Il testo di Miro Renzaglia che segue è contenuto nel Libro-Manifesto "Per una nuova oggettività. Popolo, partecipazione, destino" curato da Sandro Giovannini per la Heliopolis Edizioni. http://www.mirorenzaglia.org/2011/10/manifesto-heliopolis-poema-corale/
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Soluzioni ce ne sono due: o si riesce a ridurre questa moltiplicazione ad unicum, o a koiné se preferite, dove a unica parola corrisponde unico significato, il che allo stato attuale delle cose mi sembra francamente irrealizzabile o, come a me sembra sia più praticabile in età postmoderna, si cavalca il plurimo fino alle estreme conseguenze. Anche a rischio della totale incomunicabilità. Comunque, a quel punto (dell'incomunicabilità totale) il quadro sarebbe senz'altro più chiaro di oggi. E per arrivare a tanto, io non conosco altra strada che quella della poesia.
Accettando il dato postmoderno, come io auspico, il linguaggio poetico assume o ri-assume ogni possibile grado di conoscenza producendo mondi in continua variazione rappresentativa. Non c'è neanche più bisogno di distinguere istanza da istanza, campo semiologico da campo semiologico: la relatività della riproduzione annulla la necessità di determinarsi come verità extralinguistica. Ovviamente, per arrivare a tanto, servono strumenti appropriati. Vediamone qualcuno.
Dunque, io vengo dall'esperienza poetica del Vertex, nata, anche quella, da una genialata di Sandro Giovannini. Detto en passant: un giorno, con molta probabilità, qualcuno si degnerà di esplorare quella incredibile miniera di sussulti poetici, culturali, politici e meta politici che il Vertex fu. Non possiamo essere noi, i partecipanti a quell'avventura, a farlo. Ma tempo verrà. Nel frattempo, però, quell'esperienza torna estremamente utile per quello che voglio proporre. Utile in quanto fra il molto che propose, sperimentò il "poema corale".
Per i non conoscitori della storia del Vertex e di conseguenza, di questo strumento allora congegnato, riassumerò brevemente di cosa si tratta. Stabilito collegialmente un tema oggetto dello scrivere, i partecipanti all'opera scrittoria producevano dei testi che confluivano, sotto la regia di un coordinatore precedentemente designato, in un macrotesto. Il macrotesto, messo a punto dal coordinatore in bozza non finale, veniva riposto ai singoli per eventuali eccezioni e modifiche. Accolte o respinte queste ultime, si arrivava alla stesura definitiva. L'esperimento ha prodotto dei testi, probabilmente non eccelsi dal punto di vista squisitamente letterario, ma quello che valeva era il metodo.
Chiariamo subito una cosa: pur riconoscendone l'ascendenza, il "poema corale" aveva poco a che vedere con l'antesignano surrealismo dei "cadere exquis": nel nostro caso, non c'era scrittura automatica né raccordo immediato fra gli autori. Pur essendoci una preparazione corale all'argomento, ognuno era poi libero di produrre il proprio testo secondo proprie a attitudini, propri canoni stilistici, e tempi di elaborazione necessari. L'esercizio di controllo critico individuale sul materiale proposto individualmente, quindi, restava assolutamente intatto, fino all'assemblaggio finale, per poi scomparire a edificio completato.
E quello che si inverava, allora, era ciò che il metodo stesso sottintende: il superamento dell'opera-io verso l'opera-noi. Un'opera, cioè che superasse la finitudine narcisista dell'autore individuale e sconfinasse verso l'a-nonimia impersonale. Il linguaggio "finale" non risultava più una somma dei singoli testi ma qualcosa d'altro rispetto alle proposte individuali. E da qui al superamento del linguaggio de-finito nelle sue conclusioni coerenti in quanto dogmatiche e dogmatiche in quanto coerenti, come è avvenuto dalle origini della letteratura fino alla modernità inclusa, il passo è breve e consequenziale. Se pensate che la prima teorizzazione compiuta sul Postmoderno uscì in Francia nel 1979 (Jean Francois Lyotard, La condition postmoderne) e in Italia nel 1981 (ed. Feltrinelli), e che il Vertex operò proprio in quegli anni i primi esperimenti di "poema corale", potete agilmente cogliere la portata innovativa di quella nostra esperienza.
Ma c'è dell'altro. Con l'uso delle potenzialità del linguaggio postmoderno, non solo è possibile superare l'impasse della autorialità individuale – uno degli strumenti preferiti, infatti e non a caso, è la "citazione" – ma è possibile anche operare una critica "ironica" al sistema linguistico del potere (aggiungete al soggetto "potere" l'aggettivo che preferite: il risultato non cambia) per "distacco". Infatti, come sosteneva Manfred Frank nel suo Lo stile in filosofia l'ironia non ha come ultima finalità quella di suscitare il sorriso ma di mettere una distanza necessaria tra il fatto rappresentato dal potere e la sua interpretazione, contrapponendo alla verità linguistica del primo, le pressoché infinite e possibili verità che ci è data dalla decontestualizzazione (o estrapolazione) e ricontestualizzazione critica delle sue "citazioni". E in questo caso, anche in letteratura ci si può servire benissimo di quella tecnica specialmente cinematografica (ma anche televisiva: penso al popolare Blob, per esempio) che è il "montaggio".
A questo punto, mi sembra utile ricapitolare schematicamente il piano operativo che mi propongo realizzare:
a) accettazione della condizione della postmodernità;
b) ricorso al poema corale come strumento di elaborazione linguistica;
c) rinuncia all'opera-io e acquisizione orientativa dell'opera-noi;
d) uso, rimescolamento e rigenerazione di campi semiologici diversi;
e) citazione, ironia, montaggio come pratiche di costruzione del testo.
E se – come sosteneva Lyotard – la postmodernità si connota come "fine delle grandi narrazioni", di quelle costruzioni, cioè, che ambiscono dare ordine al mondo, io continuo a credere con Nietzsche che solo dal caos può nascere una stella che danza. L'opera non è finita: deve ancora cominciare.
miro renzaglia