Crisi economica significa, in poche parole, lasso di tempo (più o meno lungo) durante il quale si verifica una caduta generalizzata dei livelli delle attività economico - finanziarie. Le imprese non riescono più a vendere i propri prodotti, le scorte aumentano fino a quando non si è costretti a fermare la produzione. Ne consegue un aumento esponenziale del tasso di disoccupazione, l’inutilizzazione degli impianti, la diminuzione dei redditi ed il crollo dei consumi; i prezzi dei prodotti, a quel punto, subiscono una riduzione per sovrabbondanza di offerta rispetto alla domanda. Si crea, cioè, una reazione a catena che - a sua volta - porta un vero e proprio circolo vizioso. Se questo stato di cose perdura per troppo tempo, l’economia si avvia verso una fase di depressione, comunemente denominata recessione.
Alla fine della prima guerra mondiale, l’Europa si ritrovò in enorme difficoltà, poiché era stata in gran parte distrutta dai conflitti. La fase della ricostruzione fu però complessa e stentò a decollare. Il vecchio continente fu pertanto costretto ad importare merci e prodotti dagli Stati Uniti d’America, con conseguente e crescente indebitamento nei confronti del nuovo continente.
Negli USA, tutto questo favorì la concentrazione produttiva in impianti di grandi dimensioni, in modo da sfruttare le economie di scala. L’organizzazione del lavoro, divenne elemento di studio (si diede, ad esempio, vita a enormi catene di montaggio). A sua volta, anche il mondo della finanza iniziò un processo di concentrazione della ricchezza. Tutto questo avvenne senza alcun tipo di regolamentazione, perché gli economisti classici (tra i quali ricordiamo Ricardo), affermavano che il sistema era in grado di autoregolarsi.
Le grandi società capogruppo (holding) iniziarono, perciò, ad influenzare il mercato, operando in modo spregiudicato in Borsa (Wall Street).
Furono, dunque, questi gli anni, i processi e le condizioni che posero le basi che trasformarono l’America nella più grande potenza economico – finanziaria del mondo. Ben presto, però, si determinò una sovrapproduzione e le borse divennero arena per ingenti speculazioni, tanto che si ebbe un gap sempre più evidente tra quotazione azionaria dei titoli societari e reale produttività delle stesse aziende. Fattore aggravante, si dimostrò il fatto che, spesso, i profitti non venivano reinvestiti e, quindi, non si ponevano le condizioni per la futura innovazione tecnologica. Tutto ciò, come ricordato, ben presto portò ad un aumento dell’inflazione; molti operai vennero licenziati, con conseguente inizio di un lungo processo di rivendicazioni sindacali.
Nelle campagne degli Stati UNiti, la situazione non era certo migliore: il suprlus produttivo determinò una caduta libera dei prezzi delle derrate alimentari. I contadini si ritrovarono così con debiti sempre più ingenti, che furono peggiorati, negli anni successivi, da una forte siccità e dal totale disinteresse delle banche americane, interessate solo a lucrare attraverso l’esproprio delle terre. Intere famiglie restarono senza mezzi di sostentamento. Steinbeck descrisse questa situazione in modo particolarmente accurato nel suo più noto romanzo (Furore il cui titolo originario è ‘The grapes of the
Wrath’, ossia I frutti della rabbia), in cui si narra la lunga marcia di una famiglia alla ricerca di nuove terre. L’attenzione e la sensibilità di questo autore nei confronti dei più poveri, ossia di coloro che giorno per giorno a stento riuscivano a sfamarsi, lo portò a predisporre un documentario, girato nel '40, sulle condizioni di vita della società rurale messicana (il cui titolo è "The forgotten Village")
La crisi economica, quindi, serpeggiava già da tempo, ma è solo nell’ottobre del 1929 che esplose in tutta la sua drammaticità: le azioni crollarono, molte attività furono chiuse ed i lavoratori si ritrovarono licenziati in massa. La recessione che ne conseguì, ufficialmente durò fino al 1932 ma, in realtà, si risolse del tutto solo con lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Il 1932 fu l’anno in cui divenne presidente Roosevelt che mise in atto un intervento statale a sostegno delle situazioni di maggiore fragilità (fino ad allora infatti, i fenomeni economici – come ricordato - erano stati lasciati liberi di ‘autoregolarsi’). Gli interventi statali, in America, comportarono l’introduzione di varie azioni assistenziali (anche di tipo sanitario e pensionistico), l’istituzione di enti per la tutela del lavoro e per la mediazione fra le parti in conflitto, la programmazione di lavori pubblici. Le riforme furono, però, spesso osteggiate dalla Corte Suprema e da altri organi statali. Questo periodo e tutti gli interventi che lo caratterizzarono, divennero noti come ‘new deal’. Roosevelt ottenne - in tal modo - grande fiducia da parte degli americani che lo rielessero con una maggioranza schiacciante.
