Il cinereporter Nino Fezza: Dalla parte dei bambini e del futuro contro le guerre



SEBASTIANO NINO FEZZA: IO STO DALLA PARTE DEI BAMBINI


by Lucio Giordano  Alga News quotidiano on line

DI MARIA ANTONIETTA NOCITRA

SEBASTIANO NINO FEZZA:

IO STO DALLA PARTE DEI BAMBINI


Gli occhi di Sebastiano Nino Fezza, classe 1953, di Ortona, hanno conosciuto tante realtà terribili del mondo e le hanno riprese con la telecamera per mostrarcele e per renderle note a tutti. Citando il suo motto "Una storia non esiste se non viene raccontata", Sebastiano, ispirato anche dal suo lavoro di operatore di ripresa, ha deciso di essere la voce di tante popolazioni sfortunate che spesso sembrano essere dimenticate dal resto del mondo.


Il suo curriculum lavorativo è molto ricco. Ha lavorato in RAI dal 1980 a 2013. Ha collaborato con Michele Santoro, con Giovanni Minoli, con Bruno Vespa per speciali all'estero. Ha collaborato a tutte le edizioni di C'era Una Volta di RAI 3, speciali dal sud del Mondo e zone di crisi. Nella sua carriera ha realizzato oltre 100 reportage in zone disagiate. Ha documentato 17 conflitti. Il suo ultimo Reportage e' stato premiato al "Premio Lucchetta" come miglior reportage d'Europa del 2013 (Reportage su Malala realizzato in Pakistan). Negli ultimi 5 anni è stato direttore di fotografia della trasmissione di Rai 1 Linea Verde. La sua pagina facebook, Nino Fezza Cinereporter, racconta della guerra in Syria e di altri conflitti dalla parte della povera gente, mettendo in primo piano le storie di infanzia perduta dei bambini che vivono in prima persona l'orrore delle guerre.


Qual è il tuo primo ricordo legato alla tua professione?


Il primo ricordo legato alla mia passione per le riprese risale a quando avevo 16 anni. Lavorai tutta l'estate come cameriere e mi comprai una macchina fotografica. Fu il regalo più bello che mi feci. Più di un motorino, che a quella età è la cosa più ambita da acquistare. E da lì è cominciato tutto. Già da allora amavo ritrarre la gente. Era una cosa istintiva. Non i luoghi, ma proprio la gente con le loro storie, i loro vissuti. Ritengo sia inutile fotografare i monumenti perché hanno una staticità e anche tra 100 anni saranno nello stesso posto. Invece un paese va raccontato attraverso la sua gente. I loro volti, le pettinature, i comportamenti, le usanze. Già negli anni '80 iniziai a fare dei reportage in Rai e cominciai a riflettere su tante cose, soprattutto feci una riflessione che mi ha accompagnato fino adesso. Per me il mondo si divide in due livelli: quello in piedi, ad altezza uomo, e quello in ginocchio, all'altezza di un bambino di circa 6 anni. E' così che ho iniziato a scendere sempre più la telecamera seguendo la prospettiva dei bambini. I bambini sono il nostro presente ed il nostro futuro. Penso a quel detto africano che recita: "Non ereditiamo il mondo dai nostri padri, ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli".


Oltre ad aver lavorato per tantissime trasmissioni di giornalismo d'inchiesta il tuo lavoro ti ha portato verso numerosi scenari di guerra. Come si concilia la passione per il proprio lavoro con la paura della guerra?


La paura è una grande compagna di viaggio. In queste situazioni non ci vuole il fisico di Rambo, ma tanta attenzione per questo lavoro. Se non hai paura rischi di far danno. E l'adrenalina che si sviluppa in queste condizioni è il mio motore. Di paura ne ho avuta e ne avrò sempre ma ci si può convivere. Basta non farla sfociare nel panico. Perché la vera paura non è sapere che sparano ma è l'agire nell'ignoto. Per comprenderci meglio ho provato molta più paura ad entrare dentro una favelas brasiliana con la telecamera, perché in quella situazione non sai quale può essere e da dove può provenire il pericolo, piuttosto che in un teatro di guerra. Nella guerra sai a cosa vai incontro e l'uomo possiede una grande capacità di adattamento anche di fronte a situazioni così estreme.


