Il Giornale
Attaccano Sgarbi
ma la sua mostra è
a "regola d'arte"
«Una
mostra che corrisponde al genium , prima ancora che al genus , della
nostra città». Così Renato Barilli, professore emerito dell'Università
di Bologna, saluta Da Cimabue a Morandi , l'esposizione promossa da
Fabio Roversi Monaco, già rettore dell'Università felsinea, ora alla
guida di «Genius Bononiae».
Eppure quella che si annuncia come la più importante
carrellata sulla storia dell'arte bolognese di sempre, affidata alla
curatela di Vittorio Sgarbi, è al centro di una polemica che vede
contrapposti da un lato Daniele Benati, professore di storia dell'arte a
Bologna, e dall'altro lo stesso Sgarbi. Benati ha promosso un appello
contro la mostra. L'oggetto del contendere sono le opere che verrebbero
concentrate in una sede considerata - ma è davvero così? - privata. Tra
queste la Madonna in trono di Cimabue, conservata nella chiesa di Santa
Maria dei Servi, il San Domenico di Nicolò dell'Arca dal Museo di San
Domenico, l' Estasi di santa Cecilia di Raffaello dalla Pinacoteca.
Il documento di Benati, firmato anche da Carlo Ginzburg della Normale
di Pisa, Antonio Pinelli dell'Università di Firenze, Keith Christiansen
del Metropolitan di New York, definisce la mostra «priva di alcun
disegno storico e della benché minima motivazione scientifica, un
insulto alle opere, trattate come soprammobili, all'intelligenza del
pubblico; alla memoria di Longhi e Arcangeli e - naturalmente - un
attacco ai musei, con la colpevole connivenza di chi li dirige».
Eppure Barilli afferma di «aver provato un morso d'invidia» di fronte
al progetto della mostra, raccontando di aver provato a sua volta ad
allestire un disegno simile quindici anni fa, osteggiato allora da
Andrea Emiliani ed Eugenio Riccomini. Corsi e ricorsi storici: a muover
l'appello sembra soprattutto l'invidia. Non si spiega altrimenti perché
sino a oggi i firmatari abbiano assistito impassibili a trasferimenti di
opere come il San Sebastiano curato da Irene del Guercino, che andrà a
Tokyo, o il Polittico di Giotto che sta per sbarcare a Milano per la
mostra di Palazzo Reale. E invece ci s'indigna perché la Santa Cecilia
verrà spostata di un chilometro scarso, con un danno comunque non
superiore a poche decine di biglietti al giorno per la Pinacoteca
Nazionale, mentre nessuno è andato a misurare quanto può valere per
l'indotto della città una mostra che mette in fila, proprio secondo la
prospettiva indicata da Arcangeli e Longhi, tutti i capolavori dell'arte
bolognese.
Quanto alle ragioni della mostra, è Sgarbi a spiegarcele: «Tutto è
iniziato l'anno scorso da una polemica a distanza con Goldin, che aveva
portato a Palazzo Fava La ragazza con l'orecchino di perla . Avevo
suggerito che si poteva tentare un'operazione meno commerciale con
un'altra formidabile opera unica, il mio San Domenico di Nicolò
Dell'Arca. Su quell'idea germinale sono poi andato aggiungendo altri
pezzi capitali, da Cimabue a Raffaello. La Santa Cecilia , per inciso,
nel 2012 è stata a Madrid e al Louvre. Allora nessuno, tanto meno
Benati, si era mosso».
«Una
mostra che corrisponde al genium , prima ancora che al genus , della
nostra città». Così Renato Barilli, professore emerito dell'Università
di Bologna, saluta Da Cimabue a Morandi , l'esposizione promossa da
Fabio Roversi Monaco, già rettore dell'Università felsinea, ora alla
guida di «Genius Bononiae».
Eppure quella che si annuncia come la più importante
carrellata sulla storia dell'arte bolognese di sempre, affidata alla
curatela di Vittorio Sgarbi, è al centro di una polemica che vede
contrapposti da un lato Daniele Benati, professore di storia dell'arte a
Bologna, e dall'altro lo stesso Sgarbi. Benati ha promosso un appello
contro la mostra. L'oggetto del contendere sono le opere che verrebbero
concentrate in una sede considerata - ma è davvero così? - privata. Tra
queste la Madonna in trono di Cimabue, conservata nella chiesa di Santa
Maria dei Servi, il San Domenico di Nicolò dell'Arca dal Museo di San
Domenico, l' Estasi di santa Cecilia di Raffaello dalla Pinacoteca.
