Ferrara, IL MIO NOME È UNO ROSSO


nulla a che fare con "Il mio nome è Rosso" di Orhan Pamuk

 

Solo "da dentro" si capiva quanto il motto "Arbeit Macht Frei" (Il Lavoro Rende Liberi) sul cancello di Auschwitz fosse di satanica ironia. Col nazismo sconfitto, il Lavoro ha potuto tornare a rendere davvero liberi. Liberi dal bisogno, se non altro, oltre che dalla carenza di dignità. Adesso però succede che da noi il lavoro manchi, perché a Palazzo interessano più le astrazioni dei fatti. Essendo sopravvissuto un solo rapporto fra libertà e lavoro, significa che è l'ora d'aggiornare la segnaletica, cambiando l'ormai stucchevole dicitura "Città delle biciclette" con la più realistica "Città Libera dal Lavoro". Se ci fosse bisogno di conferme, basterebbe chiedere fra la folla di ferraresi disoccupati cosa ne pensano. Non son tutte qui le affinità concettuali fra la realtà odierna e quella concentrazionaria di Hitler: l'ospedale, deportato fuori città dai Gauleiter attuali, è soprattutto un profluvio di trigrammi, quelle sigle alfanumeriche a tre lettere indicanti "corpi" "settori" e "piani" da edificio penitenziario (ma non gli ettometri di deprimenti corridoi privi di scritte note), che ricordano tanto l'ordinamento dei lager basato su sigle dai sinistri contenuti come G.U., HKB, FKL, KGL, 14f13 e tante altre.

Per buona sorte, i trigrammi su cartongesso di Cona sono, sì, desolanti e monotoni, ma almeno senza intimidazioni. Intendendo ringraziare i Gauleiter sanitari perché si astengono dal palesarsi in divisa col frustino, si può far loro notare che l'esercitare l'autorità senza autorevolezza li accumuna agli inventori dell'acqua tiepida. In proposito, è di qualche utilità esaminare l'esempio seguente.

I dispensatori di numerini salvacode suddivisi per tipologie e associati ai pannelli luminosi impiegati alla USL di via Cassoli svolgono alla perfezione il loro compito: non c'è bisogno di migliorarli, vanno bene come sono. Anche nell'ospedale campestre di Cona andrebbero bene, se ci fossero. Ma non ci sono: qualche animo da kapò, con la scusa della privacy, ha deciso più o meno consciamente di ricalcare in parte la vicenda dei numeri tatuati sul braccio e i contrassegni colorati sulle casacche degli Haftling per privarli dell'identità umana e distinguerli in categorie di reclusione. Niente d'irreversibile, s'intende: numeri e colori attribuiti alla gente sono estemporanei, valgono solo per la giornata della visita, stampati sul foglio che consente l'accesso agli ambulatori per chiamata vocale gridata alle sale d'attesa gremite.

Ed è così che, sotto un grande monitor perennemente spento alla parete, mi sono sentito chiamare a gran voce: "UNO ROSSO, venga!"

In buona sostanza, sia pure con infinita e decrescente gradualità, ci sono sempre delle vittime: nei lager, chi per dignità si ribellava al tatuaggio finiva seviziato e ucciso; qui, se la stessa dignità spinge a rispondere: "Uno Rosso sarai tu, imbecille", si viene denunciati e condannati.

Il sonno della ragione genera sempre dei kapò. E li tutela.

 

Paolo Giardini