Gli artisti, proprio in quegli anni, iniziarono a porre sempre più attenzione alla questione sociale, anche se - in modo più o meno velato - venne tentata una sorta di ‘censura’, attivata ponendo l’accento su quel che veniva fatto per contrastare i problemi, omettendo invece di parlare troppo apertamente degli stessi.
Steinbeck, in tutti i suoi romanzi, parlò della condizione di vita dei più disagiati, sia nelle campagne che nelle città. Egli, tuttavia, restò sempre e comunque un americano convinto, un patriota; per questo molti suoi personaggi non s’arrendono mai e, di fronte alle difficoltà, cercano una qualche forma di riscatto, inseguendo il famoso sogno americano (‘in uomini e topi’, ad esempio, i protagonisti tentano e sognano fino alla fine di acquistare una fattoria per riscattarsi dalla vita di semplici lavoranti). Questo scrittore, che sempre si schierò dalla parte di poveri e diseredati, arrivò a condannare e denunciare l’assurdità di un sistema che aveva bruciato una enorme ricchezza. A tal proposito, infatti, scrisse: “Ricordo le facce inebetite e felici della gente che costruiva fortune di carta sulle azioni. […] Poi la gente smise di fare investimenti, e anche questo lo vidi con chiarezza, perché alla Depressione mi esercitavo da tempo. Non fui travolto dal crollo. Ricordo che venivano intervistati i Big Boys - i banchieri e gli industriali - quelli che sapevano. Alcuni acquistarono spazi per rassicurare i milionari in rovina: ‘È solo un ribasso fisiologico. ‘Non temete: comprate, continuate a comprare’. Intanto i Big Boys vendevano e il mercato implose.” (giugno 1960).
Molti altri scrittori ed artisti, iniziarono ad occuparsi della società e dei meccanismi regolatori. Oltre al più noto Steinbeck, ricordiamo autori come Passos, Eugene O’Neill, William Faulkner, ecc.
In occidente, dove la rivoluzione industriale si sviluppò prima del’900, i problemi delle masse e dei lavoratori erano già noti e quindi trattati dagli scrittori a partire dalla seconda metà dell’800. Nella prima metà di questo secolo, infatti, i periodi di crisi erano già divenuti ricorrenti, ossia ciclici. La letteratura, pertanto, s’incentrò, con frequenza sempre maggiore, su tematiche quali la povertà, la condizione dei lavoratori (a tal proposito si scriveva del lavoro all’interno delle miniere, dello sfruttamento di donne e bambini, ecc…). Victor Ugo, nel famoso romanzo “I miserabili” narra delle condizioni di miseria cui sono ridotte le persone prive di lavoro, evidenziando, però, anche la possibilità di guadagnare e di far arricchire una intera zona della Francia, quando l’imprenditore - protagonista del romanzo - non adotta logiche di tipo speculativo. Anche Balzac, nei suoi romanzi, ha tratteggiato con minuzia di particolari una società dedita solo all’arricchimento spregiudicato. Questo scrittore, riconosceva come causa delle pressioni sociali, la forza del denaro (capace di configurare nuovi potenti e nuovi ‘valori’, nonché l’origine della differenziazione dei tipi umani). Per Balzac, la forma narrativa del romanzo era la più adatta a rappresentare il complesso divenire della società dell’epoca, perché permetteva di porre in luce contemporaneamente la tragicità non solo della storia ma anche le tragedie della vita privata (tra cui spiccano l’alienazione e la mancanza di moralità).
Ne le “Illusioni perdute”, ad esempio, accanto alla descrizione dei meccanismi con cui il sistema bancario si arricchiva (l’usura delle lettere di credito in primis), lo scrittore descrive anche l’uso indiscriminato del giornalismo parigino, quale strumento di ricatto. Anche Steinbeck, nel romanzo “Quel fantastico giovedì”, ritrae la figura del banchiere e l’istituzione bancaria quale centro di potere della comunità. È però tra la fine dell’800 ed i primi decenni del 900, che gli aspetti sociali diventano ancora più pressanti e drammatici anche in Europa. La letteratura tedesca è stata forse la più attenta a questo inasprirsi degli aspetti economico sociali. Uno dei romanzi più significativi, in tal senso, è “Berlin Alexanderplatz” di Alfred Döblin (1929), ma non vanno dimenticate opere quali Der Zauberberg di Thomas Mann (1924) e Das Schloss di Franz Kafka (1922), opere che possono essere lette anche come spaccato storico – politico. La trasformazione del romanzo tedesco avvenne ad opera di alcuni scrittori che, nel trattare argomenti impegnati, iniziarono ad utilizzare una scrittura più scarna, simile a quella del giornasti.
