Avvenire
Come scrive la direttrice del Mart Cristiana Collu, nella premessa al catalogo della mostra che si apre oggi a Rovereto, la Grande Guerra appartiene agli «irrappresentabili». Le parole s’inceppano, i ragionamenti s’avvitano per cercare una ragione a ciò che non sembra averla, le immagini sfiorano appena la realtà, e anche le più crude e fedeli risultano quasi una caricatura del vero.
È qualcosa che si respira, intendo questo limite di rappresentazione, anche al Mart, dove pure si è costruita una "trincea" che solca lo spazio del museo come un labirinto, usando la Grande Guerra per fare un discorso più largo sull’insensatezza della guerra e contro la guerra. Perché, dice la Collu, è la guerra in quanto tale che risulta indicibile e irragionevole. Per quanto l’Iliade – il poema della forza, come lo definì Simone Weil – dica ancora oggi molte cose e forse tutto quello che si può aggiungere è quasi superfluo.
La retorica sulla guerra è sicura quanto la morte quando si esce dalla trincea. E infatti il titolo della mostra, preso da Bertold Brecht, è persino banale: «La guerra che verrà/ non è la prima». Lo sappiamo, come sappiamo che anche la prossima guerra (e nel mondo ce ne sono tante in corso) non sarà l’ultima. Bisogna lottare per la pace, fare di tutto perché rimanga, o perché ritorni se c’è un conflitto; ma consapevoli che c’è qualcosa nella guerra di oscuramente connaturato all’uomo.
Volontà di potenza, rispetto del diritto, autodeterminazione dei popoli, sistemi politici alternativi, modi di vedere la vita opposti perché opposti sono i valori a cui ci si riferisce. Tutte cause, ritenute più o meno valide, per fare una guerra come ci dimostra la storia (e il presente).
La guerra «igiene del mondo» (dell’audace Marinetti), corrisponde, dopo tutto, all’esclamazione estatica di Stockhausen sulle Twin Towers abbattute: la più grande opera d’arte di tutti i tempi. Ma la Grande Guerra fu ancora una guerra dove l’onore, la patria, il sacrificio per la libertà definivano un tessuto antropologico e culturale. Si può dire: ci credevano, anche se sapevano che molti di loro non sarebbero tornati. Come ricorda una scritta stampata sulle pareti del Mart: uscire dalla trincea e andare all’attacco considerandosi già morti.
Quella morte preventiva era forse l’unica chance per rimanere vivi alla fine dell’assalto. Vediamo immagini di volti deturpati, suturati come quelli dopo un’autopsia, ma alcuni erano rimasti vivi e avrebbero portato quello sgorbio scritto in faccia per il resto dei loro anni. Altri tornarono amputati di braccia e gambe, senz’occhi, con mezza calotta cranica rifatta in duro metallo. Con lo spirito a pezzi. Le conseguenze "antropologiche" le descrive Rocco Ronchi nel suo saggio in catalogo (Electa).
La mostra del Mart è bella, ma mischia troppo le carte. È vero che a quattro passi c’è il museo della Grande Guerra e se uno vuole calarsi in quel passato può trovare lì ciò che cerca. Però mi chiedo se questa mostra possa davvero far capire che cosa fu quell’evento. Per me ragazzo (ahimè, è passata un’eternità da allora) la Grande Guerra era un’immagine cupa, apocalittica, tragica: la sentivo come un passato prossimo, cosa che non avverto nelle generazioni di oggi. I miei nonni l’avevano vissuta e la raccontavano, ma oggi chi testimonia ai ragazzi che cosa fu quel fatto epocale? «Inutile strage«, ma anche stura per altri eventi drammatici: i totalitarismi, il pensiero della crisi, la deriva dell’Europa. Com’è possibile che queste cose passino sopra la testa di tanti giovani oggi, che siano accolte quasi con noia o indifferenza?
Come scrive la direttrice del Mart Cristiana Collu, nella premessa al catalogo della mostra che si apre oggi a Rovereto, la Grande Guerra appartiene agli «irrappresentabili». Le parole s’inceppano, i ragionamenti s’avvitano per cercare una ragione a ciò che non sembra averla, le immagini sfiorano appena la realtà, e anche le più crude e fedeli risultano quasi una caricatura del vero.
