Racconto surrealista "Il figliastro": di Laura Corsini


di Laura Corsini

 
Il figliastro

Partii da casa con le prime luci dell'alba, tanto il sonno se n'era andato già da un po' e camminare avrebbe aiutato il mio cuore a palpitare a ritmo, ad avere pazienza, a misurare spazio e tempo senza precorrere o bruciare. La città, raggiunta con un breve sfrecciar di treno, era un santo con l'alone rosa sui tetti, uno spettacolo mozzafiato, se si riusciva a non pensare che quel bel colore era donato da un miscuglio di gas venefici che brulicava sulle nostre teste di poveri esseri condannati a respirare. L'ufficio era in un palazzo antico; già l'ingresso, con la gradinata e il portone, metteva una gran soggezione e fuori c'era il silenzio.
“Sono arrivato per primo” pensai con una punta di soddisfazione mettendo in fila le tante cose che, in una lunga giornata che mi sarebbe rimasta, avrei potuto fare. Il corridoio semibuio sfociava in un piccolo atrio dove un usciere alla sua scrivania sonnecchiava, incassato nelle sue stesse spalle.
«Giorno...» gli feci timidamente, tanto piano che quello non aprì neppure un occhio in cambio. Ma non avevo bisogno di indicazioni, la porta bianca, un po' sbucciata, aveva un cartello scritto a mano e attaccato con le puntine che mi orientava, così la spinsi e in un attimo mi trovai in una gialla luce da neon mentre un brusio, un ronzare di voci che a tratti aumentava e diminuiva, senza una logica reale, occupava e saturava l'aria.
«Giorno» ripetei, ma nessuno si voltò. Non ero il primo, la lista delle cose da fare si doveva accorciare un po'. Pazienza. Erano circa trenta persone, sedute a semicerchio e in ordine sparso su seggiole di plastica azzurra, come a far la guardia a un'altra porta, a vetri smerigliati, e a indirizzare incrociando lì le varie attenzioni, seppur con finto disinteresse. Non appena, infatti, l'uscio si schiudeva leggermente come una bocca al suo sorriso, non v'erano terga che restassero appiccicate alla superficie su cui giacevano, ma si sollevavano di qualche centimetro, pronte a scattare all'occorrenza. Faceva capolino quella che doveva essere la segretaria, inespressiva, incolore, inodore, insapore e, con una voce che doveva far molta fatica a usare, pronunciava un nome che spulciava con una breve occhiata da una lista. Il nome corrispondeva a una persona che scattava all'attenti e si infilava nel misterioso antro della Sibilla che si richiudeva con gran fragore alle sue spalle.
«Chi è l'ultimo?» domandai come si fa all'ambulatorio, per prendere la fila.
«Sono io» esclamò un signore coi baffi che si era riadagiato comodo sul suo scranno.
«Ma tanto non vanno in fila, chiamano loro» intervenne una signora con un cagnolino annoiato in braccio.
«Sì, ma un po' ne tengono conto, della fila» precisò una vecchina che speravo non fosse diventata tanto grinzosa e rinsecchita ad aspettare il suo turno. Il brusio riprese. Intanto, dalla porta di ingresso, continuavano ad arrivare persone e i buchi-posti liberi diminuivano. Aspettavo e mi guardavo attorno. Non c'era nulla di interessante, le persone che mi circondavano erano ordinarie, anche se ciascuna di loro vantava, a parole, grandi glorie. Non gli avrei dato un euro, a quella specie di bancario là, invece aveva ottenuto vari premi e riconoscimenti che snocciolava in preciso ordine cronologico a ogni nuovo arrivato. La donna col cagnolino sembrava la perfetta casalinga, eppure sfoggiava sul petto una sorta di medaglia che scintillava donandole un raggio da Sacro Cuore. E il ragazzo senza un pelo sul mento? Appena diplomato alle medie? Ma no, aveva annosa esperienza da come diceva, cercando pateticamente di far la voce grossa.
Quando sarà il mio turno di cosa parlerò? Non ho nessun ornamento da parare... Vabbè si vedrà” e, in questi dubbi, aspettavo. Fortunatamente appartengo a quella generazione che ad aspettare è abituata. Sono nato con una gran fregola addosso, volevo tutto subito e senza indugi, mi scocciava pure stare cinque minuti con “Per Elisa” all'orecchio mentre il centralino mi passava l'ufficio. Poi, invece, a suon di attese, il mio animo si è tranquillizzato e ha fatto dell'indugio non più un mezzo ma un fine. Mentre si aspetta si possono comunque svolgere altre attività, ma quell'aver qualcosa da aspettare dà un senso a tutto, un più alto significato. Non importa se, poi, l'oggetto anelato non arriva mai. L'attesa ha avuto comunque il suo valore eticamente rilevante.
