LAVORO E AZIONE
C’è un Dio in noi, ci entusiasmiamo, quando questi ci sprona:
in tale impeto è l’essenza della mente divina.
Soprattutto a me è stato lecito avere visto il volto degli Dei,
o perché sono Vate o perché canto argomenti sacri(1).
Che senso hanno i così detti “studi classici” oggi? Di fatto nessuno e questo perché al di là delle belle frasi retoriche, si tratta d’un campo di ricerca che non produce alcun effetto materiale, immediatamente fruibile. In parte si salva l’archeologia, in quanto contribuisce materialmente al turismo.
Al di là dei vari problemi contingenti ritengo che quello fondamentale sia che: tutto oggi è lavoro e così l’archeologo, il filologo, lo storico sono come il muratore, l’operaio, il dentista….Finché si valutano certi studi con il metro del “lavoro” risulteranno sempre inutili, saranno sempre più sviliti, per renderli sempre più lavoro, ma non potendo essere tali, finiranno con l’essere eliminati, allora definitivamente si profilerà quanto afferma Dumézil: “un popolo senza leggende è destinato a morire dal freddo” o peggio divenire, preda o integrarsi con i popoli che di leggende e miti ne hanno ancora operanti nella realtà quotidiana. L’esempio pratico è l’assimilazione di buona parte d’Europa alla cultura americana, che al di là di ogni valutazione personale è indubbio che si sia ammantata d’una alone mitico, leggendario, che ha finito per essere spiegazione anche per il quotidiano europeo e non solo.
Esiste qualche punto di contatto fra la cultura americana e “tradizione” europea, ma cosa avverrebbe con culture estremamente, totalmente, diverse che si trovassero ad avere lo stesso ruolo che hanno avuto gli Stati Uniti negli 100 anni?
“La parola «lavoro» ha sempre designato le forme più basse dell’attività umana, quelle appunto che sono condizionate più univocamente dal fattore economico. Tutto quanto non si riduce a simili forme è illegittimo chiamarlo lavoro; la parola da usare è invece: azione: azione e non lavoro è quella del capo, dell’esploratore, dell’asceta, dello scienziato puro, del guerriero, dell’artista, del diplomatico, del teologo, di chi pone una legge o di chi la infrange, di chi è spinto da una passione elementare o guidato da un principio”. La citazione di Evola serve a quietare la mia coscienza dopo avere dato ragione a Marx, ma, scherzi a parte, è qui indicata la salvezza. Alla riunione premanifesto a Roma, tenutasi ad aprile, ho sentito alcuni affermare che Evola non appartiene al nostro passato, ma alla nostra preistoria. Il non essere dogmatici è senz’altro un presupposto fondamentale per sviluppare un’azione che produca un qualche frutto e non fare della semplice testimonianza, ma è vero che molte delle idee espresse da Evola sono oggi molto più che attuali, quasi lucidamente profetiche e questo, forse, perché come affermava Eliade: “Evola non ha idee che gli siano proprie”. Non intendo spiegare Evola a nessuno, ci mancherebbe, dico solo che dei punti di riferimento ci vogliono, almeno per chi non è ancora un “Individuo Assoluto”.
La perdita d’importanza degli studi classici è un fenomeno che s’è sempre più aggravato a partire dal dopoguerra. E’ ovvio che a monte ci siano motivi ideologici ben precisi, senza scendere troppo nel particolare di cose ben note, basti pensare che vengono considerati eroi coloro i quali aiutarono eserciti stranieri a invadere e conquistare il suolo patrio, mentre quelle minoranze, determinate a fare sì che ciò non avvenisse, come ad Anzio, vengono considerate nemiche della patria. Ciò è come se gli Elleni avessero chiamato Efialte eroe, liberatori i Persiani e delinquenti, taglia gole i 300 al seguito di Leonida. Una totale inversione di valori è a monte dell’Italia liberata, non è una novità, inversione, anche questa simboleggiata dal corpo appeso a testa in giù, di colui che fu quasi smembrato. Lo sparagmòs(smembramento) è un momento topico del rituale dionisiaco è un episodio fondamentale della vita, del Dio delle Donne e del Toro, come lo chiama Kerenyi, seguito da masse invasate e cantanti, al quale si rifacevano i tyrannoi dell’antichità, spesso finiti smembrati anch’essi, non è un caso se il termine tyrannos sia di origini orientali e indichi un dio dell’abbondanza, della vegetazione rigogliosa.
La storia ha indubbiamente un profondità, una terza dimensione, come dimostrano queste analogie.
