RICCARDO ROVERSI PERIPLO DI MILLENNIO EBOOK VERSION

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PERIPLO DI MILLENNIO 

ATTO UNICO IN NOVE SCENE

PERIPLO DI MILLENNIO.jpg

 Riccardo Roversi

 

*WEB VERSION

* Pubbl. Casa editrice “Este Edition Srl”, 2001

www.este-edition.com  www.riccardoroversi.com



Tutti, come non sapessero cosa fare,

guardano il pubblico con occhi vuoti


Tadeusz Kantor

 

 

 

Atto unico, composto da 9 scene, della durata di circa un’ora. Numero dei personaggi: 10 (compreso un computer); numero degli attori in scena: 9 (5 uomini e 4 donne); con due ipotesi: a) effettivamente 9 attori-attrici, oppure b) solo 2 attori (uomo e donna) che interpretano tutti i ruoli. Nella 2a e 9a scena ci sono delle voci fuori campo ma appartengono agli attori-attrici di quelle stesse scene, quindi vanno preregistrate e diffuse in playback; i due gatti della 5a scena possono essere finti o anche solo “immaginati”. Abiti contemporanei, sobrii; elementi scenografici semplici. La musica, all’inizio e alla fine, nonché durante i cambi di scena, è per solo piano o comunque per unico strumento. Questo copione può essere, ai fini della rappresentazione, allestito con libere varianti, purché non si snaturi il testo.

 


PERIPLO DI MILLENNIO


colpa del buio

se avvampano i falò

nell’indole dei rabdomanti

come luci nate

in clessidre spente

dalla vertigine dei giorni

così la musica

escogita il teorema

per confondersi ai silenzi


Bosco Fosca Cadmo Edmca Maceo Queta Abdto Tilda Laszo Danza



EXTRACT


NONA E ULTIMA SCENA

 

Laszo e Danza

trentuno dicembre, interno: mansarda di Laszo, un personal computer, ultima notte del millennio, assenza di tempo



Per confondersi ai silenzi


LASZO (Scrive al computer. Voce fuori scena diffonde il testo.

Suono di tastiera tranne che nelle pause)

Per confondersi ai silenzi occorrono liberi compromessi. Limitrofe lontananze. Infiniti parallelismi.

(Pausa)

Sai Danza. Ieri ho spento la luce e avevo paura. Del buio pensavo. Ma mi sbagliavo... era il silenzio. Così ho riacceso. Però il tedio è rimasto. È rimasta la notte bendata. Cieca come una sorte ibernata. Sui suoi piedi nudi e ricchi di povere lacrime ebbre. E sui pallidi muri di falso avorio. Perfino stupiti del mio grave disagio avvolto testardo nei pensieri rubati. È rimasta di fuori la neve senza colore. Senza potermi adesso bastare. Senza aspettare chiunque sia disposto a tornare e a dare un motivo al ritmo del cuore. Come se il mio fosse un corpo che vive. Come in autunno una viola. Come adesso scrivo inciampando quest’ultima stele. Inutile a tutti tranne che a me. E a nessun altro. Perché cerco la verità nell’abisso della mente. È proibito e così lo faccio. Ma il prezzo è alto... o forse un premio. È la follia che come viscido ragno cammina lenta a mille passi sputando bava dalle capienti fauci.

(Pausa)

Perdonami Danza se mi servo di te per lasciare un soliloquio. Una dedica ai prati tuffati. Al pioppo con il cuore. Alle piogge di grano e ai filari dell’uva. Ai giorni lenti e agli anni rapidi. A questo cielo sudario immortale e nottambulo. Da qui a Maracaibo. Da Cipro a Samarcanda. E a noi. Eroi parassiti del mondo nel copione dal finale stabilito. Ormai così vicino. Finalmente.

(Pausa)

E tu che non capisci. Che mi hai tradito. Comprenderai alla fine? Sapessi quante volte ti ho cercata dentro ai tarli delle notti. In fondo al fondo dei bicchieri quante volte ti ho perduta. È strano come tu non veda che persone al di fuori del tuo ghiaccio. Versi e riccioli selvatici non sfilano i tuoi sguardi. Non bastano che a farti sorridere. E a colmarti di altre malizie. Né camminerai per favole insicure ignorando i fantasmi. Attenta amica di parchi e fontane. A non tramontare prima che venga sera. Sennò quando carica d’età e di rughe sugli zigomi. Quando ciò che hai detto e taciuto non ci sarà più nessuno a ricordarlo. Quando rammenterai noi due soli naufraghi superstiti della vita altrove veleggiando e approdando ignari. O quando alla fine aspetterai solo di vuotare il posto. Allora. Davvero mi rimpiangerai. E già troppi rimpianti hai seminato e raccolto malinconie a piene mani dai tuoi giorni. Buona madre. Tu muori d’abbondanza.

