Il mondo occidentale e la guerra (*)
“L’opinione non è del perfetto.
la visione è del perfetto”
Canone buddhista
,
“La contraddizione che mina il mondo moderno è l’antagonismo tra le virtù militari,
di cui sempre la vita ha bisogno, e l’attuale congiuntura tecnologica,
che ne rende catastrofico l’esercizio. Senza virtù militari questa società marcisce,
con le virtù militari si suicida”
Nicolas Gomez-Davila
“Chi di voi non si rende conto di questo fenomeno ha l’impressione
che qui abbiamo fatto la collezione degli stupidi,
degli oziosi, delle persone limitate, insomma, di tutti gli
scarti. Ma dimenticate tutti quanti una cosa essenziale: se
vedete gli altri come sono, non è merito vostro. Qualcun
altro li ha messi a nudo: voi li vedete così, e ve ne attribuite
il merito. Vedendo negli altri degli imbecilli, non vi rendete
conto di essere voi stessi degli imbecilli. Se qualcun altro
non li avesse esposti in piena luce, con ogni probabilità
dinanzi ad alcuni di loro vi sareste messi in ginocchio.
Voi vedete i vostri vicini spogliati ma dimenticate che anche voi
siete nudi. Credete di poter tenere una maschera anche adesso
come nella vita, ma nel momento stesso in cui avete oltrepassato
il cancello dell’Istituto, il guardiano ve l’ha tolta.
Qui vi ritrovate nudi ed immediatamente vi accorgete di chi siete in realtà.”
G. I. Guerdjieff
I
Innanzitutto una premessa metodologica. Siamo confusi. Ma se siamo confusi come possiamo parlare? Parliamo perché, con grande difficoltà, speriamo di chiarirci le idee. In tal modo potremo compiere qualcosa d’utile per noi stessi e, forse, per altri. La nostra confusione s’incentra in que- sto: per molto tempo ci siamo autoeducati a riferirci solo a degli archetipi che giudicavamo poten- zialmente attivi. Cioè attivabili se certe condizioni, che pensavamo inattuali, si fossero presentate.
Il mito della romanità - principalmente - era il richiamo agente. Quell’archetipo che doveva farci rimanere integri, coscienti e mobilitabili, sempre, comunque e dovunque. Al riassunto d’una vita spesa… come?... di studi, ricerche, esperienze, non esisteva per noi altro archetipo che potesse racchiudere in sé la stessa somma di potenzialità. In più tale archetipo soddisfaceva non solo la nostra inquietudine intellettuale ma anche la nostra pulsionalità emozionale. Perché? Per la semplice ragione che sembrava aver la massima possibilità di ricondurre - con il minor spreco - ad un massimo comun denominatore e ad un minimo comune multiplo tutte le ormai sparse membra dell’esistenzialità culturale ed ideologica nostra. Dal radicalismo identitario, al protagonismo nazional-liberista, dall’antagonismo bellicoso al soddisfatto entrismo sistemico, tutte declinazioni di visioni del mondo ben diverse e sorprendentemente articolate e spesso specificatamente conflittuali all’interno di una più che altro etero-definita galassia politico-ideale.