In Italia, la crisi del’29, arrivò nel 1931, due anni dopo il crollo delle borse; inizialmente colpì larghi settori dell'industria. Le banche si resero però ben presto conto che, in una situazione del genere, i loro crediti avevano perso tutto il loro valore. Chiesero pertanto aiuto alla Banca d'Italia che rispose immediatamente, ma fu trascinata nella crisi. Anche il Governo italiano dovette perciò intervenire in modo pesante (anche creando appositi istituti) e, dopo aver risanato le banche e salvato le imprese, si dedicò all'economia reale.
Tutti gli interventi statali portati avanti dai vari Stati per arginare le difficoltà causate dalla crisi del 1929, indussero molti economisti a credere che una adeguata politica economica è in grado di cambiare il destino di intere Nazioni. Questo li indusse anche a pensare che un crac come quello dei primi del’900, non si sarebbe mai più ripetuto. Questo significava che le teorie degli economisti classici erano superate perché gli eventi avevano dimostrato l’incapacità del sistema economico finanziario di autoregolarsi.
Ed infatti, dopo i risanamenti degli anni’30 ed i massicci interventi attuati a partire dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla prima metà del 1970, le economie capitalistiche hanno vissuto un periodo di espansione, in cui si ricordano solo brevissimi e limitati periodi negativi.
In realtà, le crisi non sono mai facili da studiare ed affrontare, perché in esse intervengono diversi fattori (tra cui ricordiamo le complesse interazioni tra struttura economica, forme di mercato e strumenti finanziari) che mutano le condizioni di base ed il numero degli elementi coinvolti. Per questo, la crisi economico finanziaria, resta uno spauracchio di cui si temono le conseguenze..
Non a caso, del resto, Keynes affermava che problemi nuovi richiedono soluzioni nuove. A partire dall’ultimo periodo del secolo scorso, si tornò invece ad una economia libera, priva cioè di interferenze da parte dei vari governi. È infatti verso la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 che, con la vittoria di Margaret Thatcher in Inghilterra (1979) e di Ronald Reagan negli Usa (1980) inizia la controrivoluzione liberista. politica di deregulation, seguita da tutti gli altri paesi dell’OCSE e da tutti gli organismi
finanziari internazionali (FMI, Banca mondiale, WTO). Le politiche contrarie all’interferenza dello Stato nell’economia vennero poi imposte anche a tutti i paesi del terzo mondo.
Questo ritorno al passato, venne perseguito dai vari Governi; in Italia, l’onda neo-liberista, come al solito, arrivò in ritardo, ossia agli inizi degli anni ’90. Si ebbero così nuove crisi finanziarie: ricordiamo, a solo titolo di esempio, il venerdì nero del 19 ottobre 1987, le svalutazioni asiatiche del ’97, lo scoppio della bolla della New Economy nel marzo 2000).
Il 1929 fu comunque un anno difficile che divenne vero e proprio spartiacque nella storia dei valori collettivi, nonché nell'evoluzione politica, finanziaria e sociale del mondo intero.
Studiando la storia, Keynes evidenziò che, nelle società preindustriali, le crisi erano causate da carestie, catastrofi naturali, epidemie, guerre, ecc. Con l’avvento dell’industrializzazione, però, si assiste ad un cambiamento radicale: le crisi non sono più provocate da carenza o carestia, ma dall’abbondanza, ossia da un eccesso di derrate e prodotti che il mercato non riesce o non può assorbire, per sovrapproduzione o per mancanza di potere d’acquisto da parte di coloro che necessitano di quelle merci. Molti sono gli economisti che hanno studiato il gap che si crea nei mercati tra domanda ed offerta, per tentare di rispondere ad una domanda di fondamentale importanza: per quale motivo, ad un certo punto, il meccanismo s’inceppa e determina un divario in grado di causare gravi problemi?