Dalla porta a vetri smerigliati ogni tanto sbucava il naso adunco della segretaria e il cliente, soddisfatto o meno, usciva. Un momento di suspense e poi la donna, sadica nel suo differirne la pronuncia, gettava là un altro nome e un cliente si alzava, si guardava attorno per cogliere negli sguardi il suo trionfo, e andava a prendere il suo compenso.
Cominciavo ad annoiarmi, così, lasciando girovagare lo sguardo, notai due o tre piante davvero tristi, con le foglie penzolanti e giallognole. “Poverine, chissà da quanto non bevono” pensai. Raggiunsi il bagno accompagnato dagli sguardi feroci di mezza platea che credeva che volessi infilarmi nell'ufficio senza essere convocato. Trovai una bottiglietta di plastica gettata a terra, la riempii e cominciai a prendermi cura dei poveri vegetali. Sentivo la loro gratitudine mentre succhiavano avidamente ogni molecola del liquido ed ero doppiamente contento: avevo fatto del bene a qualcuno e avevo impiegato un po' di tempo, circa due clienti. Vedendomi, mentre usciva per la solita incombenza, la segretaria mi fece il dito a uncino, segno che voleva che mi avvicinassi. Altri sguardi feroci.
«Vedo che si annoia» fece in un tono che voleva essere gentile, ma apparve alle mie orecchie sfibrate alquanto crudelmente indifferente.
«Beh, è un po' che aspetto e...» ma non mossi la sua pietà.
«Mi segua» tagliò corto. Si diresse verso una di quelle porticine segrete che si ritagliano nei muri gialli degli antichi palazzi. Si intravedeva solo una minuscola toppa scura, ma lei con decisione vi infilò una chiave, la girò ed entrammo. Mi trovai di fronte il bailamme più assoluto, comprensivo di scartoffie, faldoni con i laccetti aperti, fascicoli sbudellati, fogli di tutti i toni del giallo a tappezzare il pavimento.
«Questo è l'archivio» mi annunciò. Credevo che fosse uno scherzo di carnevale, ma era seria.
«Sa, non riusciamo mai a sistemarlo, qua siam pieni di lavoro. Se lei potesse veder di fare qualcosa... Tanto deve aspettare e quando sarà il suo turno verrò a chiamarla io.»
L'impresa era titanica, ma alzai le spalle e, rimasto solo, cominciai ad affastellare fogli, metterli in ordine alfabetico dentro le rispettive cartelle e queste in ordinata fila nei faldoni. Ogni faldone su uno scaffale. Man mano che procedevo davo anche una bella spolverata. Da lì i nomi pronunciati a voce alta mi arrivavano come eco lontane, ma avrei saputo riconoscere il mio. “Tra poco toccherà al signore coi baffi e poi ci sarò io” mi consolavo, e mi affrettavo perché mi sarebbe dispiaciuto, in tal caso, lasciare il lavoro a metà.
Finii proprio in tempo. L'archivio era un modello da seguire, ora, e lo ammirai soddisfatto nella sua riacquistata identità, ma solo un attimo perché, dalla porticina lasciata socchiusa, avevo visto entrare in ufficio il signore coi baffi.
Mi misi in piedi vicino alla porta come una guardia svizzera, ripetendo mentalmente quello che avrei dovuto dire, rapida ricontrollata dei documenti da esibire che avevo con me. Le lancette cadenzavano quei momenti infiniti, poi la segretaria sbucò dietro all'uomo baffuto che andava via, mi gettò un'occhiata interrogativa a cui risposi con un'espressione sicura da “tutto finito” e lei, tranquillizzata, esclamò un nome che mi fece battere il cuore solo per un secondo, perché non era il mio. La vecchina grinza mi sfiorò passando, con un lampo maligno nei suoi occhietti azzurri.