II
Il mondo del dopo 11 settembreorigina da almeno trent’anni di lunga gestazione delle difficoltà, se non dei fallimenti, del rapporto nord-sud ed est-ovest. La globalizzazione impostasi definitivamente dopo il crollo del muro si è trasformata velocemente da uno strumento anche e soprattutto imperialistico americanomorfo in un processo apolide di caratura finanziaristica, di valorizzazione virtualistica, d’internazionalismo anglofono. Dalla trasformazione da instrumentum regni del neo capitalismo trionfante a vettore impazzito d’istanze centrifughe, la globalizzazione viene ora avvertita sempre più - anche nel primo mondo - come pericoloso processo di destabilizzazione non solo da limitate élites intellettuali o da confuse frange generazionali o da laterali gruppi comunitaristi, ma dalle stesse compagini istituzionali registranti che il delegare tutto alla globalizzazione significa venir espropriati non solo nel campo economico, ma anche in quello demografico, in quello religioso-identitario, in quello della sovranità, anche più immediata. Sule delterritorio. Tali nuove evidenze, segnate da atti di guerriglia prima inattuati, sono talmente forti ed innegabili che spingono alla fuoriuscita dal solo campo degli approfondimenti specialistici e dal partigiano orizzonte delle opinioni ideologiche per rifluire nella valle delle pulsioni primarie, di tipo reattivo, automatico, e nello stesso tempo più atavicamente fondate. Per merito di tali nuove evidenze rischiano di essere spazzate via contrapposizioni ormai cristallizzate (vedi gli imprevedibili interventi rimescolatori di molti intellettuali) col risultato di determinare interessanti confluenze e nuovi distinguo, precedentemente impensabili ed inammissibili. Tali reattività primarie, tanto più evidenti quanto più era ed è semplice lo stile di vita meno mediato (per mille causalità storico-antropologiche), in USA rispetto all’Europa, sono proprio esse la prova di un nuovo varco, di un nuovo buco nero formatosi nell’apparente tenersi del precedente universo del pensiero unico. Tali reazioni-riemergenze sono primarie ma anche archetipiche e quindi molto più simbolicamente ricche di potenzialità nei campi, per noi discriminanti, dell’identità, dell’orgoglio, dell’onore, dentro, fuori e contro interessi apparentemente legati ai soli meccanismi precedentemente delegati allo schema interpretativo utilitarista. In tal senso si potrebbe ben dire che la prova eccessivarompe gli equilibri precedentemente delegati ad un apparente razionalismo dell’utile che non rappresentava (e non rappresenta) in realtà che una acefala superfetazione ed una falsificante autorappresentazione mediatica del capitalismo irresponsabile ed apatride, che distrugge gli apparati identitari e simbolici ancor prima di appropriarsi di ogni legittimità fondata su fattori reali. Potremmo anche dire che il mostro dell’apparato globalista ha generato un nuovo tipo di figliastro catilinario, (già prospettato ormai da più generazioni nel mondo dell’arte moderna, ma sostanzialmente fino a qui impotente o neutralizzato) ed ora invece nuovamente attivabile, sul quale si avrà modo di concentrare operazioni oneste e disoneste, ma che comunque ha riaperto una partita che da moltissimi si giudicava - col solito eccesso d’ottuso realismo o forse troppo deterministicamente - ormai chiusa. Un irrazionalismo archetipico si potrà nuovamente opporre - qui da noi - prima ancora che ad un altro irrazionalismo archetipico (quello degli evidenti pensieri forti altrui) all’apparente razionalismo utilitarista del mercato della nuova globalizzazione che ora rivela - persino a livello mercatista - che la massimizzazione dei profitti globalizzata a danno delle compagini sociali dei salariati nazionali non solo ricrea condizioni d’evidente sfruttamento paleocapitalista nei paesi del terzo mondo, ormai innegabile, ma depaupera nel primo mondo tutte quelle aree di lavoro non autonome che non usufruiscono di sistemi partecipativi, almeno minimi o potenziali e che non si organizzano nelle aree del no-profit, della cooperazione o del lavoro socialmente giudicato utile e che non possa autodifendersi aggregandosi ai ceti dominanti. L’economia di sfruttamento del riordino paleocapitalista nel terzo mondo e quella nel primo mondo di sfruttamento aperto o più o meno larvato (ed anche ipocritamente coperto se non giustificato dalla confluente conciliatoria ideologia dell’accoglienza indiscriminata) delle maestranze extracomunitarie, se non troverà un’efficace limitazione istituzionale, legale, sindacale nel terzo mondo ed uno sviluppo imprenditoriale fortemente e nuovamente normato che limiti al massimo grado possibile nel primo mondo le tensioni intersociali ed interazziali, non potrà che aggravare la regressione globalistica da una parte (crisi economiche, recessioni, aumento delle disparità sociali) e con l’accentuazione ulteriore dall’altra delle disparità e delle ingiustizie, ormai sostanzialmente ammesse od addirittura funzionalizzate al distorto processo produttivo, con la sua folle irresponsabilizzazione finanziaristica. Ciò con l’incancrenirsi di tutte le problematiche che soprattutto nel primo mondo utilizzano la struttura della divisione del lavoro per trovare veicolo d’interessata nuova rappresentanza (consumatesei definitivamente quelle ideologiche ottocentesche) per tensioni o frustrazioni nate in ben altri campi identitari, religiosi, razziali. Tali problematiche postesi ex novo, quasi magicamenteinventatenell’arco di pochi anni, sono oggi esplose ad evidenza somma.
