*da Il Giornale
Roma - Che fretta c’era, caro Presidente?
Avresti potuto dare tempo al tempo, prenderti gioco un altro po’ degli acciacchi come negli ultimi tempi hai fatto della politica del Paese che hai amato più d’ogni cosa.
Sia pure talora disprezzandolo, come chi ama troppo e sente vizi e debolezze parte di sé, prima ancora che del prossimo suo. Sembra di intuire la risposta: non potevo, ho sempre bruciato le tappe, ogni tappa.
E, ciononostante, sempre nel posto giusto nel momento giusto. La chiave di tutto sta in questo tuo rapporto speciale con il tempo, forse, e purtroppo non c’è stato verso di chiedertene conto nelle tante interviste che affrontavi (e chiedevi) con divertita voluttà, piccoli antidoti alla noia. Al nulla che vedevi attorno a te. Una medicina come le altre, per non cadere nei vortici di buio.
Così, per esempio, divoravi tivù, internet e libri. E scrivevi: lettere-fiume o bigliettini spiritosi. Talvolta eccedendo, come quell’epistola al Pontefice che, visto il tono e i contenuti, ti impedirono di inviare. «Dimmi un po’ te, giornalista, che te ne pare, non ho ragione? Mia figlia non vuole, ma ...».
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