LLF Laboratorio Letteratura Futurista AIT
Giovanni Tuzet
Male lingue
(americane)
cumò soi aqui te la mela grande,
saruta. ce que di plui
mi meravea, per ora, oi di dì
che cuanche duarmi e mi svei
no sinti al cjantà dei osei,
ma sirenis di ambulanzis e polizia.
parché, mi disi, aqui si fasin malon?
no usin i guantos, i pinzis, il cjaf?
adesso sono qui, a new york / o piccola sara. ciò che di più / mi stupisce, per ora, devo dire / che quando dal sonno mi sveglio / non sento il cantare degli uccelli / ma sirene d’ambulanze e polizia. / perché, mi chiedo, si fanno tanto male qui? / non usano i guanti, le pinze, la testa?
in un parcut près di cjasa
hay un tot di bistiutis,
in partìcular i squirrels
e però t’un color tal pel
diferent dal nustri: a aquilee
son d’anfore mentri qi
son gris e di tiara, di codòn
puntat in arint e tal body
somean a topùs; ma la muse
jè bunona e bonons a son i voi
e zuin e saltin come i frus –
udemi, par plasé
cum’è che si clamin in furlan?
in un parchetto vicino casa / ci sono un sacco di bestiole, / gli scoiattoli in particolare / ma d’un colore di pelo / diverso dal nostro: ad aquileia / sono d’anfora mentre qui / grigio-terra e di grossa coda / puntata in argento, che nel corpo / somigliano a topetti; ma la faccia / è così buona e tanto buoni gli occhi / e giocano e saltano come i bimbi – / aiutatemi, per favore / com’è che si chiamano in furlano?
hay un’altra cosa che mi sorprendi
in this grande pays:
li cjasis, ont un respiro
uno spazio
che puedin i brazi slargjâ
e distirasi a plasè come olio.
invesi cà di nò si rangin ingrumas
e stricas, l’una sora l’altra
fitte like a bunch
come un grappolo
c’è un’altra cosa che mi sorprende / in questo grande paese: / le case, hanno un respiro / uno spazio / che possono allargare le braccia / e stirarsi a piacere come olio. / mentre da noi si fanno ammassate / e strette, l’una sopra l’altra / fitte like a bunch / come un grappolo
l’era to pari ta polizia
to mari l’era tun balador
e quant que tu vevis tre natali
tun tumor jè spazada.
as-tu criat
quant que l’estate, dopo gustât
to pari tal so liet (tun oreli)
a provat a contati che je
no l’era plui? cumò ti cjamin jenna.
tu ses pornera.
e jo mi domandi si l’esisti
un alidilà e seriamenti
si sares mior di finila qi
che to mari no vessi di viodi
li robonis che tu fas pornera
e vessi solamente al ricordo
di quant que tu cjucjavis
caramelis e que titavis
al so petto malât
era tuo padre in polizia / tua madre stava in una balera / e quando avevi tre anni / un tumore l’ha spazzata. hai urlato / quando l’estate, dopo pranzo / tuo padre nel suo letto (in un orecchio) / ha provato a dirti che lei / non c’era più? ora ti chiamano jenna. / tu sei una pornera. / ed io mi domando se esista / un aldilà e seriamente / se meglio sarebbe finirla qui / che tua madre non debba vedere / le robone che combini pornera / e abbia solamente il ricordo / di quando succhiavi / caramelle e che tettavi / al suo petto malato
una femina nera
m’a fermat al corner:
i dollars domandave
par comprasi di mangiâ.
ma non l’era ne lemosine,
parsé que jè scriveve
poesie e mi vessi
recitat i so versi.
“I agree” ai dit jo
e scoltavi curioso.
jè a tacat la strofe
e jo che no capivi
praticamenti un boro
eri come fessat
vevi muse di mona
e di çena cinese
una signora nera / mi ha fermato al corner: / chiedeva i dollari / per comprarsi da mangiare. // ma non era un’elemosina, / perché lei scriveva / poesie e mi avrebbe / recitato i suoi versi. // “I agree” ho detto io / e ascoltavo curioso. / lei ha iniziato la strofa / e io che non capivo // praticamente nulla / ero come fessato / con un’aria da scemo / e di cena cinese
tun chino ristorante di manhattan
mi contave denis di quant che in naf
lavin in arabia a portagi autos
e tapes persian filas a milan
e di quant che l’è nasut il filiolo:
quella volta no erin celulars
e come la molie era in premura
e il piciul l’è rivat massa di corsa,
denis tal mar no s’impensava
di sedi pari costeggiando creta.
fin che giunse un telegramma, al quale
rimava: “contenton. che sedi un”
in un ristorante cinese di manhattan / denis mi raccontava di quando in nave / andavano in arabia a portare auto / e tappeti persiani filati a milano // e di quando è nato il figliolo: / allora non esistevano cellulari / e come la moglie aveva fretta / e il piccolo arrivò di corsa, // denis nel mare non s’immaginava / di essere padre costeggiando creta. / fin che giunse un telegramma, al quale / rimava: “molto contento. che sia uno”
NOTA AL TESTO
Che lingua parlano queste poesie? Una lingua davvero scorretta, che non esiste e prende spunti qua e là, ma soprattutto dal friulano “della bassa”.
Sono state composte in America, a New Haven, fra l’ottobre e il dicembre del 2008. In una successive stesura, unite ad altre quattro composte in precedenza, le ho pubblicate nel volume Male lingue, Circolo culturale Menocchio, Pordenone 2009.
Qui le presento in una delle loro prime e più libere versioni.
Giovanni Tuzet
*image from:
http://vino24.tv/wp-content/uploads/2008/09/vino_stauta_liberta.jpg
Note su Giovanni Tuzet
http://lasinorosso.myblog.it/archive/2009/01/12/il-poeta-scienziato-giovanni-tuzet.html