La tua pagina facebook, Nino Fezza Cinereporter, ormai è divenuta un punto di riferimento sul web per coloro che vogliono sapere di più sulle condizioni di vita delle popolazioni in guerra e racconta anche i giorni del conflitto siriano vissuti dai bambini tra la vita e la morte. Come nasce questa pagina facebook?


Nella mia carriera ho confezionato più di 100 reportage: il 95% nel sud del mondo e in 17 conflitti diversi. Ho imparato a convivere in questi luoghi e in parallelo al mio lavoro ho iniziato a sviluppare una particolare attenzione e sensibilità nei confronti della gente che più di tutti subiva il terrore di questi conflitti. Da lì è nata l'idea della pagina facebook. Ho cercato di raccontare ciò che realmente accadeva dalla parte degli ultimi: la gente che non ha il potere di far cessare le guerre e che più di tutti subisce gli effetti delle guerre stesse. Ho cercato e cerco ogni giorno di dare voce a chi voce non ha. Purtroppo le ragioni delle guerre sono sempre le stesse. Economiche, politiche, religiose. La nostra Italia è un paese di Santi, navigatori ed esperti geopolitici. L'attenzione per le guerre è grande fin tanto che si parla di situazioni che possono minare l'economia della nostra nazione. Poi tutto tace, si spengono i riflettori ed inizia la guerra degli ultimi nei campi profughi. La gente spera di rientrare nelle proprie case ma la verità è che non le troveranno più o che le troveranno occupate da altri. Non parlerà più nessuno della loro situazione perché non fa notizia. Io invece voglio parlare proprio di questo. Mi sono stancato di raccontare le cause che spingono alle guerre. Adesso voglio parlare degli effetti delle guerre. Metto il mio tassellino per contribuire a creare un canale di comunicazione, una coscienza nella gente, maggiore sensibilità.


Esattamente cosa sta accadendo oggi in Syria?


Negli ultimi tempi si è parlato tanto di Gaza e la Syria è sparita dai telegiornali. 12.000 bambini uccisi. Immaginiamo 8 km di bambini tutti spariti dalla faccia della terra. Nel mondo esistono circa 59 conflitti. La Syria è solo la punta dell'iceberg ma io sento come un dovere morale nel raccontarla. Servirà, non servirà, non so. Ma sento che devo farlo. Ho iniziato tre anni fa a pubblicare i miei post, quando ancora non si sapeva quasi nulla di questo conflitto. Ho pubblicato 18.000 post da allora. Se si fosse creato un effetto emotivo come quello che c'è adesso su Gaza dopo tutti questi anni probabilmente il conflitto sarebbe terminato. Purtroppo la Syria si è trovata al centro di questioni di potere e di ricchezza tra varie potenze. E' questa la sua sfortuna.


Cosa significa "dialogare" attraverso le immagini e mettere in contatto la gente con queste atroci realtà?


Spesso si sviluppa il cosiddetto "falso pudore", cioè non mostrare ciò che realmente succede per non turbare la gente. Se dici che è morto un bambino in un bombardamento non ci si fa quasi più caso. Ma se dici che è morto Mohamed di 4 anni e metti la sua foto allora le cose sono diverse. Il dilemma all'inizio è stato "mostrare o non mostrare le immagini". Ma poi ho riflettuto che non è la foto ad essere cruenta ma la realtà e allora ho iniziato a pubblicare tante immagini anche crude. Ho avuto molte critiche a riguardo ma per me è l'unico modo di scuotere le coscienze. Ad ogni modo la pagina è in costante evoluzione e sono alla continua ricerca dei linguaggi giusti per entrare nella sensibilità della gente nel migliore dei modi.


In quelle situazioni difficili, quando ti trovavi nel fronte di guerra, ti è mai venuto voglia di mollare tutto? Qual è stato il motore che ti ha spinto ad andare avanti?


