Lettera 22 Intervista a Davide Bigalli per il libro manifesto Nuova Oggettività * (CNR)

INTERVISTA AL PROF. DAVIDE BIGALLI, PRESIDENTE DELLA SEGRETERIA DEL MOVIMENTO DI PENSIERO “NUOVA OGGETTIVITÀ”


Gentile Prof. Bigalli, questo movimento di pensiero che nasce in un frangente culturale e civile indubitabilmente critico, quale ruolo vorrebbe svolgere?
Il movimento della “Nuova Oggettività” può essere letto come un sintomo della consapevolezza che stiamo vivendo una crisi di vasta portata, dagli aspetti multiformi. Una crisi che si presenta in primo luogo come crisi economica. E al proposito occorre una precisazione: a differenza di altri fenomeni analoghi, questa non è crisi legata al piano strutturale della produzione di ricchezza, bensì è risultato di un vasto processo di ridefinizione, risistemazione e ripartizione del potere finanziario. È un movimento reale dello stato di cose esistente che si condensa in una selvaggia emarginazione di larghi settori dell’umanità, sia nei cosiddetti paesi avanzati, lungo crinali di “classe”, sia nel vasto spazio fuori dell’Occidente, attraverso l’impoverimento e la pratica cancellazione dalle possibilità di sussistenza di masse diseredate. Ecco, il discorso di “Nuova Oggettività” deve radicarsi come analisi critica e progettuale di fronte a questo fenomeno, con la apertura di un orizzonte di attesa e di speranza, in nome e alla ricerca di un nuovo umanesimo.
Con una precisazione ancora: questo processo in atto, determinato da quello che con terminologia classica si chiamava “capitale finanziario” (richiamo le analisi, meno distanti di quanto si sia voluto fare apparire, di Rudolf Hilferding e di Ezra Pound) provoca e provocherà una radicale ricollocazione del panorama sociale. Già alcune avvisaglie si sono avute in Italia, con fenomeni ben presto marginalizzati (penso ai “forconi”) e considerati irrilevanti o folkloristici. Ebbene, compito di un movimento che non voglia essere meramente di pensiero, astratto e contemplativo, ma intenda porsi anche sul terreno pratico, è quello di intercettare tale processi profondi della società italiana (in consonanza con la società globale) per tradurli in programma. Alcune delle riflessioni più acute si sono mosse in questa direzione. E intendo parlare soprattutto di quanto più volte asserito da Valentino Parlato e Giorgio Lunghini.
A fine 2011 è uscito il libro-manifesto Per una Nuova Oggettività, popolo, partecipazione, destino”, dopo più di un anno di lavoro in termini ricognitivi e propositivi. Quali le principali componenti ideali, il metodo proposto, l’orizzonte d’attesa e l’effettivo ruolo che pensate possa svolgere?
A partire dalla locuzione di “libro-manifesto” vorrei sottolineare il carattere dell’iniziativa: non mera teorizzazione o, peggio, contemplazione di una storia trascorsa, ma una volontà di procedere alla trasformazione della riflessione teorica in prassi, prassi sociale. Le componenti ideali che hanno portato alla costituzione del “libro-manifesto” (difficile, e al postutto inutile, darne un elenco, un catalogo) provengono da un passato politico che nella storia dell’ultimo mezzo secolo ha conosciuto una condizione di marginalità. Credo che a questo punto il pericolo più insidioso sia quello della rivendicazione patriottica delle proprie caratteristiche, delle proprie storie, della contemplazione dei singoli quarti di nobiltà. L’obiettivo è quello della prassi, di prendersi spazi di agibilità e di visibilità, di stabilire zone di “egemonia” (assumendo il termine nella dimensione gramsciana, politica), a partire dai luoghi di produzione e diffusione del sapere: l’università, la scuola; a partire dagli strumenti della comunicazione del sapere: i media. Per questo, un ambito di speranza e di lavoro è rappresentato dalle nuove generazioni, dai giovani che aderiscono al progetto. È quindi un lavoro che si scandisce lungo la sequenza della attività formativa, di ricerca, di analisi, e di discussione, per la formazione di una consapevolezza critica nei confronti dell’esistente, che si presenta alle giovani generazioni - che ne pagheranno i più drammatici costi - come un dato immutabile, come un elemento naturale. Il movimento deve quindi darsi quanto prima (e forse siamo già in ritardo) una struttura organizzativa proiettata all’esterno, e non di mero funzionamento autoreferenziale.