III
La nostra civiltà occidentale nevrotica e sfibrata dovrà necessariamente riporsi i problemi di valori fondanti e di compatibilità delle differenze. E’ costretta a farlo. Altrimenti, probabilmente, non lo farebbe. E probabilmente non lo farà. Sotto lo shock d’una aggressionesi attuano, come abbiamo detto, reazioni primarie che spingono interessatamente a fuggire dal subdolo dominio del verbale pacifismo globalistico, ininterrotto e ipocritamente integrante (ai propri fini di delocalizzazione delle risorse finanziarie e di sfruttamento della forza-lavoro) e che possono ricostituire nuove confluenze su nuovi territori di delimitazione delle forze in gioco. Identità, integrazione, differenze, compatibilità, reazioni, vocabolario del politicamente corretto, vengono rivisitati sotto lo shock addizionaledeterminato dalle nuove emergenze. Ovviamente nessuno ci assicura che tali reazioni primarie e tali riesami possano organicamente riequilibrare condizioni geostrategiche ormai andate abbondantemente oltre il segno, e che fenomeni assuefattivi poi non incidano collateralmente per un’allentata rilevanza, ma non è detto che da una condizione di conflitto allargato e/o strisciante non possano nascere nuove autentiche dimensioni alternative. Come sempre. E poi, probabilmente, pur essendoci ben altre scelte, non saranno, per difficoltà maggiori, perseguite. Ciò vale soprattutto per noi occidentali, drogati dal nostro stesso pensiero unico e da un’intollerante tolleranza nata dall’anarco-individualismo di massa che copre ideologicamente, in modo surrettizio ed ipocrita (un tempo si sarebbe detto in modo sovrastrutturale), un’irrefrenabile politica di conservazione e di predominio, basata sulle indiscutibili immagini dominanti e quindi di subornazione e di sostanziale disinteresse (che non è l’affaccendato flagellante e moralistico complesso di colpa) per l’altro da sé. Nulla a che vedere, in questi ultimi decenni, quindi, con una possibile imperialità minimamente responsabile, conscia dei propri diritti ma anche dei propri doveri, (il tanto vituperato fardello dell’uomo bianco) perché fornita di una base autocondivisa di progetto, di un’autostima ideologica esportabile ma anche dichiarabile (e non sempre necessariamente e risibilmente camuffata) e di un’efficace assunzione totale di responsabilità. La democrazia virtuale e finanziarista, producendo dal nulla depaupera i beni legati ai valori umani essenziali (legati all’essenza) in favore di proiezioni puramente psichiche (nel film interiore - comunque regno dell’illusione, contro ogni profferta di realismo - ove potrebbero - degnamente - scorrere ben altre immagini) e d’aspettative favorenti ad arte la personalità fittizia (in linea con il nostro secolare processo per una personalità di sola costruzione intellettualistica), con il risultato di opprimere gli altri rendendoli sempre più, similmente a sé, discentrati, nevrotici ed eterodiretti. Tale linea si lega inscindibilmente allo scivolamento ciclico di una civilizzazione ed è riscontrabile in ogni fase declinante di una lunga storia d’onori e d’orrori. Ma non sembri una visione apocalittica. E’ solo un procedere realistico (e già in buona parte realizzato) che costituisce una linea di discendimento e d’apparente più facile vivibilità (in occidente) rispetto ad una reattività antagonista (nello stesso occidente) che appare a tutt’oggi pericolosa, estremista, squilibrante, massimalista. Il fatto è che tutto non si potrà risolvere con la tecnologia - il nostro attuale deus ex machina - più o meno apparentemente amorfa o con l’extra-potere accumulato dal capitale finanziario apolide. O se si risolverà così sarà la tecnologia a risolvere se medesima in una spirale del tutto autoreferenziale. In tal senso la nostra storia recente deve essere ripensata proprio a partire da un possibile nuovo irrazionalismo che realisticamente rimetta in gioco fattori fondanti una nuova legittimità. L’impero per sopravvivere - se merita di sopravvivere - si dovrebbe dotare di ben altri apparati umani che abbisognano di ben diverse e più complesse autogiustificazioni, autoriferimenti, ed autoeducazioni. E non bastano, ovviamente, (per restare all’opzione militarista) i