INTELLETTUALI E POTERE. L'APOCOLCYNTOSIS DOPO LA CONSOLATIO AD POLYBIUM. SENECA NEL GIOCO DELLA CORTE ROMANA

Nei giorni successivi il 13 ottobre del 54, data della morte ufficialmente naturale dell'imperatore Claudio, la corte romana presenta nelle azioni delle sue più eminenti personalità (Agrippina, che Giovenale metterà alla berlina nella sue Saturae) l'aspetto caratteristico, da un lato, della corsa a mettere in atto per l'esterno un alibi fastoso per il delitto di stato commesso e a manifestare nelle cerimonie tristiae imitamenta e pietatis ostentantionem, dall'ltro del persistente satireggiamento e dileggio, nella cerchia degli intimi, della persona di Claudio morto. Da una parte pompose esequie funebri e onori divini vengono attribuiti al morto: Agrippina giunge a farsi nominare, dopo la consecratio di Claudio, sacerdotessa del suo culto. Nerone pronuncia nel giorno dei funerali un generoso e solenne elogio del defunto, scrittogli da Seneca, ma gli ascoltatori a sentirvi parlare della sapientia e providentia di Claudio, non possono, come quanto ci dice Tacito, trattenersi dal riso. Dal'altra parte riso e motteggio su Claudio e la sua apoteosi sono di prammatica in seno alla corte imperiale romana. Un brano di Dione Cassio, in cui è contenuta l'unica notizia che si abbia sull'Apocolcyntosis, costituisce il quadro migliore e più vivace di questa situazione. In altri termini nulla sembra ancora oggi più epigrammaticamente corrispondere al vero del giudizio di Plinio il Giovane sull'apoteosi di Claudio:dicavit caelo...Claudium Nero, sed ut irrideret. Seneca, come risulta dalle due importanti fonti ricordate da Tacito e da Dione, è figura di primo piano in questo delicato momento, ed appare inerito nel gioco della corte. Innanzi tutto è l'autore di un'orazione ufficiale, la laudatio funebris: le lodi per Claudio in essa contenute, pur rientrando nella prassi politica e del cerimoniale, sono così maliziosamente calcate che s'intuisce l'ironia e la satira. Elogi ben diverse d quelle indirizzate a Claudio e riportate nella Consolatio ad Polybium, scritta com'è noto negli anni  43-44. Gli storici e i critici, anche quelli contemporanei, sono certamente generosi qunbdo tentano di giustificare in ogni modo la Consolatio ad Polybium, argomentando (e anticipando l'apologetica dei Denis Diderot) che le grandi lodi di essa erano sul piano di satira, che insomma Seneca non faceva altro che del "doppio gioco" mentre scriveva dal confino al dittatore la sua letterina di ossequio e di promessa di buona condotta. Al contrario bisogna avere l'onestà e il coraggio di dire che la Consolatio ad Polybium fu un gesto di grande debolezza mondana da parte del suo autore, Seneca, che in seguito se ne vergognerà, volendo ripudiare questa sua disinvolta cortigianeria. L'Apocolyntosis fa parte di questo dramma che vive Seneca e che l'autore latino porta alla luce proprio in questo momento particolare che segue la morte di Claudio: Seneca coglie l'occasione per per esprimere tutta la sua intima conversione e la vendetta. Con il suo carattere di damnatio memoriae del principe defunto, l'opera satirica dell'intellettuale non è solo, però, il tipico sfogo di un personale risentimento, dietro le forme di un riso spesso amaro, dell'uomo che si è piegato una volta al tiranno (non si piegherà poi a Nerone) e lo ha magnificato con lodi sperticate e assolutamente di comodo. E questa è la storia di tutti giorni, anche dei nostri giorni che non dirado testimoniamo trasformismi a buon mercato da parte di chi dovrebbe tenere accesa la coscienza critica e la capacità di opporsi al conformismo. Il merito di Seneca è di aver dato una piacevole espressione letteraria, attraverso la satira sull'apoteosi, al suo stato d'animo, e però oltre che noi moderni, anche i suoi contemporanei, dovettero sentire meno stridente quel contrasto ideologico. L'Apocolocyntosis o zucchificazione del divo Claudio imperatore resta un monumento di satira politica e sancisce il valore storico, anzi  eterno della satira stessa. Un valore di cui si finisce per dimenticare anche in questa nostra epoca che non cessa di esaltare le personalità dominanti e di condannarle senza appello solo dopo che hanno abbandonato il potere, quando il vento è cambiato.
Casalino Pierluigi, 25.04.2014