Nei lavori preparatori, più che nel libro, avevate dichiarato un vostro orizzonte ideale di riferimento nella convinta scelta olista, comunitarista, partecipativa, differenzialista, anticapitalista, antiglobalista. Il libro sinteticamente accetta ed ingloba, nei suoi oltre novanta contributi scritti, tale orizzonte, pur nell’evidente difformità di sensibilità e soluzioni, cose che hanno fatto coniare a Giovanni Sessa, nella Postfazione, il paradigma interpretativo di:“identità plurale”. Esiste una reale potenzialità unitaria?
La bella locuzione dell’amico Giovanni Sessa va articolata: da un lato, indica una fotografia del presente, il confluire, sulla base di una minima convergenza di idee, nel progetto del libro-manifesto. Una volta questo realizzato, ripeto, la reale, concreta, unità di intenti e di azione va verificata nel confronto con una prassi assolutamente non autoreferenziale. La soddisfatta pigrizia intellettuale, la convinzione di aver assolto un compito e quindi l’affidarsi a un’etica della intenzione risulterebbe esiziale al movimento: tutti gli organismi viventi si muovono con spinte dialettiche interne, si configurano come parallelogrammi di forze che si mantengono in e mantengono l’equilibrio attraverso quello che foucaultianamente possiamo indicare come uno “schema di tensioni”.
Nella crisi evidente dell’Europa, come entità autonomamente credibile, quali opzioni vi sentite di auspicare?
Credo che la crisi dell’Europa, ma non solo di essa (parlerei di globalizzazione), imponga uno sforzo di analisi sociale teorica attenta ad esperienze anche lontane nello spazio: possiamo dire, a mio parere, che assistiamo alla crisi del liberalismo, nelle sue varie declinazioni, come figura dominante della organizzazione dell’umanità. Il termine stesso di crisi va assunto oltre le sue connotazioni negative: non è, come in altre esperienze trascorse, un malfunzionamento della macchina capitalistica; bensì è una lotta di riposizionamento del potere economico-finanziario a livello globale, con l’emergere di alcune aree di nuova potenza. È lo scatenamento degli “spiriti animali” su cui tanto hanno ricamato teorici, politici, giornalisti, come la forza “naturale” che, “secondo natura” appunto, ci avrebbe consentito di ritrovarci nel migliore dei mondi possibili. Se mi è consentito un cortocircuito teorico vorrei dire che è il fallimento epocale delle illusioni dell’illuminismo e del positivismo e il richiamo - come strumento di analisi - al pensiero della crisi, liquidato dalle vestali del progresso, con il termine di nichilismo (a parte il fatto che i veri nichilisti sono quei “pensatori” che banchettano sulla crisi, fornendo al pubblico supplementi d’anima e frissons di qualità). Prima richiamavo i nomi di Hilferding e di Pound: non a caso, poiché c’è bisogno di un sapere autentico, non chiuso nelle pastoie delle ideologie passate, ma pacatamente cinico, consapevole della realtà e dei suoi costi, delle vie “laiche” da percorrere per ricondurre a unità quel termine, e dare una nuova identità, a quel protagonista della storia che con raccourci continuiamo a chiamare “popolo”.
Se fosse indotto a confrontarsi con due parametri mentali inusuali e sostanzialmente inapplicati come quello della “democrazia partecipativa” e della “aristocrazia sociale” come li declinerebbe per l’orizzonte d’attesa del vostro nuovo movimento di pensiero?.... Continua