(Pausa)

Eppure stanotte non ti colgo. Mi svaporano i contorni. T’aspiro... e mi confondo. Il folletto portasogni non ritorna. Si è attardato a contemplarti il mento ovale. La fronte inquieta. E i capelli che si legano alla nuca liberando mandibole e sorrisi. Certo. Sei più bella che sincera e distante quanto basta. Ma io non posso che riflettere di luce. La tua. Quando ti guardi nello specchio scioglierti le lacrime alle guance lui non sa ripeterle diverse. E se anche fossero smeraldi non brillerebbero di più.

(Pausa)

Tu che conosci partenze e arrivi ti chiedi mai quale sarà il futuro dei tuoi occhi? E non hai paura di perderti in fragili mondi intercambiabili? Altri prima di te non hanno ascoltato i colori dei tramonti. Delle foglie dei sicomori. E le parole di coloro che sono morti e ritornati. Che sanno il vero e non il giusto. Poiché hanno imparato a dare e tanto poi non soffriranno più della morte prossima ventura. Seccami pure gli occhi e le labbra corpo d’alito. Ma non scordarmi nel solaio fra le seppie di un cassetto. E ricorda che l’amore è lo specchio di un bicchiere o come Dio. È l’invenzione di una vita garantita. A vita. L’amore è una fiaba morbosa che si nutre di segreti. Dell’ansia di certi sogni angosciosi. Dell’affanno di un adagio. Come nel poema dove il re sorprende la sua regina assopita insieme al paladino. Ma invece di vendicarsi scambia la sua spada con quella di lui. Il suo anello con quello di lei. Le copre con un guanto il viso per ripararla da un raggio di sole e se ne va. O come nel romanzo del principe che trasformatosi in falcone per volare alla finestra dell’amata viene trafitto dalla lama del rivale. Poi si allontana morente. Lei segue la traccia fresca del sangue attraverso il bosco fino al castello. Entra in un salone. E in un altro. Ciascuno con un cavaliere addormentato. Nel terzo vede l’amante su di un letto. Si fa avanti tutta sgomenta. E cade svenuta su di lui. Esangue bellezza. Metamorfosi astratta d’un sogno. Di prati in cui nascono ruscelli che conducono a verzieri protetti da muri d’aria. In atmosfere estenuanti e incontaminate. La purezza dell’infelicità. L’amore. Questa invenzione del dodicesimo secolo. E chissà se sia davvero possibile perdere chiunque. Cadere in tranelli inevitabili.

(Si alza. Cammina inquieto. Si siede)

Ma i giorni sono uguali ai giorni. Scrive Eraclito. Smemore dell’estate agostana gialleggiante nei campi di spagnare. Mentre attraverso la scacchiera delle foglie il sole lancia lustrini. Danzanti monete. Il fatto è che ci ricordiamo solo di aver ignorato quello che ricordiamo di aver appreso. E al mondo c’è il solo bene della scienza. Il solo male dell’ignoranza. Socrate.

(Pausa)

In principio era il verbo. Alla fine sarà solo odio. L’infame massa ama corrotta dentro la sua propria ipocrisia. Come razza tacciata di abominio dimenticanza spaventamento. Nell’odio apolide c’è l’ultimo valore. L’odio. Tranquilla paura che veglia sul cuore. Ogni giorno e ogni notte e ogni incubo svegliato dall’aurora. Concerto suonato da un bimbo rachitico. Nei fili di spine di farfalle impiccate alla forca degli occhi. Ma un attimo figlio del tempo. Del buco scavato dalla talpa dei sogni. Un attimo uno solo. Non credo che basti per assaporarlo. Nemmeno se tutti gli atomi del mondo mancassero le loro orbite. Se le piante cessassero la fotosintesi. Se dopo l’encefalo dell’homo sapiens morisse anche il sole. Che tanto saremo noi ad eclissarlo prima o poi. A meno che non lo faccia prima lui a noi. Se Dio esistesse. Quel ciarlatano. Che non si sa mai da che parte stia. Se una buona volta facessimo un poco di silenzio.