Inversione dei valori è anche l’importanza data al lavoro: “Il mondo antico non disprezzò il lavoro perché conobbe la schiavitù ed erano degli schiavi a lavorare, ma al contrario perché disprezzò il lavoro esso disprezzò lo schiavo…al lavoro come ponos, oscura fatica vincolata al bisogno, si opponeva l’azione: l’uno il polo materiale, greve, oscuro; l’altra il polo spirituale, libero, staccato dal bisogno”, come non citare anche “Rivolta”! Le Lettere, la Storia, l’Archeologia sono state investite da una concezione da schiavi, come avrebbero potuto non degradarsi?
La distanza che la così detta “gente comune” ha, prova, sente verso l’antico, sia esso letteratura o reperto, monumento è anche imputabile ad un fatto tutto contingente, materiale: il sempre più massiccio uso di potenti macchine per il movimento terra e la costruzione.
Un tempo quando ogni costruzione comportava un largo impiego di lavoro umano, si “andava al risparmio”, cioè si cercava di usare quanto già presente, quindi resti medievali, romani, sia come “cave” dalle quali prelevare materiali edili, sia come fondamenta per le nuove strutture: quante chiese, castelli, palazzi sorgono su strutture più antiche. Nella pratica quotidiana, quindi, il mondo antico era sentito, come imprescindibile presupposto del presente, come fondamento, inamovibile di quello, anche dagli illetterati, che certo non saranno stati capaci di distinguere un opus vittatum augusteo da una muratura altomedievale, ma sicuramente consideravano quei resti come fondamentali per la loro esistenza. Tutto ciò oggi è venuto meno.
Gli archeologi spesso si trovano a lavorare in cantiere, fianco a fianco con gli operai, a diretto contatto con i costruttori, spesso non proprio coltissimi, ma non si può se non raramente agire positivamente su questi, poiché i secondi pagano e perdono tempo nella loro ottica; mentre i primi sono quasi sempre stranieri e hanno ben poco interesse alle radici di un popolo, al quale non appartengono e che essi stessi vedono non tenere poi tanto alle sue stesse radici.
In alcuni casi si riesce ad esporre parte dei reperti in loco, allestendo delle bacheche permanenti nelle fabbriche, negli uffici, nei condomini costruiti sul sito, ma il risultato è modesto.
Le rivoluzioni si fanno dall’alto, allora è dalle accademie, che deve partire l’azione, devono sparire gli oziosi lavoratori dell’intelletto, i colletti bianchi della cultura, i proletari delle lettere e come?
Una soluzione credo sia senz’altro quella di ricominciare ad emozionarsi, a sognare, a ragionare per ampi orizzonti, creando quegli spazi, anche mentali, spirituali, sconfinati, nei quali è possibile agire. In questo senso è esemplare l’azione svolta da A. Carandini negli ultimi 20 anni, durante i quali ha scavato tra Campidoglio, Foro, Velia e Palatino, cioè nel cuore di Roma, cioè nel cuore d’Europa, giungendo ad una conclusione che può essere così sintetizzata: “il mito dice il vero”. Per chi fondi la propria visone del mondo su autori come Evola, Eliade, Jünger, solo per citarne alcuni, questa potrebbe sembrare una frase lapalissiana, ma se si considera quale sia stata la tendenza che ha dominato certi studi dal dopoguerra ad oggi è una frase rivoluzionaria, nel senso tradizionale, vero di questo termine.
