Giovanni Damiano Nuova Oggettività e-o New Realism


Sul “nuovo realismo”.
Brevissime note a margine
La Nuova Oggettività rispondeva, nell’immediato primo dopoguerra, all’esigenza di un ritorno all’ordine (espressione il cui conio è probabilmente da addebitare ad Albert Gleizes), ossia di una riconquista della forma dopo i fasti decostruttivisti delle avanguardie artistiche dei primi del Novecento. A farsi carico di un nuovo inizio della forma sarà soprattutto l’ala classicista della Neue Sachlichkeit (corrente che conterà, tra gl’altri, pittori come Kanoldt, Mense e Schrimpf e che conoscerà la sua stagione più vivace tra il 1918 e il 1921), costituitasi a Monaco intorno alla galleria Neue Kunst e influenzata dall’esperienza italiana di Valori plastici, la rivista romana fondata da Broglio nel ‘18 e che proprio Hans Goltz, il proprietario della Neue Kunst, provvederà a diffondere nel mondo tedesco. Ora, se è vero che il particolare clima monacense sicuramente aveva giocato un ruolo di primo piano nella nascita del gruppo ‘nazareno’ della Nuova Oggettività (ad esempio, Elena Pontiggia rimanda alle radici classiciste della Monaco ottocentesca, culla dei Deutsch-Römer e del monumentalismo ‘dorico’ di Leo von Klenze), è altrettanto certo che tutto ciò rientrava in un movimento di respiro europeo di risposta alle avanguardie artistiche, tendente a ri-creare una classicità moderna (sempre Pontiggia), che in Germania avrà come suo esito ultimo l’arte nazionalsocialista (il cui focolaio sarà, ancora una volta, Monaco).
Analogo significato, a mio parere, riveste il recentissimo testo di Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo (Laterza, 2012). Anche qui troviamo una reazione, in senso ‘oggettivante’, al decostruttivismo/costruzionismo, questa volta post-moderno, esemplificato, per Ferraris, dalla triade d’oltralpe Lyotard-Derrida-Foucault, da Rorty, e in Italia dal ‘pensiero debole’ alla Vattimo, il cui Addio alla verità è un chiaro bersaglio polemico (ma si potrebbero fare anche i nomi di Hobsbawm, Anderson, eccetera, per andare oltre l’ambito strettamente filosofico).
Le tesi di Ferraris (non isolate nel panorama filosofico italiano contemporaneo; penso ad es. al lavoro di Franca D’Agostini, Introduzione alla verità o a Per la verità di Diego Marconi) possono essere facilmente riassunte: ciò che va sottoposto a critica (quindi decostruito; Ferraris sa che la filosofia non avrebbe senso senza passione ‘decostruttiva’, ma sa anche che, se si riduce integralmente a gioco decostruttivo, la filosofia diventa un orpello inutile, una scienza sterile destinata all’insignificanza) sono “i due dogmi del postmoderno: che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile” (p. XI), oltre che intrinsecamente violenta e intollerante (il che conduce a quello che chiamo nichilismo emancipativo; in breve, l’esito nichilistico del pensiero debole – la dissoluzione del concetto stesso di verità - risponde a esigenze ‘democratico-progressive’ completamente antitetiche ad es. a quel lascito nietzscheano aristocratico-selettivo, che pure ha giocato un ruolo primario nella genesi del postmoderno).
Ora, schematizzando all’estremo e al di là delle stesse tesi di Ferraris, della verità semplicemente non possiamo disfarci, dalla verità non possiamo in ogni caso prendere congedo, e questo prescindendo da qualsivoglia posizione filosofica, sia essa ad es. differenzialista o meno. La verità, insomma, è ineliminabile, con buona pace di chiunque sostenga il contrario. Pertanto, è in errore anche Nietzsche, quando nel Crepuscolo degli idoli esulta al tramonto del “mondo vero” (il “baccanale degli spiriti liberi”).
Discorso diverso per quanto riguarda il problema della realtà. Premetto che le evidenti preoccupazioni ideologiche di Ferraris alla base del suo ‘nuovo realismo’ sono del tutto inconsistenti quando non mistificanti. Giusto un paio di esempi: secondo il filosofo torinese il postmoderno sarebbe nato da condivisibili prospettive emancipative poi fatalmente tracimate nel ‘populismo mediatico’, il che ricorda la favola del comunismo buono nelle intenzioni ma cattivo nelle realizzazioni[Nota a piè di pagina]; invece di denunciare l’artificio dell’economia ‘di carta’ che sta letteralmente divorando l’economia reale, Ferraris finisce, inoltre, per attardarsi sull’antiberlusconismo (il riferimento al ‘populismo mediatico’ è, al riguardo, trasparente). Per incidens, definire “mirabile analisi” (p. 70) quella di un testo mediocre come Orientalismo di Said è l’ennesimo pegno pagato al conformismo intellettuale e al decostruzionismo ‘buono’[Nota a piè di pagina].
Detto questo, la tesi centrale di Ferraris è che ontologia ed epistemologia non coincidono; in altre parole, l’equipollenza essere-sapere è fallace. Per cui, non sarebbe vero che qualsiasi cosa per esistere deve comunque rientrare nei nostri schemi concettuali, cioè dev’essere in qualche modo ‘saputa’ e quindi costruita dal soggetto conoscente. Al contrario, quello che Ferraris chiama l’inemendabilità del reale mostrerebbe la resistenza dello stesso reale alle nostre pretese conoscitive, il fatto, cioè, che “posso sapere (o ignorare) tutto quello che voglio, il mondo resta quello che è” (p. 46), per cui una cosa esisterebbe a prescindere dal nostro sapere, così da evitare che i nostri schemi concettuali finiscano per prevalere, sempre e comunque, sul mondo esterno.
L’approccio epistemologico decostruttivo/costruttivo, ossia quello che dissolve il reale in quanto lo piega ai nostri schemi concettuali e ai nostri apparati percettivi, per poi costruirlo/manipolarlo a piacimento (riconducendo in tal modo integralmente l’ontologia nell’alveo dell’epistemologia), nella genealogia, seppur sintetica, delineata da Ferraris, prenderebbe le mosse dalla gnoseologia kantiana (anche se è possibile andare a ritroso sino a Cartesio, con la costellazione’ dubbio iperbolico/solipsismo del cogito/problematicità delle idee avventizie).
Ferraris parte dall’asserto kantiano “le intuizioni senza concetti sono cieche”, per affermare che per Kant “fossero necessari concetti per avere una qualsiasi esperienza” (p. 34). Da qui si darà “avvio a un processo che conduce a un costruzionismo assoluto” (ibid.), attraverso la radicalizzazione della gnoseologia kantiana, che porterà a una confusione senza residui tra ontologia ed epistemologia grazie all’abolizione del noumeno. Tappa ulteriore di questo processo sarà poi il primato delle interpretazioni sui fatti, il nietzscheano “non ci sono fatti, solo interpretazioni” (dai Frammenti postumi), ma qui, a mio parere, gioca la costitutiva ambivalenza di Nietzsche, perché ad es. la fedeltà alla terra sembra invece rimandare a uno sfondo oggettivistico. Infine, è in pieno Novecento che il postmoderno giungerà a compimento, grazie agli autori segnalati in precedenza.
Giovanni Damiano