Alberto Bighi La Vita nel Baule- recensione di Emilio Diedo

 

Il carattere preminente della narrativa di Alberto Bighi è una precisa storicità. Nel racconto La nostra piccola guerra la storia è addirittura fondante – il titolo è alquanto icastico. Si tratta di una vicenda autobiografica ambientata in Italia ma che ha per plafond la guerra della ex Jugoslavia. Periodo 1991-1995. Qui, lo stesso autore-protagonista si manifesta anfitrione di un concatenato gruppo di persone in fuga da quel fratricida conflitto.

Ma anche nelle altre due sue opere la storia è la preferenziale compagna di viaggio delle trame dei vari racconti (nella sua prima) e del medesimo romanzo, l’ultima 'creatura'. Ogni trama è avvolta in un suo proprio reale scenario spazio-temporale, che colloca i relativi interpreti, i protagonisti, in un’esistenza che, per quanto possa essere frutto della fantasia, è impiantata in un innegabile, anzi storicamente documentato, e fertile (ai fini dello svolgimento degli intrecci) terreno storico.

Ora, precisamente nella sua peculiarità storica, che potrebbe, da una parte, certamente corroborare l’innesto dei complessivi episodi del romanzo (il che valeva già per la prima serie di racconti e vale ancor di più per quest’ultima compatta sorta di saga), sta, purtroppo, una certa sufficienza della struttura narrativa. Specialmente una buona parte – troppo cospicua – dell’inizio ed un’analoga parte all’incirca finale assumono un peso propendente più verso il saggio storico piuttosto che verso un topos narrativo dosato ed amalgamato alla storia. Il guaio è che non c’è capitolo in cui non siano rievocati episodi, con tanto di date e richiami fin troppo concreti, nel tentativo di incastonare i personaggi dell’epoca di pertinenza. Un tentativo, sì, perché alla fin fine i personaggi di Aberto Bighi risultano sempre avulsi dalla contestualità storica. Danno la sensazione d’essere delle marionette buttate là, su d’un palcoscenico allestito su un oberante documento storico. Neppure il singolo protagonista appare metodicamente immerso negli eventi storici, bensì tutti i personaggi sembrano essere soffocati dalla cronaca della storia. Non vivono in essa come dovrebbero. Non interagiscono attivamente coi reali, richiamati accadimenti: rispetto all’epoca di collocazione, sembrano figure ritagliate chissà da dove, appuntate lì con delle spille.

Per altri più fortunati motivi si può invece asserire che non manca una diversiva godibilità nella lettura. Complessivamente buone sono le idee sviluppate; come sono organicamente misurate le consequenziali vicende che legano, nel romanzo, le tre quattro generazioni che realizzano l’unicum d’una fittizia pellicola basata sull’intero contenuto d’un baule riaperto per riattizzare la memoria, nel giro di un’unica, insonne nottata. Frammenti di vite vissute che, precisamente nel loro estemporaneo rispolvero, costruiscono ingegnosamente il romanzo d’una dinastica, musiva esistenza, unitaria e nel contempo segmentata in varie fasi di vite coniugali o comunque familiari.

Come toccanti sono certuni passaggi che smuovono la commozione a più riprese.


Ferrara, agosto 2010


emilio diedo

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