FERRARA ITALIA
*photo R. Nisbett
Viviamo tempi in cui cercare di capire come pensano i
nostri vicini nel mondo, forse può aiutare ad orientarci tra gli
scompigli di questo condominio globale.
È difficile per menti rigorosamente illuministe come le nostre concepire
l’esistenza di altre forme di pensiero, eppure già Kant ci avvertiva
che la ragione è un’isola nel mare dell’irrazionale.
Intanto, noi che siamo terra e culla di ‘uni’-versità, proviamo i primi
scricchiolii alle nostre certezze di fronte a coloro che al di là di un
braccio di Mediterraneo, oltre l’equatore, coltivano il sogno di un
mondo diverso, come Paul Wangoola, fondatore e presidente di Mpambo,
‘multi’-versità africana, in Uganda.
Lui spiega: «Una multiversità differisce da una università nella misura
in cui essa riconosce che l’esistenza di forme di sapere alternative è
importante per l’insieme della conoscenza umana». Wangoola sostiene che
per risolvere i problemi dell’umanità, oggi è necessario trovare una
sintesi tra i saperi propri delle singole tradizioni indigene e le
moderne conoscenze scientifiche.
D’altra parte, se il cervello è fisiologicamente per tutti lo stesso,
altrettanto non si può dire della mente, tanto da scoprire l’esistenza
di una vera e propria geografia del pensiero. Ce la racconta Richard
Nisbett, docente di psicologia sociale e direttore del programma Culture
and cognition dell’Università del Michigan.
Per Nisbett il processo di adattamento all’ambiente ha prodotto ‘formae
mentis’ differenti e conseguentemente condotte, e metodi di conoscenza
che tra loro divergono. È il caso dell’Occidente verso i paesi del
Confucianesimo, Cina, Giappone e Repubblica Democratica Coreana. Basti
considerare l’olismo culturale proprio di quest’ultimi, per cui ogni
essere è parte di un tutto, ampio e interdipendente e, all’opposto, il
nostro individualismo che ci induce a ritenere noi stessi come unici e
liberi di agire.
Il lavoro di Nisbett è interessante perché sfata la presunzione che
esista una sola strada che conduce alla conoscenza. È un’insidia alla
premessa fondamentale dell’Illuminismo occidentale, all’idea che la
ragione umana sia identica ad est come a ovest, a nord come a sud del
mondo. Per Howard Gardner, il guru delle intelligenze multiple, il
lavoro di Nisbett è una provocazione per gli scienziati cognitivisti che
ritengono ovunque unico il modo di pensare.
Ma già altri studi hanno indirettamente anticipato le conclusioni a cui
giunge Nisbett. È il caso delle ricerche condotte da Marlene Brant
Castellano tra gli Indiani del Canada, molte sono le differenze nei
processi che conducono alla conoscenza tra le popolazioni aborigene e i
colonizzatori. Innanzitutto le fonti del sapere che sono la tradizione,
l’esperienza diretta, le rivelazioni dei sogni, le visioni e le
intuizioni la cui origine è spirituale.
Per la Castellano la conoscenza degli aborigeni si fonda sull’esperienza
personale e non ha alcuna pretesa di universalità. Mentre il pensiero
occidentale assume l’esistenza di verità individuate attraverso la
ragione o il metodo scientifico, per gli Indiani del Canada due persone
possono tranquillamente avere visioni diametralmente contrapposte di uno
stesso evento che sono accettate entrambe come valide.
Ancora esistono differenze nei modi di pensare, e quindi di fare
cultura, tra società a impronta collettivista e società decisamente
individualiste. Influenze religiose e culturali concorrono a determinare
i diversi caratteri del pensiero e della conoscenza.
Nel modello del capitale umano il sapere è prodotto dalla scienza e il
fine fondamentale d’ogni esistenza risiede nell’accumulazione di
ricchezza, la conoscenza è il mezzo per conseguire la crescita
economica, mentre per la maggior parte dei credi religiosi essa si piega
al servizio dei disegni di una o più divinità.
L’educazione nuova, l’educazione progressiva, alla cui tradizione si
rifanno oggi i modelli scolastici dell’Occidente, promette di formare le
persone a farsi carico della società e della giustizia sociale. La
maggioranza delle culture indigene e delle religioni considererebbero
questi obiettivi come ingenui e impossibili da realizzare.
Come possono le persone ricostruire un mondo che è, secondo il punto di
vista di molte dottrine religiose e di tante minoranze culturali ed
etniche, inconoscibile e spirituale?
Come si può definire la giustizia sociale al di fuori del contesto di una teologia religiosa?
Giustizia sociale vuol dire fornire a tutti le stesse possibilità di
accumulare beni o significa la possibilità di godere di una vita
fortemente comunitaria, diretta da un’etica spirituale?
Di certo ogni paradigma educativo deve considerare le proprie finalità
in funzione dei caratteri culturali di cui è espressione. I modelli
educativi del capitale umano supportano i principi dell’individualismo
sociale, mentre i modelli progressivi tendono a supportare le società di
tipo collettivistico.
La ricognizione delle varie differenze nel pensare del mondo suggerisce
un interrogativo sul significato della globalizzazione, in particolare
per quanto attiene alla globalizzazione delle pratiche formative. Queste
differenze sopravviveranno nel futuro o finiranno per convergere in un
senso comune del conoscere e del pensare il mondo? O porteranno a un
scontro costante sulle finalità e sui contenuti dell’educazione? Il
rischio vero è che la globalizzazione unisca i mercati ma non gli
uomini, che nessuno di noi riesca mai a riscattarsi dalla tirannide di
essere un mezzo anziché un fine.