C'era una volta la sovranità monetaria...

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La crisi? Il problema non è l’euro ma la sovranità monetaria


 di Sergio Gessi




Dentro o fuori dall’euro? Posto in questi termini l’interrogativo è fuorviante. Il problema vero, infatti, è il controllo dello Stato sulla banca centrale, condizione da cui discende la sovranità monetaria.
Quanti sanno che la Banca d’Italia è una banca di diritto pubblico – ma sostanzialmente privata – sulla quale lo Stato non ha praticamente alcun controllo? E che l’emissione di moneta e l’imposizione del tasso di interesse viene fatta da banche private al di fuori dell’autorità statale? La drammatica crisi attuale si può superare solo se lo Stato riacquisterà la prerogativa di emettere moneta nella quantità adeguata a ripagare l’operatività del sistema.
A sostenerlo, da tempo, è un gruppo di studiosi che fanno riferimento alla cosiddetta “Teoria monetaria moderna” messa a punto a fine Ottocento dall’economista tedesco Georg Friedrich Knapp con il contributo di tal Alfred Mitchell-Innes. Attorno a questa impostazione, nota come cartalismo, circola un certo scetticismo, alimentato dagli accademici del pensiero dominante. Però Knapp non doveva essere proprio uno sprovveduto se è vero che viene citato nientemeno che da Keynes nel suo “Trattato sulla moneta” e che fra i più illustri sostenitori del neo-cartalismo c’è addirittura Kenneth Galbraith, insigne economista americano, acuto critico del capitalismo moderno.

Cerchiamo dunque di comprendere la questione, scavalcando i pregiudizi.
In Italia, il problema della perdita di sovranità dello Stato nasce ben prima dell’euro e si origina nel luglio del 1981 con la separazione fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia; un processo che si completa nel 1992 con la totale privatizzazione delle principali banche nazionali partecipate dallo Stato (Commerciale, Bnl, Banco di Roma), detentrici delle azioni della Banca d’Italia che per conseguenza – a seguito di quella che è stata definita una “svendita” – passa dal controllo statale a quello esercitato da privati che operano sul mercato: oggi i principali azionisti sono Intesa Sanpaolo, Unicredit e assicurazioni Generali.
Da oltre 20 anni lo Stato, dunque, non ha più la facoltà di decidere autonomamente quanto danaro immettere nel sistema operando, come si faceva nel passato, con le leve della politica monetaria e soprattutto non ha più la possibilità di emettere denaro di sua proprietà e quindi libero da debito ma è obbligato a prendere in prestito la stessa quantità di denaro dal sistema bancario privato indebitandosi.

Ma veniamo all’oggi e alle possibili vie di soluzione della crisi attuale. Il paradosso attuale è che c’è ampia disponibilità di merce, ma non ci sono i soldi per comperarla. C’è disponibilità di forza lavoro, ma non ci sono risorse per remunerarla. Ci sono bisogni inappagati dei singoli e delle famiglie (quindi un mercato potenziale), ma non c’è denaro per soddisfarli. Insomma, tutto ruota intorno ai soldi. Se ricominciassero a circolare, il sistema si rimetterebbe in moto: pago i lavoratori che producono merci che i consumatori acquistano ripagando i costi sostenuti dalle imprese (per materie prime e manodopera) e il surplus costituito dal profitto che giustifica la loro operatività.

Se magicamente il denaro fosse disponibile nella giusta quantità il meccanismo si alimenterebbe da sé: lavoro e produco; per il mio lavoro sono pagato e con quei soldi acquisto ciò che mi serve alimentando il mercato che dovrà continuare a produrre per soddisfare nuovi bisogni; producendo e vendendo, si genereranno altre ricchezze che assicureranno il pagamento dei lavoratori. E così via…

Ma il denaro scarseggia. E chi ci impedisce di crearlo?, domandano i sostenitori della teoria monetaria. Teoricamente nessuno. Si produce quanta moneta serve per rimettere in movimento il sistema e quando eventualmente dovesse circolarne troppa, con il rischio di inflazione, si drena attraverso l’imposizione delle tasse. Perché il problema, che potrebbe derivare dalla sovrabbondanza di liquido, è che la disponibilità di beni non sia sufficiente a soddisfare totalmente la richiesta; cioè potrebbe accadere ciò che in termini tecnici si definisce “esubero di domanda” (con corrispettiva insufficienza dell’offerta). E’ il caso in cui si verifica un rialzo dei prezzi, conseguenza del fatto che gli acquirenti hanno molti soldi e sono disposti a spendere: e quando la merce comincia a scarseggiare si determina una sorta di asta pubblica… Ecco allora che lo Stato, attraverso la leva impositiva, rimette ordine: preleva attraverso le tasse soldi da destinare a servizi e opere pubbliche e riduce gli appetiti dei singoli mantenendo i beni in circolazione a livelli di prezzo standardizzati.

Perché non si fa? Non perché c’è l’euro, ma perché c’è la Bce, la Banca centrale europea! Ma se non ci fosse la Bce, ci sarebbe la Banca d’Italia: e non cambierebbe nulla. Perché nemmeno lei, come abbiamo ricordato, è sotto il controllo dello Stato, ma risponde a logiche e interessi privati. L’unica “banca” pubblica in Italia in questo momento è la Cassa depositi e prestiti, che però non funziona come una normale banca, ma opera solo come finanziaria a supporto dello Stato e degli enti locali.

Quindi il problema, secondo questa intrigante prospettiva di analisi, è ricreare una banca pubblica e porla sotto il controllo del ministero del Tesoro, cioè dello Stato, in maniera che il Parlamento possa definire gli indirizzi e le scelte della politica economica e monetaria del Paese.
Di questo si è parlato  alle 20,45 alla sala San Francesco (presso l’omonima chiesa all’angolo di via Savonarola) con Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi, autori del volume “Soluzione per l’euro” edito da Hoepli.

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