da ragazzino, ovunque fossero disponibili a pubblicargliene.
Meno che ventenne, nel settembre 1960, è tra i fondatori di “Hara-Kiri”, la rivista satirica diretta da Georges Bernies, alias professore Choron, con François Cavanna caporedattore. Accanto a lui si formerà una squadra formidabile: autori come Gébe, Cabu, Wolinski e Fred. Il giornale si autodefinisce «stupido e cattivo» e non c’è motivo per non credergli, visto che la magistratura ne interdirà più volte le pubblicazioni. Nel novembre del 1970, toccherà direttamente al ministro dell’interno bloccarne la distribuzione: la morte del generale Charles de Gaulle, per usare un eufemismo, era stata “salutata” senza il necessario rispetto. Divieto che sarà aggirato cambiando una volta di più nome alle pubblicazioni delle Editions du Square: nasce così “Charlie Hebdo”, il settimanale corsaro di tradizione libertaria che non fa sconti né alla destra né alla sinistra.
Libertario per vocazione è stato Reiser, definito il disegnatore più irriverente di Francia, perché in vita non s’è mai preoccupato di compiacere alcuno. Al contrario: con la sua matita si divertiva a spogliare chicchessia dagli abiti di circostanza, senza sudditanze. Che si trattasse di “nemici” forti e ben riconoscibili, come la Chiesa, o più sottili e ben nascosti tra le pieghe della quotidianità – la solitudine, l’incomunicabilità, l’ipocrisia della società contemporanea – non faceva differenza. La politica, con i suoi rituali, immobile nel suo linguaggio enfatico quanto stereotipato, non veniva certo risparmiata. E non c’è stata moda che Reiser non si sia affrettato a demolire, smantellandone i luoghi comuni e gli artifici retorico-ideologici: dal nascente femminismo al suo opposto esatto e contrario, il maschilismo.
Paradossale che un maestro come lui sia pressoché sconosciuto da noi, soprattutto tra i più giovani, malgrado abbia disegnato tra l’altro il poster de La grande abbuffata, il film diretto da Marco Ferreri nel 1973, feroce j’accuse alla società dei consumi. Una lacuna difficilmente colmabile, almeno finché qualche editore non si deciderà a ristamparne i libri, ormai introvabili. Per rimediarne qualcuno, non rimane che affidarsi a ebay e magari imbattersi in quelli editi prima della morte – Storie di ricchi e poveri (Edizioni Della Vetra, 1972) e Vita all’aria aperta (Milano Libri, 1974) – o dopo, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta: Le orecchie rosse, Le amiche, Contronatura e Mio papà (Rizzoli Milano Libri). Se poi siete particolarmente fortunati potreste procurarvi la raccolta de Il porcone, edita sempre dalla Milano Libri nel 1986, un quarto di secolo fa. Nel nostro paese questa serie provocatoria – creata e disegnata da Reiser – venne pubblicata originariamente da Linus negli anni Settanta.
Il protagonista, che dà il nome alla saga, è un ultraquarantenne a dir poco trasandato, sporco, puzzolente, perennemente con la barba incolta e in mutande (rigorosamente macchiate) e immancabilmente con un testicolo penzoloni. Un depravato, senza dubbio. Senza arte né parte, né Chiesa né partito, né etica né morale. Indifferente al giudizio altrui come alle sorti del mondo. Privo di scrupoli come anche di ideali. Potremmo definirlo un Andy Capp all’ultimo stadio o, meglio ancora, un cugino di Henry Chinasky, l’antieroe/alter ego di Charles Bukowski. Sì, perché il Porcone non ha nulla da “invidiare” al “vecchio porco” di bukowskiana memoria.......CONTINUA
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