Carandini è uno studioso di formazione marxista, che fonda o meglio fondava, la propria visione del mondo sul materialismo storico, quindi il procedimento rivoluzionario, deve averlo prima di tutto realizzato in se stesso, non ha certamente compiuto a cuor leggero certe affermazioni: “ le favole avevano nella protostoria un’energia propulsiva e il nostro materialismo, razionalismo e laicismo fanno velo nel capire, che sono state proprio quelle magiche potenze le più vere matrici delle azioni umane di allora. In queste circostanze il mito è una realtà e la storia non è che una sua metafora” (2), cioè detto in termini marxisti: le sovrastrutture sono strutture. “non ha senso liberare l’entità storica da quella sovrumana”(3) . Non si vuole tessere il panegirico di Carandini, ma mostrare come questi abbia allargato gli orizzonti degli studi archeologici, costretti entro dogmi laici come “il divieto di risalire oltre le colonne d’Ercole del VII secolo, dettato dalla scarsa fiducia nei miti” (4). Questi dogmi furono imposti dal dopoguerra in poi, da studiosi come il Momogliano ipercritici nei confronti delle fonti e iperazionalisti, tanto da inaridire le fonti della cultura del popolo Italiano, a questo, in ambito archeologico, ha contribuito l’esaltazione del reperto di per sé, legato al dato stratigrafico, studiato ed interpretato, completamente avulso dal contesto culturale, letterario, al quale apparterrebbe, in nome della così detta “cultura materiale”: infinite teorie di cocci, frammenti scultorei e quant’altro, accompagnati solo da una datazione, che spesso risultano anonimi irrilevanti anche agli specialisti, se non ne sono gli scavatori, a maggior ragione risultano incomprensibili e superflui all’uomo comune. Strano e triste paradosso questo, visto che uno dei pionieri della stratigrafia fu Giacomo Boni: l’antitesi dell’arido studioso iperazionalista, data la sua sincera fede nella Religione Romana, come se quanto più scavasse tanto più venisse compenetrasse la tradizione, d’innanzi al muro del tempo, anziché limitarsi a contarne i mattoni(gli strati), a rilevarne le misure, sentì che “Non solo l’uomo crea uno strato, ma lo compenetra di spirito. Ciò conferisce a quello strato della terra che gli appartiene e forse anche all’intero suo pianeta, una luce speciale”(5) . Chi semplicemente “lavora” non può percepire ciò, ma solo chi agisce, chi irrora del proprio spirito ogni sua azione.
Il più superficiale degli strati in genere viene detto strato agricolo, quello intriso del sudore di generazioni e generazioni, nate, vissute, morte calpestandolo, spesso del tutto inconsapevolmente, questo è lo strato della Storia, roboantemente scritta con la S maiuscola, così come secondo alcuni andrebbe scritta la parola Lavoro: gli stessi che scrivono Storia. Quindi il più superficiale degli strati si chiama Storia: teoria di fatti, reperti, di ogni entità e grandezza, accumulatisi, spesso per pura inerzia, quei fatti, quei reperti, verso i quali nutrono una passione feticista coloro che si riducono, per questo, ad essere:”risonanza passiva, che agisce a sua volta con le sue vibrazioni su altre nature passive dello stesso genere”(6) . Se provassimo a immaginare quale vantaggio possa derivare reciprocamente a due operai che si descrivano a vicenda le loro quotidiane azioni meccaniche, alla catena di montaggio, quanto vantaggio ne possa derivare a chi si trovi ad ascoltarli e capiremmo quanto vantaggio derivi dai discorsi degli zelanti catalogatori, lavoratori della cultura.
“Oppure si può sposare la tesi secondo cui l’uomo con una vieppiù crescente consapevolezza (…) penetrando strato dopo strato(il più superficiale dei quali viene chiamato storia) arrivi in certa misura ad attingere il fondo originario, spiritualizzando e rendendo attive parti di esso. Là dove avverrà il contatto vi saranno risposte straordinarie” (7). Questo indubbiamente fece il Boni, non a caso detto “Vate del Palatino”, proprio nel senso dei versi ovidiani citati in apertura.
Qualcosa di simile ha fatto, sta facendo il Carandini, che ha rimosso la Storia, ciò che è transeunte, effimero, per giungere all’essere, la percezione del quale rende essenziale anche la storia, che allora diviene simbolo, di una realtà più profonda, percepibile a seconda delle naturali predisposizioni e attitudini, quindi, come tutti i simboli creatrice di gerarchie, cioè di ordine, di oggettività.
