Incontro col passato
All’ora incerta prima del mattino,
quasi alla fine della notte lunga,
alla fine che sempre qui ricorre
all’infinito, fino a quella fine
che d’ogni fine resterà la fine,
quando la misteriosa, fiammeggiante
colomba come lingua di un incendio
era trascorsa sotto l’orizzonte
nel suo ritorno al nido dell’Altissimo,
mentre le foglie morte crepitavano
ancora e ancora con rumor metallico
sopra l’asfalto silenzioso all’alba
dove non altro suono era avvertibile
a quell’incrocio che a Faenza è detto
del Fontanone e che al lungo Stradone
mette fine, onde si levava il fumo
di polvere e da poco eran passati
gli operatori di Nettezza Urbana,
incontrai uno che mi camminava
innanzi, e camminava lento e in fretta,
come se il vento urbano dell’aurora
lo sospingesse là dov’io ero fermo
insieme e lui volasse, quasi, tanto
eran veloci e lievi i passi suoi.
E come fissai sul suo volto chino
l’esame acuto con cui noi affrontiamo
all’imbrunire un uomo al primo incontro,
io colsi all’improvviso il noto sguardo
di una persona da molt’anni morta,
che avevo conosciuto ed obliato,
o mezzo ricordato, e uno e molti;
e nelle cotte sue fattezze brune
occhi di spettro familiare, uno
intimamente di parti composito,
di mille parti di diversi spiriti
insieme fuse in unica figura.
Non identificabile pareva,
così con lui giocai la doppia parte:
alta levai la voce nel saluto
e udivo un’altra voce che gridava:
«Come? siete voi qui?» Benché non fossimo.
Io ero ancor lo stesso, conoscevo
me stesso, ed ero, eppure, qualcun altro –
ed egli volto senza forma ancora;
ma le nostre parole poi bastarono
al riconoscimento l’un dell’altro.
E così docili al vento comune
e l’uno e l’altro troppo estranei per non
intenderci, concordi in questo tempo
d’intersezione nel (non) incontrarci
in nessun luogo, non prima né poi,
sul lastricato andammo. Ed io gli dissi:
«La meraviglia mia m’è naturale,
ma la naturalezza è meraviglia.
Perciò parla: potrei non ricordare».
Ed egli: «Ora m’è in uggia il mio pensiero
e non bramo ridire quel che dissi
e la teoria che hai dimenticato.
Queste cose servirono a uno scopo:
dimentica, e così fa’ delle tue
e prega che ci siano perdonate
dagli altri, come in cielo e così in terra,
com’io ti prego di dimenticare
il male e il bene che ti ho fatto. Il frutto
dell’ultima stagione è mangiucchiato
da bestia sazia, senza più appetito:
veniamo in uggia anche a chi ci ha amato
e alla fine il padrone darà un calcio
al secchio vuoto. Perché le parole
dell’anno ch’è trascorso hanno il linguaggio
dell’anno ch’è passato e le parole
dell’anno che verrà, dell’anno prossimo
attendono altra voce. Ma, e qui attendi,
poiché ora il passo non presenta ostacoli
allo spirito inquieto e peregrino
tra due mondi venuti assai vicini
l’uno all’altro, così trovo parole
che mai pensai che un giorno t’avrei dette
per strade che non avrei più immaginato
di tornare a vedere, quando il corpo
lasciai nel mondo per la cremazione.
Poiché noi di parole ci occupammo
e ci sforzammo di purificare
la lingua avuta in dono e rivolgemmo
la nostra mente a esatte deduzioni,
lascia ch’io ti racconti i grandi doni
serbati alla vecchiaia, quando giunga,
per mettere corona ai duri sforzi
della tua vita. Primo, quel contatto
così freddo dei sensi moribondi
senza incanto, che non offre promessa
se non l’amaro vuoto di sapore
di frutti d’ombra e di foschìa perenne
quando l’anima e il corpo ormai cominciano
a separarsi e meno interagiscono.
Secondo, la conscia impotenza d’ira
per l’umana follia, lacerazione
di risa per ciò che non ci diverte.
Ed ultimo, la pena lacerante
di passare in rassegna ciò che hai fatto,
sei stato; una vergogna dei motivi
svelati così tardi, una coscienza
di cose fatte male e a danno d’altri
che una volta prendevi per virtù.
E poi, l’approvazione degli stòlidi
ferisce, ed ogni onore è fatto onta.
D’errore in errore l’esasperato
tuo spirito procede verso il buio,
se non lo emenda il fuoco che ci affina,
dove ti devi muovere in cadenza
siccome il danzatore sulla sabbia».
Stava sorgendo il giorno. Nella strada
sformata ei mi lasciò, con un commiato
di sguardi e al suon del corno egli scomparve.
Paolo Melandri
28 giugno 2012