«Non seguono l'ordine» mi ribadì la signora col cane, mentre il suo raggio si depositava sulle orecchie della bestiola come una meche chiara. E il suo tono era fin troppo soddisfatto. Fu lei la prossima ad essere convocata e, transitando nei miei pressi, mi mise in braccio come un pacco il botolo che ringhiava come se gli si fosse acceso un motorino nella gola: «Me lo tenga, mentre sono impegnata. E magari perché non lo porta un po' nel balcone?» e con il mento mi indirizzò la porta-finestra che introduceva a una sorta di balconata spoglia e grigia. Portai il cucciolo a prendere aria e lo feci contento, finché la sua mammina venne a recuperarlo, di lì a dieci minuti. La segretaria la seguiva.
«Tocca a me?» azzardai ingenuamente.
«Non ancora, ci siamo quasi ma, mentre aspetta, così, lo dico per lei, per ingannar l'attesa, potrebbe dare una pulitina al bagno. Sa, la signora delle pulizie è in ferie questa settimana. Ne terremo conto, della sua gentilezza.»
Strano, non mi sentii umiliato dalla richiesta, piuttosto lusingato che un incarico così di fiducia, tanto delicato, fosse affidato proprio a me. Senza replicare entrai nello sgabuzzino, attesi che un corpulento cinquantenne ne emergesse inondando di violette l'aere e, munito di guanti di gomma e spugna abrasiva, ci diedi talmente bene che, in breve, quella specie di latrina maleodorante sembrò l'amena ritirata di una vecchia zitella. Avevo appena terminato quando le onde dell'etere mi portarono un suono amico: «Bianconi!».
Caspita! Sono io! Sfilai in un nanosecondo i guanti, mi lisciai i capelli davanti allo specchio ed ero già davanti alla porta a vetri dove entrai in collisione con una specie di satellite artificiale altro due metri e venti, uno Schwarzenegger che mi osservò come Terminator quando cercava con i suoi occhi cibernetici il nemico nella notte più nera.
«Bianconi sono io!» mi giustificai.
«Bianconi sono io!» mi fece eco quello con onde sonore più alte dei cavalloni dell'oceano.
«Bianconi è lui!» e la segretaria puntò il dito verso il guardaroba in giubbino di pelle, aggiungendo poi: «Io ho chiamato Italo Bianconi e lei è Mario Bianconi!».
Sospirai.
Seguirono per me altri lavoretti e altre persone che andavano e venivano. Le ore passavano e io ero sempre lì. Oramai non sollevavo neanche più il didietro di quei cinque centimetri quando attendevo l'esclamazione del nome dalla crudele bocca della segretaria. Piano piano mi rannicchiai sulla sedia, a guardare quella varia umanità che mi passava sotto il naso, che faceva le sue faccende e poi se ne andava. Oramai era sera ed eravamo rimasti solo io e un vecchio che masticava tabacco e lo sputava nel cestino, non sempre facendo canestro. Naturalmente fu chiamato e restai da solo nel più assoluto silenzio.
Dai, ci sei solo tu, ce l'hai quasi fatta. Se ti sbrighi riesci anche a prendere l'ultimo treno della sera ed essere a casa alle dieci e cinquanta. Manca poco... coraggio”.
Il vecchio e il suo odore acre uscirono infine dall'ufficio, dopo un tempo interminabile che mi fece friggere pensando a quel treno che dovevo prendere.
Dietro di lui c'era la segretaria, ma non aveva la solita divisa grigio asfalto. Portava il cappotto e la sciarpa. Chiuse a chiave la porta dietro di sé e, prima di uscire, mi salutò gentile: «Buona notte, Bianconi, a domani!».
La luce si spense e restai da solo lì, nella sala d'aspetto buia che diventava sempre più fredda, perché avevano spento anche la caldaia. Mi avvolsi nel mio cappotto di panno, sdraiato su due sedie accostate, senza aver toccato cibo per tutto il giorno, senza aver fatto ciò che avrei dovuto, ma con le ossa rotte per il tanto lavorare, per un attimo temendo che ci avrei trascorso il resto della vita, in quella sala d'aspetto; poi mi assopii non pensando più al treno, alla mia casa che era incredibilmente lontana, consolandomi un po' all'idea che l'indomani sarei stato il primo. Sognai tante facce, gente che mi voleva fare a pezzi per mangiarmi, occhi famelici e la segretaria che rideva sguaiatamente e mi frustava gridandomi: «Lavora, schiavo!».
Mi svegliai con un brusio noto. Le facce del sogno erano tutte lì, almeno una trentina, sedute a semicerchio nelle sedie di plastica. Non mi ero neanche accorto che fosse già arrivata tutta quella gente. Un altro giorno di attesa stava per incominciare.