Tante volte ho avuto la tentazione di mollare tutto perché ad un certo punto ti rendi conto di combattere contro i mulini al vento. Poi però penso "ma chi li aiuta questi bimbetti!". Ed io mi muovo di pancia, non di testa. Se si usa troppo la testa si viene condizionati.


Oltre alla tua pagina stai cercando di intervenire in altro modo?


Grazie alla pagina e alla visibilità che ha dato a questo conflitto insieme a Marta Vuch abbiamo creato un'associazione, Insieme for Syria, che in un anno e mezzo ha permesso di far arrivare 150 tonnellate di aiuti e di metter su 5 ospedali nella provincia di Tryb. Ricordo che un giorno vidi l'immagine scattata da un fotografo spagnolo di una bimba, Zara (che significa fiore), con un paio di scarponi non adatti ad una bambina. E così, grazie all'immagine di Zara, ho creato una campagna di raccolta di scarpe per i bambini siriani. Ecco come le immagini vengono in aiuto per dare visibilità a chi ha bisogno.


Le nuove tecnologie spesso ci avvicinano attraverso le foto a realtà terribili e il mondo cinematografico è pieno di immagini cruente. Non c'è il rischio che questo continuo "bombardamento" di situazioni violente possa procurare all'uomo una sorta di assuefazione, al punto da renderlo immune di fronte al dolore di chi soffre?


Il dubbio c'è sempre. Mi ricordo che tornato dal conflitto in Jugoslavia mi trovavo a casa di amici. La televisione era accesa su un servizio di guerra proprio in quei luoghi. Era come se scorressero le immagini di un film. Ma io ero stato lì e sapevo bene che quella era realtà e non finzione perché l'avevo vista con i miei occhi. Molto spesso tendiamo a mischiare la realtà con la fiction. Ed è per questo che a volte mi sento costretto a "picchiar duro" con immagini forti. A volte devo far male alle coscienze anche con immagini che possono dare fastidio. Devo mostrare la cruda realtà perché 12.000 morti non sono solo un numero. Ecco perché penso che bisognerebbe già educare nelle scuole a leggere le immagini. Ma per far ciò bisognerebbe cominciare ad educare sia i genitori che gli insegnanti.


Che idea ti sei fatto di questi conflitti degli ultimi anni nei paesi islamici. Pensi ci possano essere delle soluzioni?


Prima o poi tutto finisce ma purtroppo ritengo che in Syria non se ne parli per ora. Per me trascorreranno almeno altri due o tre anni prima che la situazione si sistemi un po'. Purtroppo la libertà ha un prezzo alto da pagare e in questo momento in Syria non esiste nessuna coalizione forte. La gente si è disillusa rispetto ai propositi che hanno portato l'inizio del conflitto. Ormai si pensa che si stava meglio quando si stava peggio.


Oggi cosa possiamo fare noi per aiutare nel nostro piccolo questa gente?


Non smettiamo di raccontare ciò che sta avvenendo e facciamo prendere consapevolezza di ciò che sta avvenendo a più gente possibile. Gli italiani hanno la memoria corta. Dall'ultima guerra che ci ha riguardato direttamente ad oggi sono trascorsi 70 anni. Noi non sappiamo più cosa vuol dire "guerra". E abbiamo dimenticato che siamo stati emigranti. Abbiamo una memoria storica troppo labile. Solitamente i flussi migratori avvengono in varie fasi: nel primo flusso ci sono i cosiddetti disperati, nel secondo flusso i laureati e gli intellettuali e così via. La globalizzazione è anche questo: imparare a convivere con chi è diverso da noi. Da parte mia non mollo e non mollerò mai nel cercare di darmi da fare per questa gente perché quando mi faccio la barba devo avere la forza di affrontare il mio sguardo. Bisogna vigilare e non dire mai "Eh! Ma io cosa posso fare?". Dire ciò significa arrendersi e invece siamo tante gocce che messe insieme possono far nascere un torrente.