Claudio Felisatti Un Mondo fuori dal Mondo- recensione di Emilio Diedo

Di Claudio Felisatti sono pure le illustrazioni che supportano le trame, in copertina ed all’interno. Sono una decina di bozzetti, gli ultimi cinque a colori.

L’opera, un sunto di contigui racconti autobiografici, è stata concepita come un racconto a puntate relazionato dal nonno al nipote, con inserimenti, qua e là, di notizie sulla vita intima dell’avo.

Spesso, proprio per la struttura del racconto, che caratterizza l’impostazione del libro, il discorso diretto si stratifica, a mo’ d’una onnicomprensiva scatola cinese.

L’interesse che ne emerge è sicuramente sociologico, mettendo in luce il negletto quanto famigerato significato che il manicomio, fino a trent’anni fa, esternava. Luogo dove «se stavi alle regole vivevi, ma lentamente morivi, non eri niente», cfr. p. 19. Il palese proposito del legislatore, nel predisporre la normativa sui manicomi, non era stato quello di tutelare il malato mentale (anche se l’apparenza era tale) bensì di tutelare la società dal malato psichico. Di conseguenza – sono elementi che fuoriescono dal contenuto del libro in disamina – gli infermieri apparivano, piuttosto che dei paramedici, attenti custodi: autentici secondini, guardie carcerarie. Fu la legge Bisaglia, solo nel 1978, a cambiare la prospettiva d’intervento nei confronti di questo tipo particolare di malato, rendendolo finalmente un essere umano abbisognevole di cure ed attenzioni, prevedendo strutture più idonee, solo in parte detentive, non più prevalentemente manesco-repressive. Agli effetti pratici, con i nuovi servizi di Diagnosi e Cura, integrati da un Trattamento Sanitario Obbligatorio (unicamente per i casi in cui il paziente venga considerato “socialmente pericoloso”), si permisero l’apertura dei c.d. Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che supplirono (anche se solo parzialmente, come si disse) all’internamento manicomiale. Gli attuali OPG di fatto sono sei centri dislocati a Castiglione delle Stiviere (Mn), Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino (Fi), Aversa (Ce), Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto (Me).

 

Al di là, poi, dell’aspetto saliente che rende interessante il libro, la lettura è ravvivata altresì da una, sia pur blanda, love story tra due ricoverati, Paolo e Debora.

Il loro destino incarna un emblematico, spietato esistenzialismo, che li avvicina alla letteratura di Giovanni Verga, quella del “ciclo dei vinti”, per capirci. Però soltanto dal punto di vista della causalità; perché, in Paola e Debora sussisterebbe una grintosa volontà di sopravvivenza che sorpasserebbe il prototipo verghiano.

EMILIO DIEDO

 

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