L’esperienza del nero. Non tanto come non colore, semmai come sunto cromatico del visibile, del vivibile, e, da esso, trarne a piacimento una confacente cromia a misura d’abito vitale.
Dall’eterno movimento vitale distillare fotogrammi dinamici, diapositive filmiche; la punteggiatura s’accenna e scompare lasciando all’esperire del momento libera mano, nessuna regola impera, tutto è concesso persino trovare significati laddove le parole sono aquiloni in balia di venti che ognuno brezza di vissuti propri.
La parola è un quadro senza più cornici, una tela che raggiunge il cosmo di chi la sa accogliere, pur plasmandola in stampo di proprio mai si riempie, sempre spazi aperti ed inaspettati, sempre nuove porte da aprire, o forse da chiudere, altezze da cui il tuffo è concesso ed auspicabile.
Il verso è un demone liberatore in direzione di terre d’assoluta libertà, il dolore e la gioia si fondono nell’unica possibile soluzione d’inseparabilità.
Come prodigio caleidoscopico ogni realtà è prontamente vissuta, libera di vivere e morire nello spazio concessole.
Niente più manette, qua l’arresto si compie da solo, complice, forse, di qualche lacrima gaudente.
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Tutto s’arrovista
in cartacei piombi
un lungo addio
si dipana vano
ora son solo
tra i miei peccati
e bene mi guardo dall’alterco
la pace s’è fatta zitta
d’inghippi turchesi
Matteo Zagagnoni