Come chi uscito dalla caverna delle ombre di Platone, poi vi fa ritorno per portare alla conoscenza quanti ancora sono lì dentro, Carandini ha dato vita ad una attività pubblicistica di tipo divulgativo, con testi come: “Roma il Primo Giorno” di semplice rapida lettura, ma dal forte significato simbolico, vettoriale. “Il 21 aprile, prima dell’alba Romolo esce dalla capanna in cui abita(8) : per fare cosa?Vicino c’era un’altra capanna a due ambienti, che poteva accogliere i culti di Marte e Ops, la dea dell’opulenza. Le due capanne sorgevano dove prima sorgeva un'unica più ampia capanna, corrispettivo archeologico di quella di Acca e Faustolo. Dopo avere sacrificato il re si reca verosimilmente al centro del lato occidentale del Palatino e qui crea un secondo templum per osservare gli uccelli, rivolto anche questo al monte Albano. Definisce prima di tutto i limiti alla radice del monte entro i quali desidera che scenda la benedizione divina o augurium(da augere: aumentare)….Segna poi questi limiti, a partire dai quattro angoli del monte, facendo infliggere in terra pietre terminali, che costituivano il pomerium o limite continuo, da immaginare dietro alle mura che sarebbero poi state edificate. Nella visione del re ugure ciò rappresentava il prospetto della sua futura Urbs”(9). Dato di scavo e mito convergono, dimostrando, chiaramente come lo strato superficiale della storia, una volta rimosso, venga ricomposto e dotato di veridicità, di fondamento proprio dal mito. La reazione che si prova davanti a ciò è lo stesso solco primigenio della Città, che esclude o include. L’impassibilità, l’indifferenza di qualche uomo comune, come quel popolano che fischietta noncurante d’innanzi alle Terme di Caracalla, nell’omonima lirica del Carducci; così come il distacco razionalista, il sarcasmo scettico, che alcuni studiosi potrebbero provare, sono altrettante condanne all’esclusione e al sacrificio qualora cerchino di penetrare quel sacro recinto: Sic deinde quincumque alius transiliet moenia mea!10). L’emozione che in un primo spontaneo moto fa vibrare all’unisono i cuori del professore, dell’operaio, del libero professionista è l’oggettività che li include entro quel sacro recinto, che li unisce indissolubilmente a formare un popolo, la profondità d’intuito, invece ne definisce i rapporti gerarchici, al colmo dei quali ci sarà chi entusiasmato giunga a vedere il volto degli dei, divenendo così Vate: uomo d’azione: Vir.
Nella descrizione del Carandini,ove il mito sostanzia la storia, l’azione di Romolo si compie ciclicamente ogni 21 aprile, come la nascita di Cristo ogni 25 dicembre, a tal proposito: “Come la basilica costantiniana di Betlemme era sorta sulla grotta dell’epifania di Gesù ai pastori, così la basilica di Anastasia poteva essere sorta sopra l’ingresso al Lupercale, la grotta dell’epifania di Romolo ai pastori e al porcaro Faustolo”(11) , ancora una volta il potere legante ed escludente del simbolo, non può che essere cartina di tornasole, per rivelare la necessità di escludere da una comunità, chi non ne rispetta e riconosce ciò che oggettivamente la lega. Di fronte ad un tale accostamento quanti vorrebbero costituire un’Europa sulla base di radici giudaico-cristiane, è chiaro che, nella migliore delle ipotesi, non sappiano di cosa parlino, dato che le radici sono incontestabilmente: Romano-Cristiane. Nella peggiore delle ipotesi, quanti parlano a favore delle radici giudaico-cristiane, sono in malafede, questo binomio che sarebbe a fondamento della civiltà occidentale è una delle armi propagandistiche più forti dei gruppi di cristiani evangelici, estremamente diffusi oltreoceano, che sono: antieuropei, antiromani, anticattolici, ai quali è anche riconducibile un gruppo di cristiani sionisti, che insieme a più potenti organizzazioni ebraiche come AIPAC influenzano in modo nefasto la politica americana in Medioriente, si tratta dei: Christian United for Israel(CUFI)(12) . Ecco che si è appena dimostrato, come degli studiosi, che siano degli uomini d’azione, non dei lavoratori catalogatori, alienati dal lavoro, investirebbero inevitabilmente anche ambiti del vivere quotidiano, della politica, dell’economia, partecipando all’azione storica/spirituale del proprio popolo, anzi alimentandola, mantenendone viva l’oggettività. Questo non, agendo istrionicamente come certi intellettuali alla moda, sentenziano, spocchiosamente e superficialmente su qualsiasi argomento, ma occupandosi del proprio campo d’azione.
(1) Ovidio, Fasti, VI, 5-8
(2)A. Carandini, La Nascita di Roma, Torino 1997, p. 7
(3)Ibid., p.8
(4)Ibid., p.14
(5)E. Jünger, Al muro del tempo, Milano 2000, p.190
(6)F. Nietszche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano 1998, p. 49; si veda anche l’epilogo di G. De Santillana, Il Mulino di Amleto, Milano 2004, pp. 381-398.
(7)Jünger, op. cit., p.190
(8) Capanna che lo studioso identifica: A. Carandini, Roma il Primo Giorno, Bari 2007, p.45.
(9)Ibid., pp. 44-47.
(10)Liv., I, 7
(11)A. Carandini, La Casa di Augusto dai Lupercalia al Natale, Bari 2008, p. XVI
(12)J.J. Mearsheimer, S. M. Walt, La Israel Lobby e la politica estera americana, Milano 2007
C’è un Dio in noi, ci entusiasmiamo, quando questi ci sprona:
in tale impeto è l’essenza della mente divina.
