LE PIETRE E LE PAGNOTTE






Alcune riflessioni su: “La Persuasione e la Rettorica” di C. Michelstaedter
di Filippo Venturini

So che voglio e non ho cosa io voglia. Un peso pende ad un gancio e per pendere soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende.
Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso e scenda indipendentemente fino a che sia contento di scendere. In nessun punto raggiunto fermarsi l’accontenta e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga (…) sempre lo tiene un’ ugual fame del più basso e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere[1].

E’ questa quella “spinta illimitata”, che fa sì che Attis[2] scenda fino ai limiti estremi della materia, fino a perdere il controllo di sé:

egli si gira per la via dei singoli bisogni e sfugge sempre a se stesso[3]

fino a che non si mutila ed allora risale fino alla Madre degli Dei, purificandosi, ripiegandosi su se stesso.


Mutilazione = Dolore
Il Dolore ci parla, ci persuade[4]. Capita che di fronte ad un grande Dolore ci si chieda: “Perchè?” e come con un colpo di maglio, s’abbatte tutto l’apparato retorico della vita e ci si ritrova nudi, soli, nel deserto, ci si scopre:
insufficienti di fronte all’infinita potestas[5].

Questo è “Essere”, non esistere. In tali circostanze, però, arriva tempestivo il Demonio:

dì che questi sassi diventino pane,[6]

mangiando di quel pane, ricominciamo ad esistere: ex stare, ovvero: εξίστημι. La sola preposizione di moto da luogo implica: spazio e tempo, quindi l’asservimento al divenire, che altro non è se non paura di morire: filospuchia. Ritorna la “spinta illimitata”, per la quale si perde se stessi, credendo di possedere ciò che in realtà ci possiede; questa è la Rettorica.
Essere persuasi, ovvero: Essere, implicherebbe, oltre alla risposta che conosciamo all’invito del maligno, anche l’ostentazione d’un contegno da kouros: impassibili, sorridenti, con un simile atteggiamento ci si farebbe kairòs, sottraendosi al divenire, quindi all’esistere, allora si sarebbe eterni. Non a caso il kairòs è rappresentato con i tratti di un giovane, in quel particolare momento della vita situato fra la fanciullezza e l’età matura, un momento in cui si prende coscienza di sé, sentendosi onnipotenti, non curandosi della morte. C’è chi ha individuato un rapporto fra il latino iuvenes, il vedico ayu(s), il greco aion, ed il latino aevum[7].Tuttavia ad un certo momento si prende a volere, ci si perde di nuovo, si diventa maturi e ogni frutto maturo cade, come quel peso di cui in apertura si diceva. Emblematica a tal riguardo è la vicenda di Achille: è partito per la guerra a 15 anni, muore nell’ultimo anno di combattimenti, d’un conflitto decennale. Il Pelide si trova, cioè, alla fine di quel periodo in cui l’essere umano prende coscienza di sé, prima di perdersi nuovamente, infatti proprio nell’ultimo anno della sua “età di mezzo” Achille prende a volere: Briseide; prende a covare la vendetta: Agamennone e gli Achei tutti. si potrebbe dire che il Pelide entri nel tempo, inteso come Chronos, diventa filopsuchos , a tal punto da essere anche egoista: si ritira non combatte più, perché s’aspettava qualcosa che non gli è stato dato e se torna a combattere lo fa solo, per vendicare Patroclo, ancora una volta: volontà, egoismo.

Il dare per avere dato[8] non è dare ma chiedere[9]

ed il chiedere ci pone in uno stato di sudditanza, mantenendoci tesi nell’aspettativa che la nostra richiesta venga soddisfatta. La persuasione è darsi tutto, senza nulla chiedere in cambio, il persuaso è uno: egli e il mondo[10].
Da che il Pelide prende a volere comincia la storia, cioè la “tensione a” dell’uomo, che piomba così nel divenire, ogni gesto è dettato dalla paura di morire, dal desiderio di preservarsi: l’Eroe diventa Odisseo, chi è più filoyucos di lui? Quando i due s’incontrano nell’Ade Achille con le sue stesse parole declama l’epinicio della filoyucia:

non lodarmi la morte, splendido Odisseo, vorrei essere un bifolco, servire un padrone, un diseredato che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare sulle ombre consunte. (XI, 488-491)

E’ sintomatico che il Pelide voglia essere un servo, un sottoposto: la condizione del volere è una condizione di servitù al volere stesso.
Achille è in quel momento della vita, nel quale viene ritratto anche il kairòs, ma anche i kouroi.
La volontà altro non è se non un tentativo di preservarsi dalla morte, è paura di morire.

