Lui lo chiama il suo accento del "Mezzogiorno meno un quarto".
Lo ritrovo al Coach and Horses, un pub del West-End che e' il suo quartier generale, e Derek Raymond non e' cambiato: e' la solita figura di eterno giovanotto dinoccolato, qualcosa tra un trampoliere e un uccello notturno. E sempre, come parte essenziale di questa goffaggine, di questa lunga e strana carcassa, come un'anima, un motore e la sua scintilla, il gusto della vita, il cuore in mano. Nato il 12 giugno 1931 in Baker Street, a qualche passo dalla casa del vecchio Holmes, Derek Raymond s'impone oggi come uno degli scrittori di romanzi neri piu' originali del nostro tempo. Uno dei piu' forti, come si direbbe per un liquore, da Raymond Chandler, Jim Thompson, David Goodis: leggere "Il mio nome era Dora Suarez" lascia fulminati, stende al tappeto. Baudelaire - che Raymond conosce a menadito - scommetteva sulla metafisica del dandismo; se si dovesse scommettere su una metafisica del poliziesco, Raymond avrebbe tutte le caratteristiche del cavallo vincente. Di corse, il suo "gusto della strada" gliene ha fatte fare parecchie. Quindici romanzi alle spalle, cinque matrimoni e ogni tipo di mestiere in ogni tipo di paese, Mosca, l'Algeria... Soho l'ha conosciuto come prestanome per i piu' grossi delinquenti degli anni Sessanta. In Spagna, sotto Franco, c'e' stato il traffico delle auto d'occasione. La Toscana l'ha visto vignaiolo. La Francia, operaio agricolo dalle parti di Millau. E durante tutte le sue varie metamorfosi, Derek Raymond scriveva. Senza successo. A Parigi, Marcel Duhamel aveva ancora in mano il destino della Serie Noire. Un romanzo di Raymond, "The crust on its upper", gli passo' per le mani e lo colpi', lo tradusse lui stesso con il titolo "Cre'me anglaise", e cosi' inizio'...
A.L.: Qui a Londra, dove ha ottenuto una certa notorieta', si parla ancora di lei sulla stampa come Derek Raymond, mentre in Francia tutti la conoscono come Robin Cook. Perche'?
D.R.: E' che non sono l'unico autore di romanzi polizieschi a chiamarsi Robin Cook. Ce n'e' un altro, un americano. A un certo punto - era parecchio che non scrivevo - il mio editore mi ha spinto a usare uno pseudonimo. E ho scelto i nomi dei miei due migliori amici, Derek e Raymond, che purtroppo oggi sono morti.
A.L.: L'altro Robin Cook, "di formazione medica" secondo le quarte pagine di copertina, e' un autore di thriller medici che vanno piuttosto bene. Ha letto qualcuno dei suoi libri?
D.R.: Si', uno solo. So che vende molto negli aeroporti. Non ricordo il titolo che ho letto. Mi ricordo soprattutto dell'amica che me l'ha dato dicendo: "Ecco quello che dovresti scrivere, ecco un vero scrittore"...
A.L.: Lei non ha una natura particolarmente espansiva. Come le e' venuta l'idea di scrivere un libro di memorie?
D.R.: A me da solo quell'idea non sarebbe mai venuta. All'inizio e' stato su richiesta di un editore parigino molto corretto, ma che ha finito per rifiutarlo. Erano cinque anni fa, all'epoca in cui li' a Bourg, a casa mia nell'Aveyron, stavo terminando "Il mio nome era Dora Suarez". Quando ho presentato il manoscritto, l'hanno trovato, come dire, non abbastanza... aneddotico. Credo che si aspettassero da me una maggior quantita' di storie personali, con nomi di persone famose, di scrittori - come se ne conoscessi! -, delle cose divertenti sulla mia vita, sul quotidiano, e forse meno riflessioni sulla scrittura, sul mio lavoro di scrittore, qualcosa di veramente "duro" insomma, ma da non trascurare se si vuole andare avanti... Io avevo preso la cosa molto seriamente. Un altro editore, Rivages, l'ha accettato senza chiedermi di cambiare nemmeno una virgola.
