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Ormai solo un Dio ci può salvare Milano 1 marzo '12 Heidegger e la Tecnica intervista a Andrea Scarabelli




D. Heidegger e le Macchine, attualità transtemporale del Maestro europeo?
R. Leggere Heidegger oggi, assieme a numerosi critici della tecnica come Jünger, Spengler, Schmitt, Sombart, è particolarmente funzionale. Certo, è pur vero che, sebbene sia possibile raccordare gli anni della crisi che viviamo con quelli che fecero da retroscena alle loro analisi, il nostro presente dispone di uno scarto incolmabile. Ragion per cui, è nell'ottica di nuove letture, di nuove integrazioni che occorre ri-percorrere i sentieri di ieri. La cultura delle nuove sintesi può dirsi, a tale proposito, estremamente fruttuosa nell'indicare nuovi tracciati, che si facciano carico delle domande che il nostro tempo ci pone eludendo, al contempo, l'insufficienza delle risposte sino ad ora fornite.
D'altra parte, è bene ricordare che, come scrisse Goethe, la società che ospita il nostro incedere presenta una duplice sfaccettatura, tecnica e simbolica. Da qui, la necessità di elaborare un antidoto alla crisi che tenga conto di entrambe le necessità, che non si rifugi cioè in un astrattismo incapacitante né in un culto schizoide dell'azione. Occorre, potremmo dire, inquadrare una terza via, che sappia ricondurre ad un comun denominatore questa duplice anima, che Spengler chiamò il volto bifronte della civiltà faustiana.

D Una Modernità altra, oltre il liberalismo e il socialismo?






R. La somiglianza che concerne le strutture menzionate è ormai sotto gli occhi di tutti. Lungi dall'essere differenti, detti movimenti traducono in termini differenti le stesse parole d'ordine, che oggi hanno dichiarato bancarotta. Il che risponde, naturalmente, ad un processo molto più ampio che sta mutando profondamente il nostro modo di vivere il presente.
L'accelerazione del nostro tempo sta bruciando tutti i residui storici di ieri per traghettarci presso nuove conformazioni destinali, che richiedono ancora un tipo d'uomo che sia in grado di amministrarne le sorti. Ora come ora, è difficile incontrare questa forma umana, ma non è escluso che essa possa sorgere improvvisamente, necessitata dagli stessi anni a venire, nei quali quella crisi oggi manifestatasi in maniera aurorale si dispiegherà con una violenza inimmaginabile.
I tipi umani aprono e chiudono le epoche storiche – solo da un uomo nuovo potremo attenderci nuovi assetti. La scommessa sta tutta qui: in che misura è possibile udirne la voce? Questo il tratto che determinerà l'uscita dalla presente crisi. Nel frattempo, un esercizio utile può dirsi lo scagliare, come diceva Nietzsche, le parole innanzi a noi. A patto che, come concludeva il filosofo tedesco, sia poi l'azione a fare da complemento.

D. La rivista Antarès, cronache culturalmente scorrette?
R. Molto scorrette, almeno da un punto di vista istituzionale. Essa può dimostrarsi a tutti gli effetti una esemplificazione della cosiddetta “eterogenesi dei fini”. Nato in un contesto universitario che ha messo interamente al bando tutta una serie di riflessioni, giudicate poco conformi rispetto alle linee di pensiero dominanti, il progetto Antarès intende ricondurre all'interno di questa ultima – senza esaurire il proprio raggio d'azione in questo, ovviamente – quelle stesse testimonianze.
Da qui tutta una serie di iniziative legate alla detta iniziativa come Tradizione e storia delle idee (che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Gianfranco de Turris, Franco Cardini, Brunello de Cusatis, Davide Bigalli e Claudio Bonvecchio), in ricordo di Gian Franco Lami, una delle anime più importanti della Nuova Oggettività, Diorama su Ezra Pound (al quale hanno partecipato Luca Gallesi, Giorgio Galli, Giulio Giorello e Cesare Cavalleri) e appunto questo evento dedicato al “secondo Heidegger”, mal tollerato da una facoltà filosofia più o meno interamente votatasi ad una vergognosa analitica d'oltreoceano.
La piega che ha preso la facoltà di filosofia – alla quale, come buona parte degli articolisti di Antarès – dell'Università Statale di Milano è in ciò assai sintomatica. Dimenticandosi di una importante tradizione teoretica continentale (che essi definiscono con l'epiteto anglosassone di “bad poetry”), tende ad abbracciare le neuroscienze e la filosofia analitica. Segnale di Europei che si dimenticano di essere tali...
Basti pensare che anni fa un docente di filosofia ebbe a dichiarare di “non avere mai letto Platone” e più di recente una professoressa ha affermato, davanti ad una platea giubilante di studenti, che la filosofia di Heidegger è da considerarsi pessima in quanto non obbediente a criteri di tipo logico. Questi sono segnali piuttosto eloquenti per saggiare la stoffa di questi intellettualini dell'ultima ora.
D. Nuova Oggettività, nuova estetica europea?
R. Se riaccordiamo il temine di “estetica” al suo etimo greco, allora la risposta non può che essere affermativa. È di rinnovate categorie esperienziali che oggi abbiamo bisogno. E credo l'impianto della Nuova Oggettività possa fornire questi nuovi parametri esperienziali.
Per poi non parlare della necessità di costituire una Nuova Arte a partire dalle strutture del nostro presente, senza ricorrere alle forme morte di un passato che si è reso muto agli occhi dei moderni. Astrarre un'armonia delle sfere dai meccanismi tecnici, dalle nuove forme che puntellano il nostro esserci storico-destinale odierno. In questo senso, ritengo la lezione futurista possa fornire un avamposto dal quale prendere le mosse. Il futurismo ha impostato delle domande a cui nessuno ha (più) saputo rispondere. È evidente che, in tempi come i nostri, un silenzio del genere è più eloquente di mille proclami. Esso preannuncia l'avvicinamento a talune delle regioni in cui si decide della vittoria o della capitolazione dell'uomo innanzi al proprio futuro.

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