Filippo Venturini, la morte dopo lo specchio...



Un’altra volta il sentimento della morte appassionò ed inalzò la mia anima per modo che tutte le apparenze vi si riflettevano con trasfigurazioni di poesia[1].

Lo specchio è una componete del corredo funebre in varie civiltà, si pensi, ad esempio, ai numerosi reperti etruschi, ornati da immagini mitologiche. Quest’oggetto ci da informazioni sul sesso del defunto, in genere una donna, sulla sua appartenenza ad un élite, si tratta di oggetti di pregio e sul livello culturale, del quale possono essere testimonianza le raffigurazioni mitologiche. Siamo però nel campo dell’archeologia come scienza, cioè come raccolta e possibilmente, distaccata analisi di dati, che non è quello che interessa in questa sede. Si vuole infatti usare questi documenti come pretesto per riflettere sulla morte. Se provassimo a proiettare la nostra vita verso quella che è l’unica nostra certezza, ci troveremmo immediatamente a compierne un sunto e a contemplarlo, ci vedremmo, cioè, per quello che siamo veramente. La morte è specchio della vita.
In tombe maschili di varie civiltà e culture, anche in questo caso, non si procede scientificamente, ma, usando i dati archeologici come spunto per una riflessione, si trovano armi sia di offesa che di difesa, come gli scudi, quest’ultimo tipo di oggetto ha, almeno nel mondo greco-romano, la stessa funzione dello specchio. Sarà sufficiente ricordare il celebre mosaico della battaglia di Alessandro, nella villa del Fauno a Pompei, ove un guerriero persiano si specchia sullo scudo di un mercenario greco, vedendovi  la propria morte. Nella Domus IX, 1, 7 di Pompei, c’è una pittura in cui Efesto mostra le armi di Achille a Teti, in particolare regge lo scudo, nel quale la madre del Pelide si specchia, vedendosi atteggiata in una posizione funebre, che ricorda quella delle figure femminili nel sarcofago detto delle piangenti di Istambul. Ancora una volta lo scudo-specchio dice la verità, Teti si vede per quello che è: una madre in lutto e non si tratta di una previsione di un futuro altrimenti ignoto, infatti sin dal momento in cui ha scelto di partire per Troia Achille ha accettato di morire giovane e Teti questo lo sa benissimo.
La morte è specchio, dunque misura della vita, poiché riflette la verità[2]. Non è un caso se le prime, più antiche manifestazioni artistiche, ma forse è meglio dire culturali, sono comparse nel momento in cui l’uomo è diventato consapevole della morte e quindi ha imparato a conoscere se stesso, avendo un metro e uno specchio[3]. La prima percezione della morte dovette comportare anche quella del caso come signore dell’esistenza, alla quale è stato quindi necessario dare un senso, quindi la nascita della cultura è intimamente connessa con un profondo e spontaneo atto di volontà, al cospetto della morte, alla quale si oppone la memoria, la tradizione.
Una società che ritiene la morte come qualcosa di sconcio, da nascondere, da allontanare il più possibile, non tanto come fatto ineluttabile, ma come idea, pensiero, quella è anche una società anticulturale, cioè una società nella quale l’uomo cessa di darsi una forma, commisurandosi con quel supremo metro di paragone che è la morte e vive abbandonato al caso, una vita di mille stimoli, sollecitazioni, eccitazioni, letterarie e non, al solo fine di stordirsi. Società della retorica. L’uomo è tale proprio per il sentimento consapevole della morte, che non hanno gli animali, al livello dei quali viene riportato da una raffinatissima e avanzatissima società della retorica, nella quale la cultura è casuale abbandonarsi, cioè non è più cultura, quest’ultima presuppone, infatti, non un abbandono, ma una volontà, una disciplina. Nel vocabolario compatto indoeuropeo c’è un termine: WEI che accomuna il valore verbale del “volere” con quello nominale