Bifo: D'Annunzio e i futuristi doc di sinistra?


Bifo su D’Annunzio
Data: Tuesday, February 13 @ 22:06:00 CET
Argomento: Storie


Gabriele D'AnnunzioD’Annunzio, il linguaggio simbolista
tra eroismo e pubblicità

di Franco Berardi

L’eredità controversa del vate interventista: insieme a Marinetti liberò la parola dalla sua funzione denotativa a favore della pura sonorità. Un passaggio decisivo che aprì le porte al futurismo anticipando lo stile televisivo




Negli anni del primo dopoguerra uomini come D’Annunzio, Marinetti e lo stesso Mussolini sperimentarono tecniche linguistiche e spettacolari che nei decenni successivi si sono riproposte nel linguaggio della pubblicità. Il rapporto tra futurismo e pubblicità è stato studiato (vedi ad esempio li libro di Claudia Salaris Futurismo e pubblicità, Lupetti edizioni, 1986, pp. 190, euro 38, 73).
Meno studiato è il rapporto tra simbolismo dannunziano e linguaggio pubblicitario e politico dell’era televisiva. Il giudizio sulla genialità linguistica sperimentale del simbolismo dannunziano e del futurismo marinettiano va separato dagli esiti politici che ne sortirono, anche se l’avanguardia italiana - a differenza di altre avanguardie, come il Dadaismo o il Surrealismo - non conobbe l’ironia e si prese retoricamente sul serio scambiando i propri esperimenti linguistici per affermazioni propagandistiche.

Dicono i cronisti che il 20 aprile del 1919, durante i colloqui di Versailles in cui le potenze vincitrici stabilivano l’ordine postbellico, il rappresentante italiano, Vittorio Orlando si mise a piangere lasciando esterrefatti gli interlocutori britannici. La delegazione italiana voleva ottenere territori della costa adriatica jugoslava, ma le potenze dell’Intesa la trattarono con sufficienza e disprezzo. La partecipazione italiana alla guerra era stata marginale quanto ambigua, e già a quel tempo il valore militare degli italiani era oggetto del ridicolo universale. Per quel che mi riguarda l’unico tratto simpatico del carattere nazionale (ammesso che esista una cosa di questo genere, e io penso di no) è la vocazione a mettere il piacere, o almeno la sopravvivenza al di sopra del dovere guerresco e nazionale, il rifiuto di mettere a rischio la vita per ideali del cazzo o per interessi aggressivi.

«Italia mia benché il parlar sia indarno/ Alle piaghe mortali/ che nel bel corpo tuo sì spesse veggio» dice Petrarca, continuando una identificazione femminile e sofferta che già troviamo in Dante. Quello della indolenza femminile italiana è uno stereotipo che ha radici profonde e durature. Il povero Vittorio Orlando che piange in un congresso internazionale potrebbe anche essermi simpatico, se non fosse che il motivo delle sue lacrime è la frustrazione dell’arrogante codardo che non riesce a mettere le mani sulla preda perché prepotenti più prepotenti di lui glielo impediscono. Il nazionalismo italiano è caricaturale, anche se feroce. E’ forse da intendersi come proiezione della paura maschile di fare i conti con la femminilità iscritta nella nostra storia culturale. E’ un nazionalismo arrogante e codardo, come dimostrano innumerevoli episodi, e più di ogni altro l’entrata in guerra del 10 giugno 1940, quando Mussolini bisognoso di qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo delle trattative, aggredì la Francia ormai occupata dai tedeschi convinto di far bella figura con l’alleato nazista ormai evidentemente vittorioso.

Nella sua storia moderna l’Italia non ha mai vinto niente, se non il campionato di calcio. E questo, sia ben chiaro, rende gli italiani simpatici. Salvo quando pretendono (con sublime mancanza di ironia) che iddio ha creato la vittoria schiava di Roma, perché allora, pur facendo ridere, fanno anche un po’ pena e molta paura.

Gabriele D’Annunzio è un esempio (forse più consapevole di quanto appaia dalle sue dichiarazioni) di questa ambiguità del nazionalismo italiano.

Difficile un giudizio sull’ambiguo sovrapporsi di due aspetti tra loro assai distanti: la raffinata svenevolezza simbolista e i contenuti ridicolmente retorici della sua gesticolazione nazionalista. D’Annunzio è quel coglione che si atteggia a conduttore di folle verso l’eroica impresa, o è piuttosto il sapiente costruttore di ironiche mitologie sensuali? L’uno e l’altro naturalmente. Il simbolismo, di cui D’Annunzio è un epigono (seppur geniale), costituisce un passaggio decisivo nell’evoluzione della poesia europea, ma più profondamente direi nell’evoluzione del linguaggio moderno.

Il nucleo di questa poetica sta nella piena consapevolezza del carattere evocativo della parola depurata della sua funzione denotativa e riproposta come pura sonorità. Il culto della sonorità non è segno di un formalismo superficiale, ma anticipazione di una potenza nuova del linguaggio: una potenza che la pubblicità saprà valorizzare, la potenza che produce effetti a-significanti, effetti puramente emozionali.

Il simbolismo emancipa la parola poetica da ogni funzione rappresentativa, per attribuirle una funzione evocativa. In questo modo apre la strada al futurismo. Liberata la parola dalla sua funzione denotativa, la sonorità si fa evocazione di mondi, e nel futurismo diviene parola pubblicitaria, produzione di effetti politici, economici, commerciali. Simbolismo dannunziano e futurismo marinettiano portano l’attenzione della poesia (parola svincolata dalla referenzialità) verso un tema che sarà essenziale nel linguaggio pubblico del Novecento: il rapporto tra dimensione materica (sonorità, graficismo) ed effetto (consenso politico, persuasione pubblicitaria).

Da questo punto di vista D’annunzio e Marinetti furono due straordinari innovatori a prescindere dal contenuto politico di quello che dissero, che non si può giudicare in base a quel che noi oggi sappiamo del fascismo e del risibile (seppur tragico) nazionalismo italiano del Novecento.


Liberazione, 04-Agosto-2006






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