A.L.: Questo "percorso", appunto, si scopre anche, in "The Hidden Files" (di prossima pubblicazione presso Meridiano zero N.d.T.), un destino poco banale. Tutto inizia con una scenografia da Piccolo Lord, i college, Eton, la governante, dei domestici, un castello, per poi precipitare, come dice lei, "nella strada", ma deliberatamente. La sua infanzia com'e' stata?
D.R.: Torbida. Per la mia famiglia contavano solo gli affari, le assicurazioni, il tessile su cui si basava la loro fortuna, e il castello di Roydon, a cinquanta chilometri da Londra. La letteratura non li interessava minimamente, a parte qualche classico. O Dickens, di cui non capivano niente. La mia infanzia, a dire il vero, assomiglia un po' a quella che Sartre descrive in "Infanzia di un capo". Con la differenza che per me, dall'eta' di sette, otto anni, era gia' tutto finito, e mi sono detto: qui c'e' qualcosa che non va... Io sono nato nel '31, in piena recessione, c'era il crac della Borsa e il crac di tutto. Era questo il mio inizio sul pianeta, per non parlare della guerra. C'era veramente la miseria a Londra e molto presto mi sono posto la domanda: perche' vivo nella bambagia se la' in basso c'e' della gente che elemosina nella strada? No, la borghesia proprio non mi andava. Ancora oggi, anche se ho la pelle abbastanza dura e comincio a entrare nella... come dicono, nella terza eta', sono molto impressionabile e mi lascio sconvolgere enormemente.
A.L.: Dalla miseria delle persone?
D.R.: Proprio cosi'! Insomma, non voglio generalizzare, parlo solo per me stesso, ma a che scopo trasformarsi in uno scrittore se non ci si lascia toccare dalle cose? Il mondo odierno e' sempre peggio: ognuno per se'! Scrivere aiuta a rendere comprensibile la sofferenza. Come dicevo a uno dei miei amici, Jean-Paul Kauffmann: una volta che hai chiuso la porta alla strada, e' finita, vecchio mio! Quando ti stacchi dalla vita della strada, ti chiudi in casa, con tutte le comodita', e incominci a scrivere, hai perso in partenza! Andare in giro, essere tra la gente, parlare con loro, anche per insultarsi ma farne comunque parte, secondo me per uno scrittore non c'e' niente che possa sostituire tutto questo.
(...)
A.L.: Lei cita George Orwell nelle sue memorie, anche lui e' passato per Eton.
D.R.: Lo ha detestato pure lui, quanto me. E anch'io, come lui, ho cercato di sputare fuori tutto, di espellerlo, di purgarmi, di trovare qualcosa di piu' sano.
A.L.: Chi ha voglia di scrivere non ha necessariamente bisogno di rifiutare cosi' radicalmente, se non la famiglia, almeno il suo ambiente. Evelyn Waugh, a esempio...
D.R.: Tra lui e me le differenze sono enormi. Il che non mi impedisce di ammirarlo come uno dei migliori scrittori inglesi dei nostri tempi. Lui ci teneva alla "vita da castello", a me invece disgustava. Waugh voleva allo stesso tempo sia lo snobismo che la verita'. E c'e' riuscito, attenzione: cos'e' che non ha messo a nudo! Quello che volevo fare io non era di demolire checchessia, volevo andare piu' in la', scendere "nella strada", seguire il mio istinto. E' raro che ci si sbagli, quando lo si segue veramente. Un'altra cosa, dato che prendiamo Waugh come parametro: lui era essenzialmente incentrato sull'Inghilterra. Per quello che mi concerne, e puo' darsi che questo venga da parte di mia madre con le sue ascendenze americano-giudeo-polacche, io morivo dalla voglia di andarmene, di viaggiare, di andare a vedere altri posti, in Spagna, in Italia, in Francia, insomma che cosa succedeva al di la' della Manica.
A.L.: Cominciamo dal principio...