Il documento di Benati, firmato anche da Carlo Ginzburg della Normale di Pisa, Antonio Pinelli dell'Università di Firenze, Keith Christiansen del Metropolitan di New York, definisce la mostra «priva di alcun disegno storico e della benché minima motivazione scientifica, un insulto alle opere, trattate come soprammobili, all'intelligenza del pubblico; alla memoria di Longhi e Arcangeli e - naturalmente - un attacco ai musei, con la colpevole connivenza di chi li dirige».
Eppure Barilli afferma di «aver provato un morso d'invidia» di fronte al progetto della mostra, raccontando di aver provato a sua volta ad allestire un disegno simile quindici anni fa, osteggiato allora da Andrea Emiliani ed Eugenio Riccomini. Corsi e ricorsi storici: a muover l'appello sembra soprattutto l'invidia. Non si spiega altrimenti perché sino a oggi i firmatari abbiano assistito impassibili a trasferimenti di opere come il San Sebastiano curato da Irene del Guercino, che andrà a Tokyo, o il Polittico di Giotto che sta per sbarcare a Milano per la mostra di Palazzo Reale. E invece ci s'indigna perché la Santa Cecilia verrà spostata di un chilometro scarso, con un danno comunque non superiore a poche decine di biglietti al giorno per la Pinacoteca Nazionale, mentre nessuno è andato a misurare quanto può valere per l'indotto della città una mostra che mette in fila, proprio secondo la prospettiva indicata da Arcangeli e Longhi, tutti i capolavori dell'arte bolognese.
Quanto alle ragioni della mostra, è Sgarbi a spiegarcele: «Tutto è iniziato l'anno scorso da una polemica a distanza con Goldin, che aveva portato a Palazzo Fava La ragazza con l'orecchino di perla . Avevo suggerito che si poteva tentare un'operazione meno commerciale con un'altra formidabile opera unica, il mio San Domenico di Nicolò Dell'Arca. Su quell'idea germinale sono poi andato aggiungendo altri pezzi capitali, da Cimabue a Raffaello. La Santa Cecilia , per inciso, nel 2012 è stata a Madrid e al Louvre. Allora nessuno, tanto meno Benati, si era mosso».
Il documento di Benati, firmato anche da Carlo Ginzburg della Normale di Pisa, Antonio Pinelli dell'Università di Firenze, Keith Christiansen del Metropolitan di New York, definisce la mostra «priva di alcun disegno storico e della benché minima motivazione scientifica, un insulto alle opere, trattate come soprammobili, all'intelligenza del pubblico; alla memoria di Longhi e Arcangeli e - naturalmente - un attacco ai musei, con la colpevole connivenza di chi li dirige».
Eppure Barilli afferma di «aver provato un morso d'invidia» di fronte al progetto della mostra, raccontando di aver provato a sua volta ad allestire un disegno simile quindici anni fa, osteggiato allora da Andrea Emiliani ed Eugenio Riccomini. Corsi e ricorsi storici: a muover l'appello sembra soprattutto l'invidia. Non si spiega altrimenti perché sino a oggi i firmatari abbiano assistito impassibili a trasferimenti di opere come il San Sebastiano curato da Irene del Guercino, che andrà a Tokyo, o il Polittico di Giotto che sta per sbarcare a Milano per la mostra di Palazzo Reale. E invece ci s'indigna perché la Santa Cecilia verrà spostata di un chilometro scarso, con un danno comunque non superiore a poche decine di biglietti al giorno per la Pinacoteca Nazionale, mentre nessuno è andato a misurare quanto può valere per l'indotto della città una mostra che mette in fila, proprio secondo la prospettiva indicata da Arcangeli e Longhi, tutti i capolavori dell'arte bolognese.
Quanto alle ragioni della mostra, è Sgarbi a spiegarcele: «Tutto è iniziato l'anno scorso da una polemica a distanza con Goldin, che aveva portato a Palazzo Fava La ragazza con l'orecchino di perla . Avevo suggerito che si poteva tentare un'operazione meno commerciale con un'altra formidabile opera unica, il mio San Domenico di Nicolò Dell'Arca. Su quell'idea germinale sono poi andato aggiungendo altri pezzi capitali, da Cimabue a Raffaello. La Santa Cecilia , per inciso, nel 2012 è stata a Madrid e al Louvre. Allora nessuno, tanto meno Benati, si era mosso».