reparti scelti d’élite che rappresentano solo il versante strettamente professionale di tale consapevolezza. Il professionismo, in tutte le civiltà stanche, è stato il progressivo rifugio (per rarefazione di capacità e di tempi) di molte virtù che dovevano spettare istituzionalmente al cittadino consapevole e sobrio. Ha costituito l’ultimo ridotto di una visione che si ricreava, in un ambito sempre più ristretto, giocoforza, una nuova organica legittimità prepotentemente monovalente, con propri statuti simbolici e comportamentali, che in una civiltà al sorgere sono invece patrimonio naturale e polivalente di ben più ampie fasce sociali, ovvero di quasi tutte quelle fasce che si sentono, per stirpe e consapevolezza profonda, appartenere alla stessa origine ed allo stesso destino. Certamente questo processo è inevitabile ed inarrestabile, perché in ogni ambito di linea di resistenza e di reazione all’entropia ed al degrado tale processo è l’unico a garantire dei risultati concreti, visibili (e veloci). Ma al di là dei veloci risultati, concreti e visibili, ma sempre molto incerti alla distanza, sono le ragioni profonde di tale reazione che spingono a determinare dei propri statuti interni. Chi conosce appena un poco la storia romana sa quali processi determinarono (e furono determinati da) l’irrigidimento di molte strutture, spirituali, mentali, sociali, istituzionali, economiche e di qualità della vita relazionale, all’interno del mondo senatoriale, dei cavalieri, dell’esercito, della proprietà, degli studi, delle professioni e dei rapporti intersociali. (E ciò vale come paradigma storico, certamente, ma realizza in più una magistrale lezione di legittimità psicosociale per tutti coloro che assumono - nel tempo presente - una qualche posizione assimilabile alle posizioni consapevoli di allora, sia quelle di reazione che quelle dieversione). Ma nel mondo di oggi la risposta finanziarista e militarista alle difficoltà crescenti dell’occidente, se trova nella professionalizzazione tecnologica un’insuperabile strumento di dominio, il più affidabile, (ed imperseguibile, se non come scimmiottamento, da altre culture), deve ancora - persino juxta propria principia - compiere un completo rivolgimento interiore per comprendere che sarebbero comunque le strutture simboliche ed archetipiche che potrebbero rimettere in gioco un’anima spendibile nel mondo, ove fatica e morte, fatica e morte declinate nei modi d’uso ad ogni specifico processo culturale, ad ogni civilizzazione, rimangono comunque fondamentali. Quindi si deve cercare di comprendere a fondo lo statuto interno, possibile di tale risposta, e per farlo si deve cercare di comprendere meglio la questione combattentistica. Se il guerrigliero(dalla Teoria del partigiano in poi) porrà in essere, come unica ed ultima ratio, un trascendimento della propria esistenza, postosi plasticamente in visione della propria assoluta inferiorità tecnologica rispetto al superaccessoriato combattente dei reparti speciali occidentali, e dovrà stabilire per sé, per avere qualche possibilità di successo, in primo luogo la propria metafisica insignificanza rispetto ai dati apparenti di vita ed un’aspettativa proprio invece del tutto spostata su orizzonti metafisici, così il combattente occidentale, (il migliore, il reattivo, l’integrato/alienato) non potrà compiere lo stesso percorso, ma dovrà, facendo forza su tutta la propria individuale vita di relazione, maturare una ragione stoico-scetticadele sulproprio allenamento gladiatorio, in funzione d’una riappropriazione di statuti interni, professionalistici, castali e del tutto disancorati dal pietismoimperante nella sua società madre. Chi, con indubbio coraggio, negli anni dopo l’11 settembre, ha rappresentato plasticamente e magari anche un poco eccessivamente, la differenza che appare esistere tra chi combatte a viso aperto e chi colpisce da qualche migliaio di metri (in genere d’altezza), tra chi imbraccia ancora atavicamente e con relativa semplicità un fucile mitragliatore o poco più, ed un apparato che si serve d’ogni sofisticheria telematica inventata ed inventabile per colpire alla distanza e con relativa caduta di rischio personale e diretto, ha