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Giovanni Sessa in Libro Manifesto "Nuova Oggettività" : intervista


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INTERVISTA A GIOVANNI SESSA

D- Nuova Oggettività o New Realism –nuova sbandierata rotta oltre il postmoderno di certa area storicamente “Gauche” – nel futuro prossimo?
R- Credo certamente che il recupero di un approccio al mondo segnato dalle prospettive implicite nella Nuova Oggettività, così come esse sono state delineate nel Libro-Manifesto. Per una Nuova oggettività. Partecipazione, popolo, destino, possa essere considerata la via per la fuoriuscita dalle secche, esistenziali, politiche, culturali della postmodernità. Ma, proprio per questo, ritengo che l’accettazione realista e tragica dell’esistere e del mondo, comporti necessariamente il definitivo lasciarsi alle spalle le sterili dicotomie e/o le false opposizioni che connotano ancora di sé il tramonto del postmoderno, in ambiti molto diversi tra loro: teismo/ateismo, tempo/eternità, destra/sinistra. Fare dell’anti-principio, dell’hasard, del caso gioioso, festivo e ludico, l’origine, permette di esperire il reale nella prospettiva, che gli è propria, quella di fenomenologia della presenza, di metamorfica manifestazione del Principio. Lo strumento atto a ciò, è ragione cosmica, voce del Tutto, posta prima e al di sopra delle parti e delle prospettive gnoseologiche che possono aprirsi su di essa. Per di più, dal punto di vista della storia delle idee, mi sembra che la Nuova Oggettività, sia stata elaborata negli ambienti afferenti alle correnti rivoluzionario-conservatrici del secolo scorso. Attorno ad essa politicamente ed in funzione anti-utilitarista, oggi possono trovarsi tutti quelli che non riconoscono legittime, pur muovendo da posizioni d’origine differenziate, le ragioni della Forma-Capitale.
D- Davvero possibile, nella prassi, danzare tra il computer e i graffiti, tra l’azzurro del cielo e il silicio fosforescente?
R- Questa è la sfida che va raccolta: è l’ambito generalmente definito estetico, nonché in quello comunicativo, che va realizzata la “conciliazione degli opposti”. Conciliare l’utilizzo dei nuovi mezzi espressivi, attraverso i quali si “dice” il postmoderno, e far riemerge la natura-realtà oggettiva delle cose. Tutto ciò potrà realizzarsi a condizione che si sia in grado di corrispondere all’esigenza, da più parti avvertita, di una nuova forma di creatività, artistica e politica, connotata in termini demiurgici avrebbe detto Filippo Burzio, capace, alla luce della lezione schellinghiana, di esplicitare come nel linguaggio sia latente la chiave di comprensione di significati archetipali, di categorie positive del pensiero e della cultura. Decisamente pertinente il riferimento al firmamento azzurro, al caelum che, come si sa, nella tradizione ermetica non casualmente divenne il simbolo, l’idea vivente della ragione cosmica. Se a tanto si riuscirà, ancora una volta saranno i fatti a dirlo. La cosa importante è aver dato inizio al cammino.
D- Verso l’Ingegneria im-prevedibile della felicità o una sfida estrema alle stelle, prima dell’implosione della civiltà?
R- Non so se la situazione attuale possa essere compiutamente descritta in termini catastrofistici, come immediatamente precedente all’implosione della civiltà. Da tempo sono convinto, in particolare attraverso Spengler, che l’uomo europeo (ma non solo oramai), viva in una situazione di civilizzazione: pertanto, il momento attuale penso possa essere significato pienamente da tutte le implicazioni che la comprensione del vocabolo crisi comporta. Siamo, per dirla con Nietzsche e Cacciari, uomini postumi, ai quali non é più neppure concessa la possibilità di essere inattuali. Il nostro porci posteriormente alla civiltà, può concedere, in questa svolta epocale, delle possibilità impreviste. A condizione però, che si torni ad alzare lo sguardo al cielo, a rimirare le stelle per costruire comunitariamente un destino. Ogni ex-sistere, in quanto stare fuori, è una sfida, è un tentativo di ritorno all’origine. Per noi, uomini postumi la sfida è duplice. Siamo fuori dal Principio non solo in termini individuali, ma destinali. La cosa non ci spaventa poiché l’unica in-gegneria della felicità che conosciamo, l’abbiamo appresa dalla Tradizione e dai classici: felicità è agire!
D- Tra realtà e utopia, l’Italia tra 100 anni…
R- Per chi muova da una prospettiva di filosofia dell’eterno “presente”, come è il caso del Movimento della Nuova Oggettività, non contano molto le previsioni in merito a futuri possibili. Ciò che conta è vivere “Qui e ora” secondo orientamenti che consentano, sul piano individuale e comunitario, di realizzare il tradere come il sempre possibile. L’Utopia classica non mira a negare “utopisticamente” il dato reale del presente in nome di un perfettismo antropologico-politico, magari da imporre, in quanto progetto razionale, indiscriminatamente a tutti i propri simili. Assolutamente no! Vivere sulle ali dell’utopia vuol dire costruire un percorso di vita individualmente mosso all’alto e al meglio, sul modello dell’archetipo divino: porsi, socraticamente, al servizio di un dio, senza pretesa di conclusività e di definitiva realizzazione. Pertanto, immagino l’Italia futura, sotto specie dell’eterna Tradizione italica, in cui, almeno la parte più cosciente del nostro Popolo, abbia ri-acquisito la capacità di guardare con meraviglia al mondo e al proprio passato, al punto da sentire la necessità di porsi sulla strada della sua ri-conquista.

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