Non dare agli uomini appoggio alla loro paura della morte, ma toglier loro questa paura; non dar loro la vita illusoria e i mezzi a che sempre ancora la chiedano, ma dar loro la vita ora, qui, tutta, perché non chiedano: questa è l’attività che toglie la violenza alle radici[11].

Chi ha paura della morte è già morto:

Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti[12]

Gli uomini prendono ad unirsi in società, abdicando a porzioni, anche cospicue, della propria libertà, per la sicurezza ed è proprio la volontà di preservarsi, di vivere sicuri, che determina i progressi tecnici e scientifici.

A una sicurezza sociale assoluta corrisponde nell’individuo sociale una previsione ridotta all’attimo e al punto per cui, a ogni nuova contingenza insufficiente, tolto dal grembo della società, l’individuo in quell’attimo e in quel punto miseramente perirebbe. Tutti i progressi della società sono regressi dell’individuo. Ogni progresso della tecnica istupidisce per quella parte il corpo dell’uomo. Le vesti, la casa, la produzione artificiale del calore rendono inutile la facoltà di reazione dell’organismo all’aria, al caldo, al freddo, al sole, all’acqua.[13]

In sintesi: la società elimina ogni ponos[14]. La società è come il Demonio che dice all’uomo solo, nel deserto: “dì che questi sassi diventino pane[15]”, la tecnica è il modo con il quale quelle pietre vengono tramutate in pane, non a caso c’è chi ha definito faustiano il patto fra uomo e tecnica[16].
Per quanto concepita per preservare l’uomo dal proprio destino di morte, la tecnica:

Un giorno sarà distrutta e dimenticata: distrutte saranno le ferrovie e i piroscafi, come un giorno le strade romane e la muraglia cinese; le nostre colossali città e i loro grattacieli come i palazzi dell’antica Menfi e di Babilonia. La storia di questa tecnica si avvicina rapidamente all’inevitabile fine.[17]”

Di fronte a questo destino, una sola concezione del mondo è degna per noi, quella già enunciata da Achille[18],

almeno fino a che non ha preso a volere, potremmo aggiungere, poiché così facendo s’è offerto alle “relazioni particolari”. Cosa avverrebbe se questo immenso apparato retorico crollasse? Cosa ne sarebbe dell’uomo che ha fondato la sua vita sulla contingenza delle cose e delle persone e della carità di queste[19] e che:

né ha in sé vigore a conservarsi ciò che non per suo valore gli appartiene[20]?

Il prezzo da pagare per ogni comodità è che:

la condizione dell’animale domestico si porta dietro quella della bestia da macello[21].

L’animale domestico ha uno spazio d’azione, un campo visuale, che non va tanto oltre lo steccato del giardino nel quale è legato alla catena, dunque s’occupa di quello spazio limitato, da qui le parole d’ordine della società: “pensare al proprio tornaconto”, “non impegnarsi mai a fondo e con generosità, in nulla a meno che non convenga”, qualora non ci si attenesse a ciò la catena potrebbe essere sciolta si potrebbe essere costretti a lasciare il giardino, per la strada o per il bosco, ove sarebbe facile morire. La società infonde al contempo paura e ottimismo, paventando una mancanza di sicurezza e benessere, materiale; allo stesso tempo, facendo balenare la possibilità in un futuro di un maggiore benessere, sempre materiale, cioè di allungare la catena. Per questo si deve ritenere che:

l’ottimismo è viltà[22],

poiché equivale a piegarsi. Cresce solo colui che non si piega. Solo chi combatte con un terreno ingrato, col clima nemico, costui cresce quanto comporta la sua forza e non c’è vento che lo pieghi[23]. Mai farsi distogliere, da un qualsivoglia elemento retorico, da una serena contemplatio mortis, equivarrebbe ad una vera morte.

Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti[24]

Bisogna avere il coraggio di guardare dritto negli occhi l’orrore, senza restarne paralizzati, senza distogliere lo sguardo, fino ad identificarsi con quello. Achille è ritratto con caratteri facciali gorgonii.

Qui ritto gridò e Pallade Atena al suo fianco urlava: fra i Teucri sorse tumulto indicibile.
Come è sonora la voce della tromba che squilla, quando i nemici massacratori assediano la città, così fu sonora la voce dell’Eacide. E quelli come udirono la bronzea voce dell’Eacide, a tutti balzò il cuore (…) gli aurighi inebetirono, come videro il fuoco indomabile tremendo sopra la testa del Pelide maganimo ardente; e l’accendeva la dea Atena occhio azzurro.
Tre volte sopra il fossato gridò alto Achille Glorioso, tre volte furono sconvolti i Troiani e gli illustri alleati (XVIII, 215-227).

Veniva stridore dai denti, i suoi occhi lampeggiavano come lampa di fuoco (XIX 365-366).

Achille urla, digrigna i denti, diffonde attorno a sé un terrore tale da paralizzare il nemico (gli aurighi inebetirono): tutti tratti tipici di Gorgo, che appare sull’egida di Atena (dea protettrice del Pelide) circondata da “Terrore, Lotta, Violenza, l’Inseguimento agghiacciante”; mentre sullo scudo di Agamenone è attorniata da “Terrore e Disfatta”. E’ interessante notare che il re degli Achei ha il mostro sul proprio scudo, ma non ne ha mai le caratteristiche facciali: costui è un uomo maturo, uscito da tempo da quell’arco cronologico compreso fra i 15 ed i 25 anni nel quale si trova Achille, è il re che comanda su tutti, cioè il simbolo di quel potere che si mantiene sulla retorica, non a caso ha un grosso scudo circolare, che parrebbe simile a quello degli opliti, quindi anacronistico rispetto ai fatti narrati nel poema omerico, tuttavia simbolicamente la cosa ha una forte pregnanza. Fra VIII e VI secolo con l’affermarsi dello schieramento oplitico viene progressivamente meno la figura del combattente solitario, autore di mirabolanti gesta, al di fuori dello schieramento corale e spesso associato al carro da guerra o al cavallo.
Quello degli opliti è un ordine isonomico di fanti, entro il quale non è consentito nessun personalismo, a tale riguardo è illuminate la vicenda dello spartano Aristodemo, al quale si rifiutarono gli onori, perché, sebbene protagonista di azioni eccezionali, sul campo di battaglia, ha agito sviato dalla lyssa, lasciando il proprio posto[25] comportandosi, cioè, come quei guerrieri assimilati a Gorgo.
Gli opliti schierati in ranghi serrati tendevano, avanzando, a ripararsi sotto lo scudo del compagno d’armi alla loro destra, affidando così la propria protezione a un terzo, il quale faceva lo stesso, proprio come nella polis ognuno affida la propria esistenza ad un terzo elemento: la legge, comunemente concordata, che limita la libertà, ma garantisce la sopravvivenza. Con l’egoismo, volto a preservare la propria esistenza, si sopprime il personalismo generoso e disinteressato dell’eroe che combatte avulso dallo schieramento corale, alla generosità: alla persuasione, si sostituisce il tornaconto: la jiloyucia. Il personalismo generoso e disinteressato è iperbolico al punto di diventare negazione dell’ego, vera impersonalità attiva.
La Gorgone sugli scudi oplitici è molto di più che apotropaica, ma è il simbolo della ferrea disciplina che regola questo tipo di schieramento e la polis stessa, ma che creatura è la Gorgone?
Iconograficamente solo relativamente tardi assume i caratteri medusei che ha per antonomasia, inizialmente non pare avere nulla di femminile, tuttavia è comunque la risultante dell’unione di più elementi: il viso largo, che ricorda un leone, i denti acuminati, come zanne d’un cinghiale, in alcuni casi orecchie da bovide e naso camuso, dalle larghe narici, tutt’altro che umano. Nei tipi che ritraggono tutto il corpo del mostro, ci sono anche le ali. Si tratta di almeno cinque animali: volatile, leone, cinghiale, bovide, a questi si aggiunga il cavallo: in una raffigurazioni è ritratta con corpo da centauro. Ultimo animale da tenere in considerazione è il serpente, ma con estrema cautela, visto che nelle raffigurazioni più arcaiche non è costantemente presente. Infine vediamo che nelle più antiche raffigurazioni la Gorgone ha capelli e a volte barba da Kouros, cioè tratti del giovane combattente in età compresa fra i 15 e i 25 anni, proprio come Achille che al mostro è così frequentemente associato.
Naturale è istituire un paragone con il dio avestico della vittoria che si presenta sotto dieci sembianze diverse, sette delle quali animali: vento, bue, stallone, cammello in calore, cinghiale, un giovane di quindici anni, l’uccello Varagna, un ariete, un capro selvatico, un guerriero armato per la lotta. In questa sede tale somiglianza ha poca importanza, cosa conta invece? Ciò che conta è che Gorgo rappresenta l’orrorifica forza ancestrale della natura[26], nel suo complesso, non parcellizzata in singoli aspetti, che in quanto tali potrebbero essere provvisoriamente dominati dalla tecnica.
Non a caso la dea che porta una Gorgone sul petto è proprio Atena: dea poliadica per eccellenza e soprattutto dispensatrice di tecnica, cioè di parcellizzazione delle competenze, è la dea che fa si che ognuno si perda nelle relazioni particolari.
Gorgo è polimorfa, come polimorfo è il mondo, come lo è anche il Centauro, per questo possiamo pensare che tali creature siano il volto, l’essenza dell’uomo persuaso, che:

