Alessandro Amaducci… “Fermo restando che per molti il termine video art è oramai invecchiato, sono uno fra quelli che continua ad usarlo più che altro per comodità, per intendere un’area di sperimentazione audiovisiva che ruota intorno alle tecnologie digitali e che si esprime in vari modi: dal video, al videoclip musicale, al cinema digitale, alla videoinstallazione, alle scenografie per la danza, il teatro o la musica, alle performance multimediali, al live, allo urban screening, ecc. E poi c’è il web, ovviamente.
Questo elenco dovrebbe dare già un’idea di quello che per me in questo momento è la videoarte digitale: una forma possibile di linguaggio (e non più un genere) che filtra per osmosi in diversi settori. Con questo non voglio difendere ad oltranza l’idea della trasversalità a scapito di una possibile specificità. Secondo me il linguaggio digitale ha delle sue caratteristiche peculiari che lo rendono un “oggetto” specifico che può essere analizzato autonomamente, ma contemporaneamente sono convinto che, ora più che mai, una delle caratteristiche più evidenti del linguaggio digitale è la sua capacità mimetizzante, per cui questa tecnologia si può “insinuare”, cammuffandosi di volta in volta in qualche cosa di diverso, dentro una pluralità di linguaggi differenti.
C’è stato un momento, nella storia del cinema ad effetti speciali ad esempio, in cui l’ostentazione del digitale era una scelta quasi necessaria, ora spesso il digitale c’è ma non si vede, e se viene mostrato è per evidenziare una determinata scelta di stile, di “pasta grafica”, al di là dell’ossessione fotorealistica che per un certo periodo ha dominato una certa estetica digitale.
Per quello che riguarda il video, un esempio può essere il fatto che grazie al digitale è ri-nata un’idea di animazione che si può squadernare in possibilità veramente variegate: dalla computer grafica 3D (che è uno degli specifici di questo mezzo), all’animazione bidimensionale, al collage in movimento, alla grafica astratta, insomma tutte quelle forme di animazione che simulano tecniche “antiche” attraverso le nuove tecnologie.
È la prima volta che un mezzo, oltre a simulare a modo suo la realtà, può simulare i linguaggi e gli stili del passato in maniera così precisa, lasciando, contemporaneamente, un raggio d’azione personale molto ampio all’utente. C’è sicuramente il rischio di essere schiacciati dalla mole di possibilità del database del digitale, del già-fatto, del plug-in, ecc.
L’appiattimento è uno dei rischi di questa tecnologia che credo vada percorso fino in fondo per trovare soluzioni creative che aprano l’orizzonte a scenari e immaginari originali, autonomi, che suscitino emozioni, che lavorino sulla contraddizione, che creino mondi altri, che siano in bilico sull’abisso, insomma.
Il digitale costruisce, questo è uno degli elementi che più mi affascina di questa tecnologia, declinata nel più ampio modo possibile”.
Amaducci: informatica e robot liberatori o macchine disumanizzanti?
Alessandro Amaducci…. “Applico questa domanda ai corpi digitali che spesso fanno capolino nei miei video, e più in generale alla questione della simulazione del corpo-attore-performer. Io credo ancora all’espressionismo, e al simbolismo, in due parole, al fatto che la finzione e l’artificialità vada ricercata e “messa in scena” per quello che è, cioè qualcosa di visibilmente artificiale, il che non vuol dire che sia automaticamente falsa. Semplicemente, rimanda ad altro.
Quindi, per quello che riguarda i corpi artificiali di Final Fantasy o quelli dei film di Robert Zemeckis, posso dire che la qualità che più mi interessa è che non riescono ad essere dei corpi, ma assurgono al ruolo di splendidi automi perfetti. Marionette con una strana vita artificiale: mezzi vivi e mezzi morti, dei morti viventi, degli zombie, dei ritornanti. Adoro le bambole di Hans Bellmer, mi piace il teatro di marionette, e sono convinto che qualsiasi oggetto tridimensionale che ha l’ambizione di simulare realisticamente cose e persone diventa automaticamente un feticcio, quindi un elemento dalla forte carica simbolica, che scava solchi profondi non solo nella nostra percezione ma nella caverna del nostro inconscio.
Onestamente non so se la disumanizzazione, come qualsiasi processo rivoluzionario (in positivo e in negativo), possa essere liberatoria, ma sono sicuro che in quest’epoca così “numerica” mai come adesso stiamo facendo i conti con il nostro corpo, e soprattutto con la sua immagine. Onestamente, trovo più disumanizzati certi profili presenti nei social network piuttosto che un robot.
La pornografia “ufficiale” contemporanea presenta dei corpi e delle performance disumanizzate, standardizzate. La pornografia amatoriale sempre più simula quella ufficiale. Quelli non sono di certo robot liberatori. C’è, per quello che riguarda l’immagine del corpo e le sue figure (o le sue “persone”, per dirla alla Camille Paglia) il desiderio di conformarsi a degli stilemi e modelli che provengono dal mondo dello spettacolo, e sempre i social network sono un esempio straordinario di come i comportamenti sociali ambiscano sempre di più a diventare uno “spettacolo” con un suo pubblico invisibile che pubblicamente gradisce o no. Ci si mette sempre di più in scena, a favore di camera. Fiction network. Immagini di visi, immagini di corpi, immagini di comportamenti: immaginari.
Non sto dicendo che questo processo sia negativo o positivo: c’è una trasformazione in atto che dimostra che sicuramente stiamo vivendo un problema di identità. E in tutto questo l’immagine del corpo e dell’automa sono protagonisti. Vogliamo essere visti, in alcuni casi guardati. E vogliamo guardare, ovviamente.
Io difendo la mutazione. Forse sono ancora figlio dell’estetica cyberpunk ma credo che la combinazione, e non l’adeguamento, possa essere una possibilità (alchemicamente) creativa. Se esistono macchine del desiderio, e se esiste ancora il desiderio, perché no? Come al solito, Duchamp aveva la vista lunga”.
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SUPEREVA CONTROCULTURA
Roby Guerra