certo ben enucleato la differenza che sempre si crea tra chi possiede una superiorità e chi un’inferiorità. Che questo però da non ovvia constatazione oggettiva poi divenga una vera differenza ontologica è ben più difficile da dimostrare. Nella storia militare abbondano esempi ove una differenza di tecnologia militare ha determinato immense conseguenze d’ogni tipo, arrivando a mettere in crisi l’esistenza non solo di compagini etniche e statuali, ma d’intere civiltà. E ciò vale sul piano geo-strategico, per giunta in contesti di civiltà ben diversi, ove il ricorso all’estremoera sempre comunque un’opzione praticabile. Ora le coordinate di civiltà sono ben diverse e dall’inizio dell’era atomica lo strumento estremo è stato accantonato proprio dalla globalizzazione, pur restando una minaccia sventolata, un ricatto praticato o praticabile od un’opzione apocalittica. E’ la tecnologia rivolta agli apparati tecnico-tattici che ormai riempie il campo delle attese e delle differenze, soprattutto in occidente. Ma, in occidente, è sempre possibile rilevare che, a fronte di una potenzialità tecnologica enormemente accresciuta, si determini in una certa area di quella sfera spirituale, di quell’animus, un impoverimento di volontà e di sprezzo del pericolo, legati alla classica reattività atavica del "cacciatore-guerriero". Ma aumentano correlativamente (e necessariamente) le facoltà legate al centro intellettuale ed alla costruzione di una personalità più complessa, ove i richiami al coraggio ed alla determinazione non siano più solo basali ma ormai mediati da un’infinita nuova serie di campi, quali il confronto con la logica, la matematica, la complessità dei sistemi relazionali fra genti ed etnie diverse. Basti pensare alle materie di studio delle accademie moderne e soprattutto delle scuole militari di studi superiori. E’ come dire che il coraggio fisico o fisiologico si debba trasformare, quando e se possibile (se non appartiene esclusivamente al centro fisico-animico, cosa che in realtà è poco prevedibile, educabile e controllabile), in una nuova dimensione di partecipazione e distacco che, ad una più approfondita verifica assomiglia ancora (e forse ancor di più pur essendo mutato morfologicamente) al classico insegnamento impartito dalla Tradizione. Le tradizioni infatti ci insegnano che il massimo sforzo di realizzazione spirituale - applicato a tale fenomenologia - si esplica nel momento in cui si riesca ad essere totalmente in linea con il dovere (etnico, di civiltà, nazionale, comunitario) pur potendo mantenere in termini logici molti motivi di distinguo e persino di assoluta diversità rispetto alla fattuale scelta applicata e nel medesimo tempo si sviluppi una radicale distanza rispetto ad ogni apparente coinvolgimento interiore. Questa dicotomia è indubitabile e rigorosamente stabilita. Questo lo crediamo senza ombra di dubbio ed è una delle poche certezze che possediamo, in conoscenza. Problema più difficile invece, all’interno di tale dinamica è come inquadrare il furorguerriero, ovvero come comprendere profondamente ed efficacemente in che modo il lato dionisiaco, straniante, discentrante, dell’entusiasmo, possa essere elemento non conflittuale, nel quadro appena sopra delineato. Non possediamo una visione di tale chiarezza ed evidenza che riesca a darci una soluzione che ci soddisfi completamente. Possiamo solo intuire che, tale furor, nelle situazioni e nei momenti in cui si esplichi, non possa che rimandare ad un quadro di invasamento cosciente, ovvero di scatenamento non totalmente discentrante del polo fisso della personalità dominante. L’ossimoro logico ed etico trova infatti nella sua stessa formulazione un limite ed una giustificazione, limite e giustificazione che rimandano, per i ragionanti onesti, a quell’abisso che è infatti la prova e la guerra. Ma a differenza di moltissimi che ormai pensano di poter tranquillamente disinteressarsi di tali problematiche, noi crediamo che proprio tali domande siano quelle che ci possano avvicinare ad una migliore comprensione delle poste in gioco. E poi perché acceleriamo sulle problematiche legate all’animus del combattente? Forse perché solo così lo scatenamento del furor, inteso