Ricardo e gli economisti classici, non credevano nella possibilità di creazione di sovrapproduzione o divari tra domanda e offerta di tipo generale, ma solo una difficoltà sporadica e limitata nella vendita di un solo prodotto/merce. Karl Marx, invece, sostenne che la crisi si può verificare anche in un’economia monetaria semplice (come si può definire quella dell’800) perché ogni scambio è mediato dal denaro. Il denaro, infatti, distingue in modo netto la fase dell’acquisto da quella produttiva. In una economia capitalistica, le crisi sono potenzialmente sempre più frequenti e distruttive perché le merci sono prodotte col fine principale di essere vendute. Le tecniche di marketing e la pubblicità diventano perciò strumenti importanti per tentare di attrarre l’acquisto da parte dei consumatori. Queste nuove teorie, dunque, riconoscono che, proprio come la storia, anche l’economia capitalistica più semplice ha un andamento ciclico. Non si conosce però né la durata di ogni ciclo, né i correttivi necessari per superarla. Si è solo visto che, senza interventi correttivi, le crisi diventano più gravi e durature.
Vari autori continuarono a scrivere su questi argomenti durante tutto il novecento. A solo titolo di esempio, ricordo - tra gli scrittori italiani Pierpaolo Pasolini che scrisse un romanzo colossale (rimasto però incompiuto) intitolato ‘Petrolio‘. Ermanno Rea scrisse a sua volta ‘La dismissione’, che ripercorre lo smantellamento dell’Italsider
di Bagnoli e la crisi del modello industriale vigente.
Anche in America si continuò a scrivere e parlare di valori sociali. Nelle poesie e nei racconti di Raymond Carver o di Richard Yates si possono individuare molte tematiche elementi. Yates, ad esempio, nella raccolta di racconti dal titolo“Undici solitudini” scritta nel 1950, caratterizzò in modo realistico vari personaggi la cui difficile esistenza è metafora della vita condotta nella città di New York.. In ‘Revolutionary Road’ (uscito nel 1962) l’autore narra invece l’infrangersi del sogno americano. È un racconto crudo che descrive il nuovo agglomerato periurbano americano, in cui dominano i supermarket, ed i chioschi di leccornie, per un popolo che vive nell’abbondanza ed è già predisposto all’obesità. Nel finale del libro si può leggere: “Il quartiere di Revolutionary Road non era stato progettato in funzione di una tragedia… Un uomo intento a percorrere di corsa queste strade, oppresso da un disperato dolore era fuori posto in modo addirittura indecente”.
In campo musicale sono diventate famosissime, le canzoni di Bruce Springsteen, (tra cui, una delle più citate è “Darkness On The Edge Of Town”, del 1978). Il testo è infatti molto significativo:
“Qualcuno è nato sotto una buona stella qualcun altro se la procura in qualche modo, comunque
ho perso il mio denaro, ho perso mia moglie queste cose ora non sembrano aver troppo peso per me
stanotte sarò su quella collina, perché non mi posso fermare,
sarò su quella collina con tutto ciò che è mio.
Vite sul confine dove i sogni sono persi e
trovati
sarò lì in tempo e pagherò il prezzo
per volere le cose che possono essere trovate soltanto
nell’oscurità, alla periferia della città”.
Molti altri però sono i cantautori che si possono ricordare.
La crisi mondiale attuale, ossia quella del XXI secolo, per molti aspetti non differisce dalle logiche ricordate finora. Siamo di nuovo entrati in recessione. Anche quest’ultimo periodo di difficoltà, ha avuto origine negli Usa, per poi diffondersi in tutti gli altri Paesi del mondo; è partita dal sistema finanziario, ma si è estesa all’economia reale con una velocità vertiginosa.
Si è infatti ritenuto, ancora una volta (cfr. Galbraith, Il grande crollo) che, essendo il mondo profondamente mutato e disponendo di nuovi strumenti di analisi e previsione dei trend, il capitale fosse garantito dal rischio. Ancora una volta si sono invece resi necessari dei correttivi generali, ossia degli interventi da parte dei vari Governi per cercare di arginare le conseguenze più catastrofiche della prima grande crisi del nuovo secolo.
I Governi dei vari Paesi ed il nuovo presidente degli Usa, Barack Obama stanno perciò tentando di salvare o sostenere il sistema bancario e assicurativo, ripristinando un controllo sui colossi della finanza.
Altri interventi sono stati messi a punto per salvaguardare l’ambiente, sostenere le industrie, ecc. Si tratta, insomma, della riproposizione di un massiccio intervento pubblico nell’economia, attraverso l’impiego di diverse tipologie di strumenti.