si deve sentire nel deserto fra l’offrirsi delle relazioni particolari, poiché in nessuna di queste egli può affermarsi tutto: ma in ogni cosa che queste relazioni gli offrano egli deve amare la vita di questa e non usare della relazione: affermarsi senza chiedere[27].

Egli deve avere il coraggio di sentirsi ancora solo[28]. Chirone vive solo in una grotta, è onnisciente, rappresenta la piena fusione con il mondo, si dà senza chiedere nulla in cambio: istruisce eroi che segneranno la fine del suo mondo. Achille è istruito da Chirone, ma è già un essere parcellizzato, infatti alla fine è preda della jiloyucia; è, inoltre, un protetto di Atena.
A pensarci bene tutti gli dei dell’Olimpo sono dei della tecnica: ognuno ha una propria competenza specifica, l’ultimo arrivato, il più giovane è Dioniso, cioè quello che permette di uscire dal mondo delle relazioni particolari, non a caso è un dio polimorfo. Come se, una volta costruita la gabbia delle specificità tecniche, si fosse stabilito anche un modo per uscirne: per evadere da una costrizione, che come tale era sentita innaturale, ma senza capirne il perché dopo anni, secoli, di sprofondamento nelle relazioni particolari. Non a caso uno dei passaggi rituali necessari per questa evasione era il mangiare carne cruda, proprio come facevano i Centauri, che non conoscevano parcellizzazioni, dunque vivevano pienamente immersi nel mondo, cioè vivevano persuasi, da qui l’onniscienza di Chirone, nonché il loro essere poco usi al vino: non avevano bisogno di vettori per il misticismo, né di misticismo, poiché vivevano costantemente in quella integrazione con l’assoluto, alla quale invece ambivano gli uomini dimidiati, che si facevano iniziare ai misteri, facendo così diventare reintegrazione questa loro iniziazione. Il procedimento di reintegrazione è bene esemplificato iconograficamente nel “Mosaico di Europa” di Forum Sempronii[29].
Nell’omonimo poema di Maurice de Guérin, il centauro racconta che un giorno vide al di là d’un fiume, che altro non è che il fiume della vita, il primo uomo che gli suscitò immediato disprezzo, poiché in lui vedeva un essere dimidiato, mutilo, cioè un essere votato alle “relazioni particolari”, quindi destinato a selezionare, parcellizzare, contare, istituire proporzioni: dare/avere; quanto dare, quanto avere; un essere egoista, come diventa Achille, allorché arriva alla soglia della maturità e diventa come quel peso di cui prima.
Nonostante ciò Chirone non esita ad agire in favore di questi esseri: si potrebbe dire con disinteressata ed aristocratica generosità, come colui l’animo del quale si dissipa e non vuole essere ripagato, giacché egli dona sempre e non vuole qualcosa in cambio[30]. Così, dandosi senza condizioni, si permea di sé il mondo, portando la luce là dove sono le tenebre. Per arrivare a questo stato è necessario passare una linea, quella che demarca il confine con il bosco, per dirla con Jünger o con il deserto, per continuare con la metafora evangelica, usata anche da Michelstaetdter stesso: questa è la linea del nichilismo, che non è negazione del valore del vivere e del mondo, ma presa di coscienza della inconsistenza d’un esistenza che si perde nelle relazioni particolari, che conferisce ai fatti nudi e crudi un’importanza assolutamente smodata, questo potremmo tutt’al più definirlo “nullismo”. Una volta in questo deserto o bosco, arriva il demonio e chiede di tramutare le pietre in pane, come a dire: “lo vedi che sei insufficiente rispetto all’infinita potestas? Accontentati delle singole cose, alle quali basti e che ti bastano” L’immenso dolore che si prova nel deserto, può essere, non annullato, ma dimenticato, accettando i palliativi di Satana, il quale potrebbe seguitare a dire: “Non è possibile per te sostenere tanta immensità, non vedi come soffri? Adattati, sii furbo, fai come tutti” e sarebbe lo stesso Satana ad offrire poi anche il tramite per avere l’impressione di svincolarsi da tali ceppi: droghe, alcool, non a caso ha tratti caprini, che lo rendono, in parte, una perpetrazione dell’iconografia dionisiaca. Senza vacillare, adirarsi, mantenendosi in equilibrio, sorridenti come dei kouroi la risposta dovrebbe essere:

il coraggio dell’impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori della morte e il presente diviene vita. Non mi importa di vivere se ciò deve comportare la rinuncia alla vita in ogni presente per la cura del possibile[31],

come a dire: “no ai particolari, voglio darmi tutto, per essere tutto”, questo significa:

Non di solo pane vive l’uomo, ma da di tutto ciò che viene da Dio

Le singole azioni sviano l’uomo, lo distraggono con un gioco di specchi, rendendolo ebbro e schiavo di desideri sempre nuovi, ma sempre uguali: sempre a tramutar pietre in pagnotte, inventando ogni volta nuovi macchinari per farlo….



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[1] C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano 2007, 39
[2] Flavio Claudio Giuliano, Inno alla Madre degli Dei, 167, c
[3] Michelstaedter, 54.
[4] Idem, 85-89.
[5] Idem, 87.
[6] Matt. IV,3
[7] G. Dumézil, Le sorti del guerriero, Milano 1990, 162.
[8] Cioè per avere in cambio.
[9] Michelstaedter, 81
[10] Idem, p.82.
[11] Michelstaedter, 81
[12] Matt., VIII, 22
[13] Michelstaedter, 156
[14] Idem, 156.
[15] Matt. IV,3
[16] O. Spengler, L’uomo e la tecnica, Prato 2008.
[17] Idem, 107.
[18] Idem, 107.
[19] Michelstaedter, 155.
[20] Idem, 155.
[21] E. Jünger, Trattato del ribelle, Milano 2001, p. 40
[22] Spengler, 107.
[23] Michelstaedter, 155.
[24] Matt., VIII, 22
[25] Erodono, IX, 71.
[26] Nel vaso francois, si trova nella parte interna dell’ansa sulla quale è rappresentata Artemis, come a dire che è il volto selvaggio della dea signora delle fiere e della caccia. E’ Artemis ipostasi di Gorgo.
[27] Michelstaedter, 83.
[28] Idem, 83
[29] F. Venturini, La difficile via per il centro, in Letteratura-Tradizione, XLII, 2008.
[30] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano 1983, p. 11.
[31] Michelstaedter, 82.