È qualcosa che si respira, intendo questo limite di rappresentazione, anche al Mart, dove pure si è costruita una "trincea" che solca lo spazio del museo come un labirinto, usando la Grande Guerra per fare un discorso più largo sull’insensatezza della guerra e contro la guerra. Perché, dice la Collu, è la guerra in quanto tale che risulta indicibile e irragionevole. Per quanto l’Iliade – il poema della forza, come lo definì Simone Weil – dica ancora oggi molte cose e forse tutto quello che si può aggiungere è quasi superfluo.
La retorica sulla guerra è sicura quanto la morte quando si esce dalla trincea. E infatti il titolo della mostra, preso da Bertold Brecht, è persino banale: «La guerra che verrà/ non è la prima». Lo sappiamo, come sappiamo che anche la prossima guerra (e nel mondo ce ne sono tante in corso) non sarà l’ultima. Bisogna lottare per la pace, fare di tutto perché rimanga, o perché ritorni se c’è un conflitto; ma consapevoli che c’è qualcosa nella guerra di oscuramente connaturato all’uomo.
Volontà di potenza, rispetto del diritto, autodeterminazione dei popoli, sistemi politici alternativi, modi di vedere la vita opposti perché opposti sono i valori a cui ci si riferisce. Tutte cause, ritenute più o meno valide, per fare una guerra come ci dimostra la storia (e il presente).
La guerra «igiene del mondo» (dell’audace Marinetti), corrisponde, dopo tutto, all’esclamazione estatica di Stockhausen sulle Twin Towers abbattute: la più grande opera d’arte di tutti i tempi. Ma la Grande Guerra fu ancora una guerra dove l’onore, la patria, il sacrificio per la libertà definivano un tessuto antropologico e culturale. Si può dire: ci credevano, anche se sapevano che molti di loro non sarebbero tornati. Come ricorda una scritta stampata sulle pareti del Mart: uscire dalla trincea e andare all’attacco considerandosi già morti.
Quella morte preventiva era forse l’unica chance per rimanere vivi alla fine dell’assalto. Vediamo immagini di volti deturpati, suturati come quelli dopo un’autopsia, ma alcuni erano rimasti vivi e avrebbero portato quello sgorbio scritto in faccia per il resto dei loro anni. Altri tornarono amputati di braccia e gambe, senz’occhi, con mezza calotta cranica rifatta in duro metallo. Con lo spirito a pezzi. Le conseguenze "antropologiche" le descrive Rocco Ronchi nel suo saggio in catalogo (Electa).
La mostra del Mart è bella, ma mischia troppo le carte. È vero che a quattro passi c’è il museo della Grande Guerra e se uno vuole calarsi in quel passato può trovare lì ciò che cerca. Però mi chiedo se questa mostra possa davvero far capire che cosa fu quell’evento. Per me ragazzo (ahimè, è passata un’eternità da allora) la Grande Guerra era un’immagine cupa, apocalittica, tragica: la sentivo come un passato prossimo, cosa che non avverto nelle generazioni di oggi. I miei nonni l’avevano vissuta e la raccontavano, ma oggi chi testimonia ai ragazzi che cosa fu quel fatto epocale? «Inutile strage«, ma anche stura per altri eventi drammatici: i totalitarismi, il pensiero della crisi, la deriva dell’Europa. Com’è possibile che queste cose passino sopra la testa di tanti giovani oggi, che siano accolte quasi con noia o indifferenza?
La mostra del
Mart dovrebbe vincere questa sfida. Ma, pur essendoci opere talvolta
bellissime, anche contemporanee (legate alla guerra in quanto tale
piuttosto che al primo conflitto), l’insieme appare tanto molteplice
quanto vago. Incapace di farci "sentire" nell’animo quella terribile
apocalisse.
Seguendo alcune parole chiave, a mo’ di sezioni (Terra, Futurismo, Fotografia, Conflitto, Propaganda, Umanità, Morte, Dopoguerra, Letteratura), si comincia idealmente con le foto di fine Ottocento delle montagne trentine scattate da Giuseppe Garbari e poi quelle realizzate oggi da Paola De Pietri, che sembrano creare con il loro salto temporale una specie di vuoto, come un silenzio nel quale cadono una quantità di reperti bellici: il culto della potenza e la festosità della guerra di Depero, l’energia deflagrante di Balla, le luci plumbee di Sironi, i proclami ardimentosi di Marinetti, i manifesti pubblicitari di artisti come Dudovich, Bonzagni, Finozzi, fra propaganda e patriottismo, giornali e giornaletti più o meno satirici, come Il Mulo che in una copertina mostra la testa di un uomo nel quale viene versato il vino dell’indottrinamento bellico e sotto la scritta: «Fronte unico, fronte unica, e cervello unico».