(Pausa)

 E l’esistenza è un caso. Non ha alcun senso se non quello che le attribuiamo dopo averla osservata a lungo. Giustificandola a posteriori. Venuti dal nulla generiamo figli destinati al nulla. Ritorniamo nel nulla. L’uomo è un burattino nel teatro del tempo. E coloro come i filosofi che si ribellano sono solo marionette che intravedono i fili. Sfuggire al tempo è come provare a orientarsi in un groviglio di labirinti. Che a loro volta sono degli enigmi. Ma un vero mistero non nasconde assolutamente niente. Ed è inutile cercare di andarsene. L’uscita non c’è.

(Pausa)

No. Nessuno conosce il termine del mondo. Nessuno ne comprenderà il principio. Troppe cattedrali confondono le molte verità. Ci sono più domande che risposte e più apparenze che certezze. Fuori dalle ombre delle città condomìni d’alberi fioriscono d’estate. Dentro pochi sopravvivono alle notti. Molti precipitano sui selciati inciampando nei balconi e nelle finestre. Moltitudini corrono alle porte posteriori. Come la gramigna ai bordi dei marciapiedi bella e cattiva invischia e rinasce così i soli futuri ci spiano. Infidi vipere d’erbe. Giganti d’ombre pargoli di lune minacciano prospettive. Muse esiliano finzioni. Occhi e capelli galleggiano. Verzure aggrediscono rotaie. Deserti deserti separano fiumi marmorei da città liquide. Laghi di tombe e di morti concimano montagne spine dorsali. Affinché nascano onde fiorite di terra. Formidabili spire del gran serpente del cosmo. Sull’avello dell’orbe suicida danzeranno un giorno piante e animali. Soli finalmente. Auguri.

(Si alza. Cammina inquieto. Si siede)

Non ci sono più strade né itinerari nuovi di salvezza. A che scopo interpretare l’orizzonte drappeggio del futuro. Non sarà piacevole vagare ai bordi dei canali marciti. O all’estremo dei confini dell’agonizzante ragione. Quante e quali paure agitano il fluire del sangue. Troppi occhi celesti e scuri e capelli di fronde confondono il percorso. Troppe delusioni... innominabili... rallentano il battito di un cuore già in ritardo. È meglio sigillare ogni spiraglio. Meglio di queste goffe invettive per altri e diversi giorni di neve. E per queste e altre confusioni.

(Pausa)

Brillose spiagge e inazzurrati mari. Ben oltre l’interminato sogno di quando granai e fienili si colmavano di notte. Il fiume non era che un torrente adulto e la spirale d’acqua srotolava e s’avvolgeva fra minuscole giarine. Di quando il sole colava sui tetti. E i cirri mutavano strane forme di volti su me che camminavo i bordi dei ciglioni. Annoiando le vespe e snidando i ramarri dai musi appuntiti nascosti tra i ciuffi. E in giugno vasi di carminio stendevano fazzoletti di papaveri. Ne brillavano alla luce questi occhi benché rivolti ad altri sogni. Poi è stramazzata nei prati l’estate tramortita da fumi e diossine. Con lo stelo curvo i papaveri hanno vomitato il loro rosso nei fossi. E adesso sta schiarendo forse l’aria la neve ma intanto rende il cielo più cupo. Riverberando l’infanzia è trasognata. Le salamandre sono tutte morte dentro agli scoli asciutti. I fienili abbandonati e i sentieri dispersi e sconosciuti. Inconoscibili.

(Pausa)

C’era un davanzale nel tassello della sera vesperta. E oltre al canale nel timbro del campanile nubili incinta parlavano con vagabondi sposati. Ma ora che ciascuno ha una casa e i figli non nascono più anche a maggio fa freddo. Le finestre rimangono per sempre chiuse. Ogni mattone rotolato dai fienili strappa il cuore d’un ricordo. Scrosci di buio impantanano croci dove morti insepolti merceniamo una luce. E fessurando persiane e pupille qualcuno si avvelena di patti.