di “forza”[4]. Forza e volere sono le scintille che scaturiscono dalla frizione fra la nostra finitezza e la consapevolezza della morte. L’interrompersi di questo continuo confronto con la morte porta alla fine delle civiltà, poiché porta alla fine della cultura la quale assomiglia al patrimonio genetico nel senso che, nell’una come nell’altro vi è un passaggio di informazione da una generazione all’altra. Il genoma si trasmette tramite la duplicazione del DNA; l’informazione culturale passa dalle cellule nervose del cervello di un individuo a quelle di un altro…per la gran parte le mutazioni culturali sono innovazioni volute e dirette a qualche fine[5]
Ecco quindi il supremo atto rivoluzionario e restauratore: pensare alla morte, affrontarla, nel senso di proiettare il nostro esserci in essa, quindi specchiarvisi.
I più ardimentosi potranno anche scegliere di porsi volontariamente in condizioni di pericolo, ma basterebbe applicare scientemente alcuni principi senechiani…meditare mortem…
Meditare mortem è anche confronto con il prossimo, la cui esistenza segna un limite della nostra, quindi una fine nella quale specchiarsi, misurarsi, riconoscersi, non sfuggirà che nelle società della retorica, in cui la morte è sconcia, gli uomini sono profondamente soli, ancorché immersi in una continua ridda di reciproci contatti motivati, però, solo dall’egoismo del preservarsi, da qui il  carattere fortemente prosaico di questa società fondata sulla furbizia, cioè sulla disonestà e sulla tirannia di un altro elemento assolutamente retorico: il tempo d’orologio. Quest’ultimo implica anche una visione storica retorica, basata su singoli fatti giustapposti in sequenza come secondi e minuti, scanditi dalla lancetta dei signori di turno. Dal momento che la quantità e anche la qualità di questo tempo sono state aprioristicamente stabilite e permettono di vivere distogliendo perennemente lo sguardo dall’”Orco”, non se ne mette in dubbio il senso generale, ma ogni singolo fatto viene scandagliano esaminato custodito incasellato, secondo quella cieca morale da carrettieri già stigmatizzata da altri[6], ai sensi della quale si pone la storia su di un piedistallo, nel momento in cui si presume anche di sancirne la fine. Una siffatta società non può che essere anche laica, poiché distogliendo lo sguardo dalla morte non può certo specchiarsi in Dio: “Dio stesso è lo specchio…..E’ nello specchio che si compie l’unione come un’uguaglianza pura e indifferenziata….” (Meister Eckhart)[7], ma nel momento in cui il caso sembra riprendersi ciò che gli spetta e improvvisi elementi di crisi pongono i componenti di questa società di fronte alla morte, allora diventa disperatamente laica, anzi violentemente atea e ferinamente egalitaria e libertaria: la reazione di chi vede la propria fine e specchiandovisi ha paura di ciò che vede. Quando questa società contempla la morte, giunge alla convinzione che la vita sia una battaglia persa ed è allora che si fa nuovamente tempo per chi s’è ostinato a difendere posizioni irrimediabilmente perdute, senza per questo ritenere giusto abbandonarle e specchiandosi costantemente nella possibilità d’essere annientato s’è dato una forma ha creato un impero interiore.
La sovranità interiore è il principal segno dell’aristocrate[8].....

 Filippo Venturini




[1] G. d’Annunzio, Le vergini delle rocce, Milano 1995, p. 99.
[2] Apuleio, De Magia XIII-XVI
[3] F. Martini, Archeologia del Paleolitico, Urbino 2013, pp. 65-75.
[4] G. Devoto, Origini Indoeuropee, Padova 2005, p. 249.
[5] L. L. Cavalli-Sforza, Geni, Popoli e Lingue, Milano 1996, pp. 253-254.
[6] F. Nietszche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano 1998, p. 63.
[7] T. Burckhardt, Considerazioni sulla conoscenza sacra, Milano 1987, p. 71.
[8] G. d’Annunzio, Le vergini delle rocce, Milano 1995, p. 30.