Soprattutto a me è stato lecito avere visto il volto degli Dei,
o perché sono Vate o perché canto argomenti sacri(1).
Che senso hanno i così detti “studi classici” oggi? Di fatto nessuno e questo perché al di là delle belle frasi retoriche, si tratta d’un campo di ricerca che non produce alcun effetto materiale, immediatamente fruibile. In parte si salva l’archeologia, in quanto contribuisce materialmente al turismo.
Al di là dei vari problemi contingenti ritengo che quello fondamentale sia che: tutto oggi è lavoro e così l’archeologo, il filologo, lo storico sono come il muratore, l’operaio, il dentista….Finché si valutano certi studi con il metro del “lavoro” risulteranno sempre inutili, saranno sempre più sviliti, per renderli sempre più lavoro, ma non potendo essere tali, finiranno con l’essere eliminati, allora definitivamente si profilerà quanto afferma Dumézil: “un popolo senza leggende è destinato a morire dal freddo” o peggio divenire, preda o integrarsi con i popoli che di leggende e miti ne hanno ancora operanti nella realtà quotidiana. L’esempio pratico è l’assimilazione di buona parte d’Europa alla cultura americana, che al di là di ogni valutazione personale è indubbio che si sia ammantata d’una alone mitico, leggendario, che ha finito per essere spiegazione anche per il quotidiano europeo e non solo.
Esiste qualche punto di contatto fra la cultura americana e “tradizione” europea, ma cosa avverrebbe con culture estremamente, totalmente, diverse che si trovassero ad avere lo stesso ruolo che hanno avuto gli Stati Uniti negli 100 anni?
“La parola «lavoro» ha sempre designato le forme più basse dell’attività umana, quelle appunto che sono condizionate più univocamente dal fattore economico. Tutto quanto non si riduce a simili forme è illegittimo chiamarlo lavoro; la parola da usare è invece: azione: azione e non lavoro è quella del capo, dell’esploratore, dell’asceta, dello scienziato puro, del guerriero, dell’artista, del diplomatico, del teologo, di chi pone una legge o di chi la infrange, di chi è spinto da una passione elementare o guidato da un principio”. La citazione di Evola serve a quietare la mia coscienza dopo avere dato ragione a Marx, ma, scherzi a parte, è qui indicata la salvezza. Alla riunione premanifesto a Roma, tenutasi ad aprile, ho sentito alcuni affermare che Evola non appartiene al nostro passato, ma alla nostra preistoria. Il non essere dogmatici è senz’altro un presupposto fondamentale per sviluppare un’azione che produca un qualche frutto e non fare della semplice testimonianza, ma è vero che molte delle idee espresse da Evola sono oggi molto più che attuali, quasi lucidamente profetiche e questo, forse, perché come affermava Eliade: “Evola non ha idee che gli siano proprie”. Non intendo spiegare Evola a nessuno, ci mancherebbe, dico solo che dei punti di riferimento ci vogliono, almeno per chi non è ancora un “Individuo Assoluto”.
La perdita d’importanza degli studi classici è un fenomeno che s’è sempre più aggravato a partire dal dopoguerra. E’ ovvio che a monte ci siano motivi ideologici ben precisi, senza scendere troppo nel particolare di cose ben note, basti pensare che vengono considerati eroi coloro i quali aiutarono eserciti stranieri a invadere e conquistare il suolo patrio, mentre quelle minoranze, determinate a fare sì che ciò non avvenisse, come ad Anzio, vengono considerate nemiche della patria. Ciò è come se gli Elleni avessero chiamato Efialte eroe, liberatori i Persiani e delinquenti, taglia gole i 300 al seguito di Leonida. Una totale inversione di valori è a monte dell’Italia liberata, non è una novità, inversione, anche questa simboleggiata dal corpo appeso a testa in giù, di colui che fu quasi smembrato. Lo sparagmòs(smembramento) è un momento topico del rituale dionisiaco è un episodio fondamentale della vita, del Dio delle Donne e del Toro, come lo chiama Kerenyi, seguito da masse invasate e cantanti, al quale si rifacevano i tyrannoi dell’antichità, spesso finiti smembrati anch’essi, non è un caso se il termine tyrannos sia di origini orientali e indichi un dio dell’abbondanza, della vegetazione rigogliosa.
La storia ha indubbiamente un profondità, una terza dimensione, come dimostrano queste analogie.
