*Maurizio Cattelan
Il dibattito sul postmoderno ha avuto l’ennesimo ritorno d’interesse nelle ultime settimane, suscitando la solita selva di opinioni contrapposte. La contrapposizione più netta (almeno apparentemente) è stata quella tra Gianni Vattimo, storico sostenitore del pensiero debole, e Maurizio Ferraris, recente ideatore del “Manifesto del New Realism”. Poiché ho scritto e discusso più volte di postmodernità, agganciandomi anche ad altre questioni che ritengo ugualmente centrali, mi prendo ora la briga di entrare direttamente in questo dibattito. Leggendo lo scambio di battute tra Ferraris e Vattimo la prima impressione è quella che non ci sia nulla di così nuovo di cui parlare: siamo ancora fermi a discutere sulla nota affermazione di Nietzsche: “Non ci sono fatti, ci sono solo interpretazioni”. Da ciò che si può leggere Ferraris sembra in difficoltà nel dare concretezza alla sua nuova proposta. Il “new realism” (già la pochezza della scelta terminologica dovrebbe inquietarci) sembra ancora un’idea piuttosto nebulosa. Il problema nasce tutto da un sillogismo frettoloso da lui avanzato: noi viviamo in un’epoca pervasa dallo spirito postmoderno, l’epoca in cui viviamo è terrificante, quindi il postmodernismo è terrificante. In particolare il “populismo mediatico” è il terribile male che Ferraris attribuisce al postmodernismo. Ha ben ragione Vattimo a rispondergli che non c’è alcuna connessione tra postmoderno e populismo. Ferraris, magari per fomentare l’opinione pubblica, indica in Bush e Berlusconi le figure in cui detto populismo mediatico si è incarnato al meglio. Ora, a parte il fatto che il populismo mediatico non mi sembra l’unico dei problemi attuali, a parte il fatto che se si citano Bush e Berlusconi si devono citare pure Obama e Grillo e molti altri che di populismo mediatico sono espressione e interpreti accreditati, il problema sta tutto in quel legame tra populismo mediatico e postmoderno che Ferraris dà per scontato. Siamo così sicuri che pensiero debole e postmoderno generino automaticamente il populismo? Le cose stanno diversamente. Come ho affermato nel manifesto “Presentismo: ultima deriva dell’uomo contemporaneo” l’accusa non andrebbe genericamente rivolta al postmoderno, ma ad una certa interpretazione (anche qui interpretazioni) leggera del postmoderno stesso, interpretazione che ho definito con il termine “presentismo”, o altre volte “pensiero molle”. Secondo questa particolare visione del mondo (il presentismo appunto) non solo nel mondo non c’è una verità, ma le interpretazioni sono inutili, perchè tutto si equivale e non vale la pena neppure provare a cercarla la verità. Mentre quindi i migliori spunti della neoermeneutica possono condurre ad un mondo in cui il proliferare delle interpretazioni creano quella vitalissima ricchezza di punti di vista e visioni del mondo che unicamente può permettere al singolo individuo di liberare se stesso e incontrare serenamente l’altro, questo “pensiero molle” presentista conduce direttamente ad una penosa palude in cui tutto giace indistinto e privo di qualsiasi spinta vitale.
Si dovrà comunque ammettere che, se tutto ciò è accaduto, il pensiero debole e il postmoderno portavano (e portano) con sé il rischio di queste derive annacquate. L’errore però sta nell’attribuire frettolosamente tutto ciò all’intero pensiero postmoderno. La neoermeneutica e il postmoderno non sono teorizzazioni sballate, ma contengono al loro interno due errori fatali che occorre esaminare.