in termini classici o prevedibili, sarà letto, nel nuovo soggetto, secondo altri stilemi, altre condizionalità espressive, rimanendo ciononostante all’interno della stessa funzionalità, della stessa logica. E non solo. Ad esempio, le migliaia di ore di volo di un pilota da combattimento di standard occidentale non comportano solo un ripetitivo addestramento alla sofisticazione intellettuale, ma quasi una fuoriuscita dal mondo della normalità vivente in favore di una stranissima e ben (a suo modo) elitaria compresenza in una cerchia d’iniziazione castale e professionale. L’urlo del pilota occidentale che centra il bersaglio su radar di bordo con un missile a guida laser da 15 km di distanza s’apparenterà molto di più all’urlo della depressione-vuoto del sapiente di spada più di quanto letture affrettate (dei due sistemi epistemologici) ci facciano pensare. In tal modo si potrà forse anche meglio comprendere perché certi combattenti di certe nazioni oggi siano molto più in grado di svolgere ‘missioni militari di pace’ con risultati altamente e largamente apprezzati rispetto ad altri combattenti di altre nazioni che sono invece in grado certamente di svolgere più efficacemente pure azioni di combattimento, pur all’interno, più o meno ormai, della stessa koiné. Le funzioni si determinano, al loro stesso volgersi e mutarsi, dal cambiamento dei parametri del contesto (etico, civile, sociale, di struttura caratteriale) del sentire profondo ed allargato di un popolo. Eliminati così molti falsi problemi si possono porre ben altre questioni, diverse da quelle che in buona fede, ma ingenuamente, si rappresentano molti di coloro che, per varie ragioni, non hanno voluto o potuto affrontarle apregiudizionalmente. E’ che un insieme di tali pretoriani, di tali immortali, diviene preziosissimo ma delicatissimo e spesso inefficace, a livelli di diversificazione totale ed imprevedibile di scenari militari, anche per i costi generali e specifici, proprio per l’apparato interno, militare, che li esprime e che ne viene espresso al meglio. (E questo tante volte lo intuiscono meglio, in modo barbarico, ma non per questo meno evidente, molti antimilitaristi naturali etrinariciuti...) E per allegare, come al solito, i romani, non per niente Cesare redarguiva spesso i suoi uomini, spronandoli a non sprecarsi inutilmente, infondendo in loro, suppletivamente, in modo geniale, oltre a tutto il resto (professionalità, elitismo di cittadinanza, onore daimonizzato, etc.) anche il senso di una loro indispensabilità culturale (di cultura militare) che pur i migliori fra loro, spesso, tardavano ad afferrare. Profondamente pedagogico. Tale indispensabilità atteneva probabilmente molto di più - nell’autocoscienza di Cesare - ad una valorizzazione cosciente e convinta di fattori tecnologici dello status militare che - nello stesso status - a fattori primari od eroici. Consapevolezza certamente elitaria e tecnologico-castale (uso qui volutamente questi due termini in modo, spero utilmente, provocatorio) - che poi, anche dai tecnici od epitomatori tardi come Vegezio, o dai tardi storici come Ammiano, scompare totalmente, a fronte della diatriba dell’indebolimento, etc… (…che pur ha una sua forte validità fattuale, contro la disvalorizzazione che molti storici moderni compiono sostenendo la troppo comoda tesi del riuso letterarioe della stereotipia compendiaria). Indispensabilità, quindi che solo superficialmente, da noi, si può pensare si conformasse solo ai più opportunisti o solo ai più vigliacchi. Tale indispensabilità ancora ritorna nel nostro pensiero anche quando riflettiamo seriamente su tutta una mistica della guerra come lavacro epocale, od addirittura come igiene del mondo. Per noi che - almeno a tal proposito - non subiamo barriere/tabùal pensiero, se è di conforto constatare che l’esemplarità della prova, del sacrificio, della morte e della bellezza siano innegabilmente riscontrabili nell’eroe operante, non è affatto di conforto riscontrarli assolutamente inoperanti nei vigliacchi, negli opportunisti, negli imboscati a vario titolo ed ampliando, in tutta quell’area grigia che circonda sempre il combattente, area fatta d’infinite sfumature, d’innumerevoli