Gli effetti di quel "pensiero unico" bellicista vengono dispiegati, nella mostra, attraverso immagini delle guerre di oggi (d’impressionante nitore le foto di Eric Baudelaire), i Generali di Baj, il bellissimo film Apocalisse nel deserto di Werner Herzog sui disastri prodotti dalla prima guerra del Golfo, la combustioni di Burri, alternando i disegni in trincea dell’interventista e arruolato volontario Pietro Morando (quasi privi di pathos) e quelli carichi di sofferenza e di stigmate di Max Beckmann, la bellissima e corrosiva Danza macabra europea di Alberto Martini e poi una classica istallazione di Boltanski e un altrettanto classico ciclo di Kentridge, la stanza-mausoleo di Fabio Mauri e poco prima il ciclo di formelle in bronzo di Arturo Martini con le trincee, l’assalto, la messa al campo, i gas e le crocerossine.
Più che la Prima guerra mondiale, è la guerra in generale. Il rischio, dunque, è che si legga un manifesto contro la guerra, ma non si comprenda che cosa sia effettivamente accaduto nel 1914-’18. L’atmosfera è forse troppo igienizzata, concettuale, manca quel sentore di "sangue e fango", di vita perduta, che fu l’esperienza di tanti poilus, i «pelosi», come erano soprannominati in argot i soldati francesi di trincea che non avevano tempo per pensare a radersi e a tenersi in ordine mentre la morte già pregustava le loro carni. Un universo – contrario alla retorica ufficiale – che venne smentito pochi anni dopo la fine del conflitto da scrittori come Jean Norton Cru, Gabriel Chevalier e dallo stesso Céline, ma di questo acido corrosivo la mostra ne spande ben poco.
Seguendo alcune parole chiave, a mo’ di sezioni (Terra, Futurismo, Fotografia, Conflitto, Propaganda, Umanità, Morte, Dopoguerra, Letteratura), si comincia idealmente con le foto di fine Ottocento delle montagne trentine scattate da Giuseppe Garbari e poi quelle realizzate oggi da Paola De Pietri, che sembrano creare con il loro salto temporale una specie di vuoto, come un silenzio nel quale cadono una quantità di reperti bellici: il culto della potenza e la festosità della guerra di Depero, l’energia deflagrante di Balla, le luci plumbee di Sironi, i proclami ardimentosi di Marinetti, i manifesti pubblicitari di artisti come Dudovich, Bonzagni, Finozzi, fra propaganda e patriottismo, giornali e giornaletti più o meno satirici, come Il Mulo che in una copertina mostra la testa di un uomo nel quale viene versato il vino dell’indottrinamento bellico e sotto la scritta: «Fronte unico, fronte unica, e cervello unico».
Gli effetti di quel "pensiero unico" bellicista vengono dispiegati, nella mostra, attraverso immagini delle guerre di oggi (d’impressionante nitore le foto di Eric Baudelaire), i Generali di Baj, il bellissimo film Apocalisse nel deserto di Werner Herzog sui disastri prodotti dalla prima guerra del Golfo, la combustioni di Burri, alternando i disegni in trincea dell’interventista e arruolato volontario Pietro Morando (quasi privi di pathos) e quelli carichi di sofferenza e di stigmate di Max Beckmann, la bellissima e corrosiva Danza macabra europea di Alberto Martini e poi una classica istallazione di Boltanski e un altrettanto classico ciclo di Kentridge, la stanza-mausoleo di Fabio Mauri e poco prima il ciclo di formelle in bronzo di Arturo Martini con le trincee, l’assalto, la messa al campo, i gas e le crocerossine.
Più che la Prima guerra mondiale, è la guerra in generale. Il rischio, dunque, è che si legga un manifesto contro la guerra, ma non si comprenda che cosa sia effettivamente accaduto nel 1914-’18. L’atmosfera è forse troppo igienizzata, concettuale, manca quel sentore di "sangue e fango", di vita perduta, che fu l’esperienza di tanti poilus, i «pelosi», come erano soprannominati in argot i soldati francesi di trincea che non avevano tempo per pensare a radersi e a tenersi in ordine mentre la morte già pregustava le loro carni. Un universo – contrario alla retorica ufficiale – che venne smentito pochi anni dopo la fine del conflitto da scrittori come Jean Norton Cru, Gabriel Chevalier e dallo stesso Céline, ma di questo acido corrosivo la mostra ne spande ben poco.