Arte contemporanea? Dopo Catellan e Hirst

Sono ancora in troppi a pensare che l'arte si sia fermata alle provocazioni, talvolta in grande stile, di Jeff Koons, Damien Hirst e Maurizio Cattelan o al gigantismo imperscrutabile di Matthew Barney. Questo giocare con le icone, sdegnare il pubblico o metterlo di fronte a soluzioni kolossal visualizzate da grandi statue antropomorfe non rappresenta più il gusto di quel che oggi si definisce arte contemporanea, che sta attraversando lo stesso passaggio epocale della comunicazione mediatica.









Invece di ostinarsi a dibattere sulla legittimità culturale di creativi apparsi sulla scena da oltre un ventennio, il presente s'interroga su questioni estetiche che tengono conto della condizione residuale dell'individuo, abbandonato a se stesso e alle proprie melanconie.

Basta parlare di cuori in acciaio, squali e pupazzoni: nell'aria c'è ben altro, e se non si può non tenere conto degli effetti della globalizzazione che hanno favorito l'ingresso nel sistema di zone del mondo sconosciute, dal Far East al Medio Oriente, dall'Africa al Nord Europa, il cortocircuito più interessante avviene ancora in America, e non soltanto a New York. Si sta cioè verificando una situazione molto simile a quella accaduta negli anni '90, quando di colpo il crollo delle ideologie favorì l'insinuarsi di un pensiero frammentato e incerto, ricco di riflessioni personali, in cui il minimalismo è servito da sfondo per il recupero del sé. È vero che la scorsa fine secolo decretò anche il successo definitivo delle cosiddette artistar, ma ciò che poi è rimasto è un sentimentalismo quasi patetico, autobiografico, consapevole di una sconfitta epocale e inevitabile.

Oggi inaugura in Triennale, a Milano, una doppia mostra pienamente rappresentativa del nuovo stato delle cose. Pur nella difficoltà di catturare subito il senso di quello che gli artisti ci vogliono dire, siamo nei pressi di un'estetica davvero contemporanea, dove registriamo il drammatico invecchiamento di certi fenomeni abnormi del recente passato. E così il gusto del glamour e del sensazionalismo non tengono più. Protagonisti Michael E. Smith e Ian Cheng. Di Detroit, classe 1977 il primo; cinoamericano, nato a Los Angeles nel 1984 e ora trasferitosi a New York il secondo. Sono due mostre pressoché agli antipodi: l'una ragiona sul vuoto, l'altra sul pieno, aniconica l'una, bombardamento di immagini l'altra. L'impatto con lo spazio di Michael E. Smith è durissimo..... C IL GIORNALE