Evviva il postcompagno Matteo Renzi sindaco di Firenze


C’è una sinistra che piace a chi deve batterla, una sinistra incarnata da Rosy Bindi e Dario Franceschini: faziosa e antiberlusconiana, predisposta a perdere o a esplodere subito dopo un’eventuale vittoria elettorale. C’è, poi, una sinistra di cui l’Italia avrebbe bisogno: riformista, concreta, pronta a parlare con gli elettori più che con le segreterie delle sue mille componenti. Una sinistra che sempre di più ha il volto di Matteo Renzi, sindaco di Firenze. Una sinistra ancora isolata e largamente minoritaria. 
Quando leggo (in un’intervista al Sole 24 Ore) che non cede alla demagogia sulla crisi libica, che non s’accomoda alle solite menate propagandistiche, ma si associa alla richiesta di chiedere un coinvolgimento di tutta l’Europa, rizzo le orecchie. Quando afferma che il debito pubblico va ridotto comprimendo la spesa e non aumentando le tasse, restando esclusa la patrimoniale di cui una certa sinistra s’è invaghita, plaudo convinto. Aggiungete che chiede l’abolizione del valore legale del titolo di studio, antico cavallo di battaglia liberale, in modo da rendere migliore anche la scuola pubblica. E considerate che ha il coraggio di dire quel che noi ripetiamo da tempo: i sindacati italiani non rappresentano più i lavoratori, ma prevalentemente i pensionati, giungendo a sostenere che anche le camere di commercio non si sa più cosa ci stiano a fare. Tutte cose che, fin qui, scrivevamo solitari e irrisi, da destra considerati degli illusi rompiscatole e da sinistra dei nemici del popolo. Sicché, senza ironia alcuna, mi lancio in un: evviva il compagno Renzi.
Come si fa, però, a trasformare un “rottamatore” (così detto per la volontà di mandare a casa la vecchia classe dirigente della sinistra) in un leader capace di cambiare il corso delle cose, sia che vinca e sia che perda le elezioni? Servono due ingredienti: il partito e la legge elettorale.
Il partito è indispensabile perché solo dentro quegli organismi possono emergere i Tony Blair, perché solo l’accumularsi delle sconfitte induce a cambiare passo, stile e faccia. Se, invece, si chiamano “partiti” dei corpi vuoti di popolo e di militanti, ove sopravvivono solo gruppi dirigenti autereferenziali, soddisfatti di sé sia che si vinca e sia che si perda (anzi, la sconfitta è più comoda perché consente di non fare i conti con la realtà e di dare la colpa agli altri), il rinnovamento diventa impossibile. Per la semplice ragione che si cancella il futuro e si galleggia nel presente.
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