D.R.: In Spagna, era al tempo di Franco, all'inizio degli anni cinquanta. Abitavo a Salamanca, ero "fidanzato" a una ragazza del quartiere, i borghesi avevano voglia di belle auto, che non si trovavano facilmente sul mercato: c'erano tasse enormi. Ne importavo dall'Inghilterra, delle Ford o auto di quel tipo, fino a Gibilterra. Poi le facevo passare in Spagna. Non c'era che un posto di frontiera, La Linea, ma con il mio passaporto britannico cosa potevano dirmi i doganieri? Targhe, certificati, era tutto in regola. In poche parole, mi trovavo a cambiare auto molto frequentemente...
A.L.: Molte auto, un po' di traffici...
D.R.: Un po'... parecchi! E poi, quando ho cominciato a sentire puzza di bruciato, sono partito per Tangeri, per tenermi un po' in disparte....
A.L.: E la scrittura, durante tutto questo?
D.R.: Ma certo! Avevo gia' cominciato. Prima della Spagna. A Londra, a Chelsea, avevo un appartamento con un amico, giornalista al Sunday Express. Una notte, o meglio un mattino, rientrando da una festa, mi chiese: "Cosa fai nella tua stanza? Continuo a sentire il ticchettio di una macchina da scrivere, scrivi un romanzo o che?". Pardi! gli ho risposto. Lui ha letto tre righe e mi ha detto: "Fermo li'! Se vuoi farlo seriamente, taglia a fondo, niente lungaggini". E' il solo vero consiglio letterario che abbia mai ricevuto. Allora, tutto quello che avevo scritto prima, l'ho usato per accendere il fuoco. D'altronde qui nessuno ne voleva sapere.
(...)
A.L.: Lei ha lavorato per i fratelli Kray che sono sotto chiave da piu' di vent'anni per essere stati, a Londra, i capi della mala.
D.R.: Esatto. In realta' tutto e' cominciato il capodanno del 1960. Io ero sbarcato a Bristol arrivando da New York. Ero in bolletta, avevo appena di che pagarmi il biglietto del treno per Londra. Mi sono precipitato al French Pub, e ho incontrato un vecchio amico, dei tempi di Eton, che si era lanciato nelle truffe ad alto livello. Mi ha proposto "un lavoretto": quella sera stessa ero diventato titolare di cinque ditte di costruzioni edili, delle societa' di cartapesta... E dietro, sullo sfondo, ma al controllo di tutta l'operazione, c'erano i fratelli Kray, i "gemelli".
A.L.: Si e' scritto molto sui fratelli Kray, hanno anche girato un film su di loro. Com'erano?
D.R.: Quel tipo di persone di fronte ai quali si diventa cadaveri. Controllavano tutto l'East End, meta' della citta'. Il resto, la parte sud, era dei Richardson. Ma l'East End, il gioco, la prostituzione, erano in mano loro. Avevano tutto in pugno.
A.L.: Soho, la mala, tutte cose che lei conosceva come le sue tasche. E' stato venditore di riviste porno, ha fatto per un po' il tassista di notte. Eppure a quell'epoca, gli anni Sessanta, lei non ha mai smesso di scrivere. "Gli inquilini di Dirt Street" ad esempio, o "Bombe surprise", un libro molto curioso. E poi, per piu' di dieci anni, basta, neanche una parola...
D.R.: Tra il '73 e l'80, e' vero, non ho scritto niente. Faveno l'operaio agricolo, potavo le vigne, tagliavo la legna con i gitani. In Francia. A Bourg, nel Sud-Ovest, nel "Mezzogiorno meno un quarto", come dicono...
(...)
A.L.: E poi ha ricominciato. Con "E mori' a occhi aperti".
D.R.: E' un libro che ho sognato, ma veramente! Era in dicembre, di notte, e faceva un freddo cane! Avevo sei coperte addosso, e le finestre erano incrostate di brina. Mi sono risvegliato di soprassalto. Mi sono detto: questo devo assolutamente scriverlo. Non avevo nessuna voglia di muovermi, bisognava accendere il riscaldamento giu' da basso, erano le tre del mattino. Ma avevo paura che mi sfuggisse, era piu' forte di me.
A.L.: Ha dei modelli in letteratura?