Roosevelt, nel lontano 1932, cercava di tranquillizzare gli americani attraverso lunghi discorsi ai cittadini diffusi via radio; oggi, proprio come allora, si ricorda la necessità di compiere sacrifici per risollevare le sorti del Paese ma, allo stesso tempo si ricorda che non bisogna preoccuparsi troppo e continuare a comprare, perché la situazione è sotto controllo. In realtà, lo smarrimento in cui la società è precipitata, dopo quasi un trentennio di dominio culturale e ideologico definito neo-liberismo (per distinguerlo da quello invalso nell’800), è stato sconvolgente. Le previsioni di Keynes tornano ad essere più attuali che mai. Sulla necessità di fare sacrifici per risolvere i problemi, questo economista aveva spiegato che questa non era la strada giusta. Egli, aveva infatti scritto: «Se la nostra povertà fosse dovuta a una carestia, a un terremoto o a una guerra, se ci mancassero beni essenziali e le risorse per produrli, non potremmo aspettarci di trovare i mezzi per raggiungere il benessere se non nel duro lavoro, nell’astinenza, e nell’inventiva. In realtà i nostri guai sono di altro genere. Essi provengono da qualche guasto nei meccanismi impalpabili della mente, nel funzionamento delle motivazioni che dovrebbero portare alle decisioni e agli atti di volontà, indispensabili per mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici da noi già posseduti. E come se due automobilisti, incrociandosi nel mezzo di una strada principale, fossero incapaci a decidersi su come passare perché nessuno conosce il codice stradale.(…) Nulla è richiesto e nulla sarà di aiuto se non un piccolo ragionamento.
Così anche il nostro (...) è, in senso stretto, un problema economico o meglio, visto che si presenta come una miscela di teoria economica e di arte di governo, un problema di economia politica. Ho richiamato l’attenzione sull’essenza del problema perché questa ci indica la natura in qualche espediente. Ma ci sono molti che vedono con sospetto gli espedienti e dubitano istintivamente della loro efficacia. Vi è ancora gente che crede che la via d’uscita possa essere trovata con il duro lavoro, la pazienza, la frugalità, più perfezionati metodi negli affari, una attività bancaria più cauta e soprattutto evitando espedienti (…). Dovremmo essere sospettosi dei calcoli dell’uomo di Stato che, già oberato dalle spese per l’assistenza dei disoccupati, ci dice che se egli mettesse a lavoro le persone per costruire case ciò comporterebbe pesanti passività, presenti e future» Keynes, J. M.; “I mezzi per raggiungere il benessere economico”, in Come uscire dalla crisi, Editori Laterza, Bari, 1983.
Oggi, dunque, siamo di nuovo in affanno, ma sembrano mancare scrittori con la forza narrativa di Stenbeck. Le informazioni, però, sono più facilmente fruibili rispetto al passato, anche se, tra i vari problemi, si ha una nuova e ben più evidente crisi del giornalismo: le notizie vengono prodotte e sfruttate come qualsiasi altra risorsa (il tema che nell’800 era stato proposto da Balzac, nel’900 è ripreso da Terzani che,in molti suoi libri, ricorda la crisi del giornalismo). Il cinema americano impegnato è divenuto, però, sempre più mezzo per documentare e sempre meno elemento di svago, ossia di pura fiction. Si è già parlato a lungo del docu-film sulla crisi finanziaria, intitolato "American Casino" e girato dalla giornalista tv Leslie Cockburn. In esso si descrive il problema delle minoranze che, non riuscendo a far fronte ai mutui, perdono le proprie case, nonostante nel 2002 il Presidente Bush avesse promesso aiuti per evitare tutto ciò. Un banchiere racconta, inoltre, la facilità con cui tutti rischiavano coi soldi altrui. " The Company Man" è invece un film indipendente di John Wells, ambientato a Boston in cui si fanno risaltare le conseguenze dei licenziamenti sui lavoratori di una azienda. "Conspiracy of Fools" è invece un film tratto dal libro omonimo di Kurt Eichenwald, il cui tema dominante è la truffa. Non si può infine ricordare anche il sequel di "Wall Street".
Le condizioni attuali vedono le banche e le Compagnie assicurative in grave sofferenza ed, in alcuni casi, in fallimento a discapito dei risparmiatori. Anche nelle campagne vi è stato un crollo dei prezzi pagati ai produttori. Oggi come allora, si sono attivati degli interventi per sostenere le situazioni di maggiore gravità e dare fiducia ai cittadini che perdono il lavoro e non hanno redditi sufficienti. Tutto, come ricordato, è in gran parte partito di nuovo dagli Stati Uniti, dai mutui e dai crediti non pagati. Tutto si è aggravato a causa di imprenditori che, invece di reinvestire gli utili, hanno speculato in borsa, fidandosi di banche che si arricchivano, mentre i primi si indebitavano. Tutto, quindi, sempre si ripete.