distinguo, alcuni persino legittimi, ma i più comunque sordidi e privi di stile. Come a banalmente sottolineare che l’ipotetica elevazione si determinerebbe comunque solo per una ristrettissima élite. E’ che il sacrificio dei migliori, determina spesso la prevalenza dei peggiori, i quali, per una sorta d’intrinseca direzionalità, utilitaristicamente efficace, sanno comunque sopravvivere ai primi ed informare, alla lunga, lo stile del tempo in cui i primi sono venuti meno. Vorremmo dire che colui che sa (con certezza - ma tale certezza ha ovviamente il solo valore probante di una condizione del tutto interiore, non essendo affatto dimostrabile all’esterno) di poter spendere la propria vita per un ideale, dovrebbe avere in più anche la lucidità di saper e potere (in caso di necessità estrema) mandare al macelloi peggiori (e non i migliori) o genericamente/apparentemente meno motivati, (cosa che ci potrebbe far riconsiderare - almeno parzialmente - sotto diversa luce alcune logiche di molti stati maggiori legati inscindibilmente a, seppur non sempre dichiarate, profondamente consapevoli differenze di classe) e che, peraltro, nella storia è stata fatta spessissimo, con esiti, però, il più delle volte assolutamente deludenti ai fini dell’azione efficace (della vittoria, ove in effetti prevale finalisticamente una capacità/medietà diffusa- tipo quella dei popoli anglosassoni… e non i “sublimi eroismi e le inaudite defezioni”, tipiche ormai dei popoli latini), ma meno deludenti al fine della tenuta interna di una società. In genere solo le guerre vinte (e non sempre se non si affermano certe condizionalità ideologiche), permettono poi di contenere i peggiori, solo perché comunque reimmettono nel contesto civile i combattenti sia pur in un numero minimo appunto limitato dalle perdite, ma profondamente motivato dall’esperienza superata ed anche da una sorta di forte debito inconscio verso i propri commilitoni sacrificatisi e qualitativamente ed influentemente significativo. Se valorizzati e ricoordinati. La storia ci porta ad iosa esempi del genere.
Ma se quella cosa non fosse stata detta da Cesare, quel genio di regolatezza e sregolatezza tattica e strategica, nessuno (né allora né oggi) avrebbe potuto trarre esempio da quell’insegnamento. Ora tutto ciò detto, abbiamo volutamente trattato il lato combattentistico, prescindendo dalla teoria, dalla polemologia, che è comunque materia di studio dai confini estremamente fluttuanti e profondamente influenzata dallo spirito del tempo, e dalla storia personale del teorico agente. Sappiamo bene come le teorie schmittiane, ad esempio, si siano regolate progressivamente sul volgersi della dimensione epocale, ove, affermandosi il totalitarismo, la conduzione all’estremo, metteva in difficoltà qualsiasi potenzialità della guerra in forma, procedendo dall’estremo alla negazione formale stessa della guerra, infine all’asimmetria come condizione di normalità. Certamente la potenzialità atomica è stata una sorta di rottura d’ogni schema interpretativo, di tipo razionale storicista o legalista-istituzionale, per la sua caratura autenticamente apocalittica, legandosi solo logicamente e potenzialmente alla deriva dell’estremo, che in tale specificità non è più l’estremodell’uomo-comunità ma l’estremodell’umanità-genere. Dalla rottura epistemologica dell’era atomica, siamo “non-usciti” tramite un progressivo accordo sull’insostenibilità dell’estremo, restando quindi ogni altra teoria interpretativa legittima, ma sostanzialmente bloccata da questa insuperata impasse.
Così, sul piano geostrategico, possiamo anche riconsiderare un Occidenteche possa implodere dall’interno, similmente all’impero sovietico, più che ipotizzare scenari ove dall’esterno vengano spinte decisive. Questo Occidente, imploso dall’interno, farebbe del suo stesso vizio virtù, della sua stessa decadenza resistenza, della sua stessa vigliaccheria una forza, e della sua stessa subdola o sordida volontà di potenza una manifesta linea di radicale cambiamento. Tutte le sue componenti, ora compattate forzosamente ed ipocritamente, ritornerebbero libere a giocare dei ruoli, probabilmente più vicini agli istinti profondi ed alle esigenze reali dei popoli.