D.R.: Sartre. Quando ero giovane ne potevo recitare pagine intere a memoria. Oppure... si', dei modelli... Orwell, Dostoievski... Zola, Maupassant. Chandler, ovviamente, Dashiell Hammett. Mi sono chiesto per molto tempo perche' gli americani sono molto piu' forti di noi nel noir. E' senza dubbio perche', molto semplicemente, noi siamo troppo timorosi. Non apriamo abbastanza le cosce...
A.L.: Il poliziesco francese, il suo riferimento, e' Jean-Patrick Manchette, non e' cosi'?
D.R.: Pardi! Mi ricordero' sempre come mi ha accolto a casa sua, una notte a Parigi, sotto una pioggia battente alle quattro del mattino. E sono restato li' da lui per una settimana. L'unica cosa su cui non andavamo d'accordo era la politica. L'impegno, piu' esattamente. Lui era molto sessantottino. La politica? Lasciala ai fessi, gli dicevo, noi siamo scrittori...
A.L.: Nelle sue memorie ritorna continuamente su quel romanzo chiave della sua opera, "Il mio nome era Dora Suarez", e soprattutto sull'esperienza molto intensa costituita dalla sua scrittura. Una specie di lunga notte, di discesa agli inferi...
D.R.: Dora Suarez... Per tutto il tempo in cui l'ho scritto, non sono stato capace di addormentarmi senza una luce accesa! Non faccia l'errore di confondere il Raymond che ha oggi davanti a lei, cordiale con tutti, pieno di entusiasmo, con l'altro Raymond, l'altro me stesso, quello di Dora Suarez. Non e' schizoide, e' complementare. Dora Suarez, il romanzo nero come lo intendo io, e' un po' come se qualcuno - lei, io - facesse una passeggiata in un giardino pubblico una sera al crepuscolo, e si imbattesse all'improvviso in qualcosa d'orribile che lo sgomenta fino al terrore. La catastrofe, la morte. Allora, davanti allo schermo del computer, alla macchina, non resta che una sola cosa da fare: scrivere. Certo, non ci si puo' immergere a tal punto in una simile esperienza e uscirne incolume, come si era prima. Non esistono mezze misure.
(...)
A.L.: Decisamente, e' ancora molto severo con l'Inghilterra...
D.R.: Non l'Inghilterra, la societa' inglese... questa si' che non riesco a inquadrarla! Ma mi piacciono molto gli inglesi, i miei "cari compatrioti". Certi inglesi, almeno. Negli ambienti che frequento io. O gente come Francis Bacon, che ho conosciuto un po'... William Shakespeare, eccellente sceneggiatore del genere "nero", Wilkie Collins, Ted Lewis...
(...)
A.L.: E la Francia?
D.R.: E' la Francia che mi ha "nutrito". Mi hanno tradotto, il mio aspetto glauco piaceva molto, e poi c'e' stato l'adattamento al cinema di due dei miei libri: "E mori' a occhi aperti" e "Aprile e' il piu' crudele dei mesi". In Inghilterra non mi conosceva quasi nessuno. E un giorno si sono detti: chi e' quel fesso inglese che ha tanto successo laggiu'?
A.L.: Lavora molto?
D.R.: Piu' vado avanti con l'eta', piu' mi fa male stare seduto. Da giovane sono andato troppo in giro. E certe cose si pagano.
A.L.: E quando non lavora?
Bevo. Al troquet. Per distrarmi, per ascoltare gli amici, gli altri. Quello che c'e' di buono nella vita dei troquets di notte, dei bar, e' che si e' tutti "dentro" con la gente, a bere, a dire quello che capita, e si e' allo stesso tempo anche "fuori": si puo' staccare, ci si puo' astrarre con la mente. Io lo chiamo "andare a teatro". Se mi chiudessi con il mio computer finirei per essere un relitto. Una settimana fa, a Soho, eravamo un gruppetto di artisti e ci siamo fatti rinchiudere nel pub dopo l'orario di chiusura. Siamo usciti verso le nove del mattino. Per andare a fare colazione dall'italiano li' vicino.
A.L.: Con la bocca impastata?
D.R.: Senza la bocca impastata, senza le notti in bianco, non ci sarebbero i romanzi noir...