La supposta conquista dell'autonomia sorge su un doppio rimosso: quello del «valore complessivo di un oggetto di studio», che non può essere stabilito al suo interno, e quello della sua «augurabilità», della sua utilità esistenziale, prima che accademica. Come scrive Feyerabend, «non sono neppure del tutto convinto che vivere una lunga vita nel timore del colesterolo, delle radiazioni, dell'esaurimento nervoso, dell'invecchiamento, del comunismo, sia così meglio che vivere temendo un dio benevolo e alcuni demoni ed eretici maligni». Eccola, la radice filosofica dell'offensiva di Feyerabend: la presunzione specialistica è la stessa del metodo scientifico, che si spaccia per «il paradigma» del reale, presumendo di aver risolto una volta per tutte la domanda ontologica sulla sua natura, e lasciando così la strada aperta solo all'espansione infinta delle sue branche settoriali. Ma, è l'urlo anarco-dadaista, non c'è un motivo ultimo «per preferire l'esperienza», cioè la regola-guida della scienza, «a un'accurata analisi dei sogni, o un accurato esame dei più rilevanti passi della Bibbia». E soprattutto: contaminazione, dialogo e fin scontro «politico» tra discipline: solo così si dipana la tela del pensiero umano. Spende proprio la metafora politica, Feyerabend, ci ricorda che «qualsiasi nostra conoscenza ha il carattere di una linea di partito», poggia su una visione del mondo che può essere puntellata o demolita. Ed è quello che Feyerabend si augura: il proliferare di uno scontro anarchico, politico, anche duro e certo non svogliatamente relativista, tra scienze e discipline.
Il Giornale