Inversione dei valori è anche l’importanza data al lavoro: “Il mondo antico non disprezzò il lavoro perché conobbe la schiavitù ed erano degli schiavi a lavorare, ma al contrario perché disprezzò il lavoro esso disprezzò lo schiavo…al lavoro come ponos, oscura fatica vincolata al bisogno, si opponeva l’azione: l’uno il polo materiale, greve, oscuro; l’altra il polo spirituale, libero, staccato dal bisogno”, come non citare anche “Rivolta”! Le Lettere, la Storia, l’Archeologia sono state investite da una concezione da schiavi, come avrebbero potuto non degradarsi?
La distanza che la così detta “gente comune” ha, prova, sente verso l’antico, sia esso letteratura o reperto, monumento è anche imputabile ad un fatto tutto contingente, materiale: il sempre più massiccio uso di potenti macchine per il movimento terra e la costruzione.
Un tempo quando ogni costruzione comportava un largo impiego di lavoro umano, si “andava al risparmio”, cioè si cercava di usare quanto già presente, quindi resti medievali, romani, sia come “cave” dalle quali prelevare materiali edili, sia come fondamenta per le nuove strutture: quante chiese, castelli, palazzi sorgono su strutture più antiche. Nella pratica quotidiana, quindi, il mondo antico era sentito, come imprescindibile presupposto del presente, come fondamento, inamovibile di quello, anche dagli illetterati, che certo non saranno stati capaci di distinguere un opus vittatum augusteo da una muratura altomedievale, ma sicuramente consideravano quei resti come fondamentali per la loro esistenza. Tutto ciò oggi è venuto meno.
Gli archeologi spesso si trovano a lavorare in cantiere, fianco a fianco con gli operai, a diretto contatto con i costruttori, spesso non proprio coltissimi, ma non si può se non raramente agire positivamente su questi, poiché i secondi pagano e perdono tempo nella loro ottica; mentre i primi sono quasi sempre stranieri e hanno ben poco interesse alle radici di un popolo, al quale non appartengono e che essi stessi vedono non tenere poi tanto alle sue stesse radici.
In alcuni casi si riesce ad esporre parte dei reperti in loco, allestendo delle bacheche permanenti nelle fabbriche, negli uffici, nei condomini costruiti sul sito, ma il risultato è modesto.
Le rivoluzioni si fanno dall’alto, allora è dalle accademie, che deve partire l’azione, devono sparire gli oziosi lavoratori dell’intelletto, i colletti bianchi della cultura, i proletari delle lettere e come?
Una soluzione credo sia senz’altro quella di ricominciare ad emozionarsi, a sognare, a ragionare per ampi orizzonti, creando quegli spazi, anche mentali, spirituali, sconfinati, nei quali è possibile agire. In questo senso è esemplare l’azione svolta da A. Carandini negli ultimi 20 anni, durante i quali ha scavato tra Campidoglio, Foro, Velia e Palatino, cioè nel cuore di Roma, cioè nel cuore d’Europa, giungendo ad una conclusione che può essere così sintetizzata: “il mito dice il vero”. Per chi fondi la propria visone del mondo su autori come Evola, Eliade, Jünger, solo per citarne alcuni, questa potrebbe sembrare una frase lapalissiana, ma se si considera quale sia stata la tendenza che ha dominato certi studi dal dopoguerra ad oggi è una frase rivoluzionaria, nel senso tradizionale, vero di questo termine.