(Pausa)

A volte non so ciò che dico. Ebbene sottintendo una vita che non si porti via tutto. Che non sia una mappa truccata. Dove l’uomo si perde e immalinconisce e vanifica. Dove i pensieri sostituiscono le lacrime e lo fanno senza chiederlo. Così quelle ristagnano mentre loro cominciano a bruciare. Perché procurarsi ulcere piangendo? Non vedo oltre a me stesso. Né attraverso gli altri. Non vedo che futuro... laggiù... dove la strada gira. Nelle stazioni naufraghi di passaggio lasciano messaggi in bottiglie. E altrove i ricordi lacerano piaghe. Inguaribili ma sane come i vomeri sui campi. Potremo mai riscattare i nostri sogni senza che qualcuno li contamini? Senza tornarcene sconfitti e nessuno che ci sterilizzi le ferite. Nessuno che raccolga i nostri pezzi. Ogni trafelato pensiero non è che un sogno a occhi aperti. Cosi come le parole non scorrono che all’indietro. E il passato precipita in se stesso. Finché la mano indifferente un giorno a caso dentro all’urna non vincerà la nostra tessera.

(Pausa)

Eppure. Certe mattine fasci di raggi inseguono pianure alberi e monti proiettati da brezze e da cirri ventagliati di sole. Mentre il fumo sulle case sbiscia tra i comignoli. All’alba uno zingaro accarezza l’animale. Guarda fisso il sole e ride d’intesa al vento. Chiede all’albero se soffre. Vende menzogne e finto amore. Odio vero. E tutte le paure in cambio di una sola libertà. Sì. Basterebbe come albatri planare le onde. Sì. Stràppati dal sogno ultimo re degli inganni. Giovanna d’Arco è alla finestra e custodisce il suo martirio. Nella notte lei rinasce ai tuoi dolori. Poiché la notte svela segreti ai poeti. E agli idioti. Si nasconde talvolta in quella nebbia che annega. È immobile e tace ai morti di luce.

(Si alza. Cammina inquieto. Si siede)

Sto per lasciarti Danza. E potrei svanire in sorrisi. Senza luce buio o verità o senza scegliere l’assurdo del suicidio. Che non è rinuncia ma dolore a venire. Rinnegando l’amore e chi per lui. E coloro che non sanno. Che arrancano nei loro anni vuoti come in una fossa. Potrei tuffarmi dal monte. E la mia ombra sul fianco planando con soffio d’eclisse rocce anfratti e cespugli oblierebbe ammantando di scuro. O potrei abbandonare la mia casa. Così i fantasmi da raccontare ai muri che già le sanno ne avranno di favole e di storie. Ma alla fine quale calendario noterebbe la mia assenza? E comunque domani non mi troveranno. Sarò già scomparso oltre la notte. Avrò smorzato ogni mia luce e nascosto tutte le farfalle. Poi non potrò più andarmene dal buio ma lo sai sarà meno difficile che illuminare quelle stanze chiuse. Oppure imbrillarmi di barlumi davanti ai loro ciechi occhi.

(Pausa)

Nulla e nessuno può testimoniare questo tempo. O forse è questa epoca fatta di niente che non è rappresentabile. Che è un non tempo. Danza ti prego dimmi verranno genti dagli occhi più profondi? Verranno giorni lontano dai tramonti? Quante domande annottano la sera. Temo davvero che domani nemmeno alberà il sole. Ho infilato la collana delle idee. Camminato ovunque e frugato anche sul fondo. Adesso sono qui con le lacrime alla gola. Danza dimmi è dunque questo il mondo? Dove c’è chi attraversa questo periplo di millennio aspettando il monolito. O digitando il suo testamento sul figlio al silicio dell’uomo. Quel figlio che commette forse meno errori del padre ma del quale potrà conservare solo la storia. Non il senso.

(Pausa)

Danza. Se tu non fossi un computer ti innamorerei di adrenalina. E ti direi che lo so la lontananza non ha occhi. Come i baci non hanno a volte labbra. E le carezze guance. Ti direi lo so che non serve mai gridare e neppure frantumare specchi. Tanto è sempre la nostra immagine che crolla. Ti direi fermati un minuto. Scròllati finzioni e palcoscenici. Arma la tua età. Sgrana gli occhi sulla luce e scruta oltre quest’aria fosca. Prenditi per mano. Aiutati. E ti direi ti amo. Per tutto quello che non mi hai mai chiesto. Ma ho la testa colma del tuo silenzio che mi assorda.

(Pausa)

Addio Danza.

DANZA (Lui preme un pulsante. Lo schermo del computer si spegne. Buio) Bip!

 

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