Innanzitutto neoermeneutica e postmoderno non potevano realizzarsi pienamente nel momento in cui sono stati teorizzati. Parliamo pure di Berlusconi, ma con cognizione e senza facilonerie (sono semplici interpretazioni anche queste). Abbiamo un uomo che fa parte di un’epoca in fase di estinzione, l’epoca televisiva; la telecrazia è un fenomeno degli anni Ottanta (e infatti in contesti simili bisognerebbe citare Reagan, non Bush), ed è legata ad un mondo in cui la televisione è il medium dominante. Non è un caso che il fascino di Berlusconi sia andato riducendosi, passando dalla brillantezza contagiosa del ’94 alla stanchezza deprimente degli ultimi anni. Non si tratta solo di un logorio fisico dovuto al naturale invecchiamento, è un segno evidente del fatto che Berlusconi è in fase declinante perché è declinante il paradigma telecratico a cui si è da sempre appoggiato. Qualcosa di nuovo sta emergendo. E non è il “New Realism”, ma una nuova fase dell’avanguardia artistica e socio-culturale, è la terza avanguardia. Le proposte del secondo Novecento di cui stiamo discutendo (e qui mi riferisco in particolare alla neoermeneutica e in parte anche al pensiero debole) non hanno fallito, ma sono state avanzate con troppa fretta da alcune avanguardie di pensiero, che hanno fatto i conti soltanto a tavolino, senza considerare la realtà con cui si sarebbero scontrati. L’errore è stato teorizzare tutto questo senza comprendere che non c’erano ancora le condizioni storiche perché tutto questo potesse trasformarsi in realtà. Questo è il rischio delle “avanguardie filosofiche” (mi sia concesso il quasi ossimoro), proposte da chi è capace di grandi salti in avanti di pensiero, ma perde troppo spesso il contatto sensoriale con il mondo reale e quindi finisce per il proporre qualcosa che in teoria potrebbe funzionare, ma in realtà si rivela fallimentare. Occorre il pensiero, ma è altrettanto fondamentale mettere alla prova la nostra sensibilità. Perché nel secondo Novecento la neoermeneutica e il pensiero debole non hanno vinto, ma hanno contribuito a generare il presentismo e il pensiero molle? La risposta sta nel mondo in cui vivevamo: fino a dieci anni fa il populismo mediatico che denuncia Ferraris si è potuto imporre perché i media dominanti erano televisione, stampa e radio (e non dimentichiamo il cinema). Mai un uso tanto massiccio di media di massa si era abbattutto sulla popolazione occidentale. La questione decisiva è che questi media, che generano e riproducono costantemente non solo il populismo politico ma anche tutto il pensiero dominante, sono tutti media che trasmettono in modo monodirezionale. Media, quindi, che non possono aiutare quella pluralità di punti di vista e interpretazioni che resta il punto forte del pensiero debole. Solo oggi, nel momento in cui i media di massa cedono gradualmente il passo (pur tra mille difficoltà, rischi e contraddizioni) ai media interattivi e partecipativi, le migliori intuizioni del postmoderno e della neoermeneutica possono realizzarsi.
Il secondo errore di cui postmoderno e il pensiero debole si sono resi responsabili è stata la negazione della possibilità del superamento. Questo appiattirsi sulla dimensione del recupero e del riciclo è stata in parte una grande e positiva novità, ma alla lunga ha generato anch’essa un impaludamento. Nella condizione in cui siamo, le migliori intuzioni del postmoderno e del pensiero debole possono essere salvate – è questo il più grande paradosso – soltanto se una fase di avanguardia, appoggiandosi e prendendo a modello il paradigma che si è sviluppato a partire dalla rete globale, darà la spallata decisiva al mondo dominato dal sapere tipografico e televisivo, saperi gerarchici trasmessi senza una diffusa possibilità di confutazione e quindi negando la dimensione fondamentale della pluralità. Il problema dell’auctoritas resta sempre fondamentale, come ben vede Vattimo. La posizione di Ferraris sembra davvero una posizione di retroguardia, tesa al ripristino di un sapere controllato, anche se non ci capisce bene da chi.
Il postmoderno, ad indagarlo a fondo, può considerarsi come un ultimo risultato delle avanguardie novecentesche, che per prime posero sotto assedio il paradigma monolitico e accademico che rinchiudeva l’individuo in una serie di saperi tramandati da secoli, ma ormai, nell’era dell’elettricità e della comunicazione continua, completamente anacronistici. L’attacco del Futurismo alle accademie, alle biblioteche, al professoralismo, la sfida Dada all’Arte stessa, l’assalto del Situazionismo a tutte le strutture di potere: tutto questo doveva sfociare nella neoermeneutica e nel pensiero debole. E invece, per una serie di circostanze probabilmente non aggirabili, siamo piombati tra presentismo e pensiero molle. Il postmoderno, a dirla tutta, ha commesso il grande errore di negare tutto quello spirito di contestazione avanguardistico e radicale da cui era nato, e negando l’avanguardia e l’idea di superamento si è condannata al presentismo e all’impaludamento.
In ultima analisi, Ferraris non ha davvero nessuna possibilità di combinare qualcosa di buono con il suo “New Realism”, perché sta andando nella direzione della restaurazione, mentre occorre portare a compimento il superamento intrapreso già da un secolo. Oltrepassare l’esperienza postmoderna può essere possibile solo se ci rendiamo conto che l’avanguardia è una condizione indispensabile in un mondo che si trasforma tanto rapidamente. Se ci fermeremo a riflettere su questi aspetti, ci renderemo conto che il miglior postmoderno non è altro che una fase timida e indecisa di quell’avanguardia costante che ci tiene vigili, vivi e vitali da un secolo almeno.