Carandini è uno studioso di formazione marxista, che fonda o meglio fondava, la propria visione del mondo sul materialismo storico, quindi il procedimento rivoluzionario, deve averlo prima di tutto realizzato in se stesso, non ha certamente compiuto a cuor leggero certe affermazioni: “ le favole avevano nella protostoria un’energia propulsiva e il nostro materialismo, razionalismo e laicismo fanno velo nel capire, che sono state proprio quelle magiche potenze le più vere matrici delle azioni umane di allora. In queste circostanze il mito è una realtà e la storia non è che una sua metafora” (2), cioè detto in termini marxisti: le sovrastrutture sono strutture. “non ha senso liberare l’entità storica da quella sovrumana”(3) . Non si vuole tessere il panegirico di Carandini, ma mostrare come questi abbia allargato gli orizzonti degli studi archeologici, costretti entro dogmi laici come “il divieto di risalire oltre le colonne d’Ercole del VII secolo, dettato dalla scarsa fiducia nei miti” (4). Questi dogmi furono imposti dal dopoguerra in poi, da studiosi come il Momogliano ipercritici nei confronti delle fonti e iperazionalisti, tanto da inaridire le fonti della cultura del popolo Italiano, a questo, in ambito archeologico, ha contribuito l’esaltazione del reperto di per sé, legato al dato stratigrafico, studiato ed interpretato, completamente avulso dal contesto culturale, letterario, al quale apparterrebbe, in nome della così detta “cultura materiale”: infinite teorie di cocci, frammenti scultorei e quant’altro, accompagnati solo da una datazione, che spesso risultano anonimi irrilevanti anche agli specialisti, se non ne sono gli scavatori, a maggior ragione risultano incomprensibili e superflui all’uomo comune. Strano e triste paradosso questo, visto che uno dei pionieri della stratigrafia fu Giacomo Boni: l’antitesi dell’arido studioso iperazionalista, data la sua sincera fede nella Religione Romana, come se quanto più scavasse tanto più venisse compenetrasse la tradizione, d’innanzi al muro del tempo, anziché limitarsi a contarne i mattoni(gli strati), a rilevarne le misure, sentì che “Non solo l’uomo crea uno strato, ma lo compenetra di spirito. Ciò conferisce a quello strato della terra che gli appartiene e forse anche all’intero suo pianeta, una luce speciale”(5) . Chi semplicemente “lavora” non può percepire ciò, ma solo chi agisce, chi irrora del proprio spirito ogni sua azione.
Il più superficiale degli strati in genere viene detto strato agricolo, quello intriso del sudore di generazioni e generazioni, nate, vissute, morte calpestandolo, spesso del tutto inconsapevolmente, questo è lo strato della Storia, roboantemente scritta con la S maiuscola, così come secondo alcuni andrebbe scritta la parola Lavoro: gli stessi che scrivono Storia. Quindi il più superficiale degli strati si chiama Storia: teoria di fatti, reperti, di ogni entità e grandezza, accumulatisi, spesso per pura inerzia, quei fatti, quei reperti, verso i quali nutrono una passione feticista coloro che si riducono, per questo, ad essere:”risonanza passiva, che agisce a sua volta con le sue vibrazioni su altre nature passive dello stesso genere”(6) . Se provassimo a immaginare quale vantaggio possa derivare reciprocamente a due operai che si descrivano a vicenda le loro quotidiane azioni meccaniche, alla catena di montaggio, quanto vantaggio ne possa derivare a chi si trovi ad ascoltarli e capiremmo quanto vantaggio derivi dai discorsi degli zelanti catalogatori, lavoratori della cultura.
“Oppure si può sposare la tesi secondo cui l’uomo con una vieppiù crescente consapevolezza (…) penetrando strato dopo strato(il più superficiale dei quali viene chiamato storia) arrivi in certa misura ad attingere il fondo originario, spiritualizzando e rendendo attive parti di esso. Là dove avverrà il contatto vi saranno risposte straordinarie” (7). Questo indubbiamente fece il Boni, non a caso detto “Vate del Palatino”, proprio nel senso dei versi ovidiani citati in apertura.
Qualcosa di simile ha fatto, sta facendo il Carandini, che ha rimosso la Storia, ciò che è transeunte, effimero, per giungere all’essere, la percezione del quale rende essenziale anche la storia, che allora diviene simbolo, di una realtà più profonda, percepibile a seconda delle naturali predisposizioni e attitudini, quindi, come tutti i simboli creatrice di gerarchie, cioè di ordine, di oggettività.