Qui allora vanno in secondo piano le semplicistiche scelte pro potenti o pro dannati della terra, pro-islamisti o pro-sionisti, pro-pensiero-forte o pro-pensiero-unico.
Noi, liberati della cappa mondialista, saremmo integri ove fossimo forti di noi stessi, nei modi congeniali e col rispetto totale ed anzi ammaestrante della forza diversa dell’avversario (che sarebbe il nemico, l’Avversario), di turnoaffidato.
Siamo ben consapevoli, però, dell’abisso sul quale ci affacciamo: questo nostro atteggiamento interiore potrebbe essere accusato di nominalismo spiritualista, nominalismo che a molti nominalisti della tradizione (accusa rimpallante...) potrebbe apparire furbesco, ammiccante, ambiguo, e comunque rifuggente dalle scelte totalizzanti e drastiche, dalle apparenti scelte fatte a viso aperto. Il rischio è reale perché l’abisso esteticista (l’abisso paradossale dello stile superiore alla veritàdi benniana memoria) è presente e vicino. E’ reale il rischio dell’errore sulla “verità”, se si privilegia per essa un cammino d’esperienza che non consideri appieno la nostra umanissima fallibilità presso ai meandri labirintici della controiniziazione... Ma di tali meandri non credo se ne possa mai dare una lettura statica, come di un complesso ove non conti il valore e la “buona fede” della persona, ma che deterministicamente (diabolicamente) inglobi il sano e l’insano, il pulito e lo sporco, l’autocritico e l’autoconfermante, il profondo ed il superficiale... E poi per chi come noi crede che la storia ci insegni moltissimo anche se - probabilmente - oltre avere corsi e ricorsi, abbia sicuramente infiniti sensi e versi e direzionalità e buchi neri e logiche dissipative ed illogiche producenti, ma non abbia inizio né fine (almeno sul piano dello stato d’essere che ci è proprio), non si può alla fine che scegliere, non avendo una qualche grazia, dono o magia di fede in una fede rivelata, che questa scelta da imporsi… E noi, tutto sommato e tutto detratto, scegliamo da che parte stare anche se questo è il nostro non recitato dramma interiore. Noi siamo antiatlantisti, antisionisti e per una Europa-Nazione. E questa è una autodefinizione così generale che rischia la genericità. Ma, a tal punto, non c’interessa più, personalmente, (ma quanti di noi avranno compiuto lo stesso lucido atto di coscienza?) la falsa reciproca rappresentazione del mondo occidentale come una lotta d’apparenze fra buono e cattivo, ma una sorta di guerra santa interiore ove noi si possa recuperare in progressione la nostra tradizione romano-italica per intero: non solo perché è la nostra ed, al di là di tutti i nostri giusti o sbagliati innamoramenti ed amori per l’esotico, è quella dei padri, ci è stata affidata e non ne possediamo un’altra, ma perché per noi conta relativamente, a tal punto della nostra consapevolezza, chi stia da una parte del fiume e chi dall’altra, anche se giudichiamo, proprio per tale rivelato interiore complesso sistema di pesi e contrappesi, non senza durezza, chi fra noi perde la strada maestra. Per noi conta, assieme (e valorizzandola) alla scelta che comunque giudichiamo corretta, - molto - come si stia in piedi: con quale spirito, con quale coraggio, con quale consapevolezza, con quello stile di rammemorante distanzache ci ha vocazionalmente nutriti. E questa è l’unica cosa che - speriamo - spazzerà via ogni incomprensione. Ogni confusione. Dentro e fuori di noi.
(*) L’autore crede di poter parlare anche in base ad una sua personale vocazione ed esperienza di cose militari. Infatti ha vissuto l’infanzia e la prima giovinezza in aeroporti militari avendo come genitore un ufficiale pilota, ha compiuto il liceo classico al Collegio Navale Militare Morosini di Venezia, dipoi ha tentato il concorso per l’Accademia dell’Aereonautica Militare vincendolo, ritirandosi successivamente dai corsi ed ha compiuto il servizio militare come Auc dell’Esercito (Carristi), infine passando nei Carabinieri in qualità di Ufficiale, in varie sedi: Palermo, Castelgandolfo, Roma.