Come chi uscito dalla caverna delle ombre di Platone, poi vi fa ritorno per portare alla conoscenza quanti ancora sono lì dentro, Carandini ha dato vita ad una attività pubblicistica di tipo divulgativo, con testi come: “Roma il Primo Giorno” di semplice rapida lettura, ma dal forte significato simbolico, vettoriale. “Il 21 aprile, prima dell’alba Romolo esce dalla capanna in cui abita(8) : per fare cosa?Vicino c’era un’altra capanna a due ambienti, che poteva accogliere i culti di Marte e Ops, la dea dell’opulenza. Le due capanne sorgevano dove prima sorgeva un'unica più ampia capanna, corrispettivo archeologico di quella di Acca e Faustolo. Dopo avere sacrificato il re si reca verosimilmente al centro del lato occidentale del Palatino e qui crea un secondo templum per osservare gli uccelli, rivolto anche questo al monte Albano. Definisce prima di tutto i limiti alla radice del monte entro i quali desidera che scenda la benedizione divina o augurium(da augere: aumentare)….Segna poi questi limiti, a partire dai quattro angoli del monte, facendo infliggere in terra pietre terminali, che costituivano il pomerium o limite continuo, da immaginare dietro alle mura che sarebbero poi state edificate. Nella visione del re ugure ciò rappresentava il prospetto della sua futura Urbs”(9). Dato di scavo e mito convergono, dimostrando, chiaramente come lo strato superficiale della storia, una volta rimosso, venga ricomposto e dotato di veridicità, di fondamento proprio dal mito. La reazione che si prova davanti a ciò è lo stesso solco primigenio della Città, che esclude o include. L’impassibilità, l’indifferenza di qualche uomo comune, come quel popolano che fischietta noncurante d’innanzi alle Terme di Caracalla, nell’omonima lirica del Carducci; così come il distacco razionalista, il sarcasmo scettico, che alcuni studiosi potrebbero provare, sono altrettante condanne all’esclusione e al sacrificio qualora cerchino di penetrare quel sacro recinto: Sic deinde quincumque alius transiliet moenia mea!10). L’emozione che in un primo spontaneo moto fa vibrare all’unisono i cuori del professore, dell’operaio, del libero professionista è l’oggettività che li include entro quel sacro recinto, che li unisce indissolubilmente a formare un popolo, la profondità d’intuito, invece ne definisce i rapporti gerarchici, al colmo dei quali ci sarà chi entusiasmato giunga a vedere il volto degli dei, divenendo così Vate: uomo d’azione: Vir.
Nella descrizione del Carandini,ove il mito sostanzia la storia, l’azione di Romolo si compie ciclicamente ogni 21 aprile, come la nascita di Cristo ogni 25 dicembre, a tal proposito: “Come la basilica costantiniana di Betlemme era sorta sulla grotta dell’epifania di Gesù ai pastori, così la basilica di Anastasia poteva essere sorta sopra l’ingresso al Lupercale, la grotta dell’epifania di Romolo ai pastori e al porcaro Faustolo”(11) , ancora una volta il potere legante ed escludente del simbolo, non può che essere cartina di tornasole, per rivelare la necessità di escludere da una comunità, chi non ne rispetta e riconosce ciò che oggettivamente la lega. Di fronte ad un tale accostamento quanti vorrebbero costituire un’Europa sulla base di radici giudaico-cristiane, è chiaro che, nella migliore delle ipotesi, non sappiano di cosa parlino, dato che le radici sono incontestabilmente: Romano-Cristiane. Nella peggiore delle ipotesi, quanti parlano a favore delle radici giudaico-cristiane, sono in malafede, questo binomio che sarebbe a fondamento della civiltà occidentale è una delle armi propagandistiche più forti dei gruppi di cristiani evangelici, estremamente diffusi oltreoceano, che sono: antieuropei, antiromani, anticattolici, ai quali è anche riconducibile un gruppo di cristiani sionisti, che insieme a più potenti organizzazioni ebraiche come AIPAC influenzano in modo nefasto la politica americana in Medioriente, si tratta dei: Christian United for Israel(CUFI)(12) . Ecco che si è appena dimostrato, come degli studiosi, che siano degli uomini d’azione, non dei lavoratori catalogatori, alienati dal lavoro, investirebbero inevitabilmente anche ambiti del vivere quotidiano, della politica, dell’economia, partecipando all’azione storica/spirituale del proprio popolo, anzi alimentandola, mantenendone viva l’oggettività. Questo non, agendo istrionicamente come certi intellettuali alla moda, sentenziano, spocchiosamente e superficialmente su qualsiasi argomento, ma occupandosi del proprio campo d’azione.
(1) Ovidio, Fasti, VI, 5-8
(2)A. Carandini, La Nascita di Roma, Torino 1997, p. 7
(3)Ibid., p.8
(4)Ibid., p.14
(5)E. Jünger, Al muro del tempo, Milano 2000, p.190
(6)F. Nietszche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano 1998, p. 49; si veda anche l’epilogo di G. De Santillana, Il Mulino di Amleto, Milano 2004, pp. 381-398.
(7)Jünger, op. cit., p.190
(8) Capanna che lo studioso identifica: A. Carandini, Roma il Primo Giorno, Bari 2007, p.45.
(9)Ibid., pp. 44-47.
(10)Liv., I, 7
(11)A. Carandini, La Casa di Augusto dai Lupercalia al Natale, Bari 2008, p. XVI
(12)J.J. Mearsheimer, S. M. Walt, La Israel Lobby e la politica estera americana, Milano 2007