Marco M. Tani, l'arte e il Kendo dell'Anima

ARTISTI NEL VENTUNESIMO SECOLO: 
OVVERO IL KENDO DELL'ANIMA
Si nasce soli e si muore soli. E si scrive, si dipinge, si lavora soli. E mentre si è soli accade di incontrare altri con cui si inizia un percorso. Nessuno sa quanto durerà. Si va da un minuto all'eternità. Nella mia esperienza chi ti fa più complimenti, chi ti osanna, chi mostra di avere per te un'ammirazione smisurata generalmente ti ha già fottuto o ha l'insano determinato obiettivo di fotterti. Chi ti critica apertamente senza paura di avere la tua disapprovazione, nel momento del bisogno c'è sempre o nel momento in cui si trova di fronte al tuo lavoro, alla tua vita, alla tua opera, si rivela quando l'apprezza sincero. Questo l'ho verificato nei momenti più duri della mia vita, quelli in cui la verità salta fuori sovrana dagli abissi dell'apparenza. E quando chi decide di accompagnarti nella verità finalmente ama ciò che fai e ciò che sei puoi giurarci che è sincero. Anche chi fa arte deve capirlo. Bisogna tornare a capire che l'artista scrive e lavora innanzitutto per se stesso. Col cuore deve seguire la regola di quella vecchia pubblicità di jeans che poetizzando un culo magnifico scriveva: Chi mi ama mi segua.
Sembra impossibile ma un atteggiamento simile non è narcisismo. Anzi: ne è è il rimedio più efficace: è autodifesa creativa, è il kendo dell'anima. Fermo restando il fatto che è bello essere apprezzati, è bello essere letti come d'altronde è bello essere amati, per sfuggire all'ansia da prestazione che in tutti i campi della vita notoriamente genera infelicità e sensazione di fallimento bisogna piantarla una volta per tutte di inseguire chi deve seguirti e proporre il proprio lavoro come se si implorasse una mistica carità. E' come per un uomo passeggiare in città e contare tutte le donne che incontra sfogliando la classica margherita: "Questa mi ha guardato, questa no. Quest'altra sì e quest'altra no..." In questa maniera si torna a casa stanchi morti. L'artista deve invece permettersi il lusso di guardare il mondo nell'infinita passeggiata della vita facendo una cosa sola: la sua passeggiata. E riferire poi al PC quei milioni di fotogrammi di un giorno che fermentando come il buon vino diventano opere, lavori. 
La malattia tardoromantica, a rigor di logica, dovrebbe essere scomparsa in un tempo come quello che ci circonda, apparentemente così tecnologico, così metropolitano, invece vaga nelle anime di tutti, artisti e non, come una nobildonna decaduta e, francamente, a forza di “rifarsi”,un po' “babbiona”. Aveva ragione Yukio Mishima quando sosteneva che l'artista deve curarsi con un sano allenamento fisico e vestendosi come un manager d'azienda. L'arte, la poesia sono forza creatrice e potenza concreta. Non nascono mai dalla sofferenza come qualcuno ancora si ostina a credere, nascono solo dall'energia e dalla visionarietà gioiosa. Che l'arte venga fuori da un lamento, da una sofferenza, è una balla fra le più spietate che si possano raccontare. Pensiamo solo al fatto che non si può nemmeno dire: “Faccio l'artista”. Subito c'è un imbecille che con un sorriso da Caritas diocesana (con tutto il rispetto) ti risponde: “Uh che bello! Anche mia nonna scriveva”. Bisognerebbe aver un secchio d'acqua gelata sempre pronto. Gli occhi dell'interlocutore si fanno accoglienti, pietosi. Chissà come sei sensibile, dicono con un battito di palpebre degno delle ali di un colibrì. Allora, se non hai il famoso secchio d'acqua gelata pronto, devi sorridere come un ebete e spiegargli con voce da potenziale candidato alla santità (anche perché in caso di reazione sanguigna ti direbbero che hai un carattere impossibile) : “Sai... Leopardi non era grande perché era gobbo, era grande perché era Leopardi. E quando si sentiva come il passero solitario non si struggeva l'anima. Semplicemente gli facevano schifo le feste di paese perché era un inguaribile aristocratico (secondo le testimoninze anche un po' antipatico). Poi catturava dall'anima le parole giuste per dirlo e trasformava il proprio humus aristocratico in quella malinconia che gli piaceva tanto e che, come un veleno che a dosi precise diventa medicina, gli faceva comporre i capolavori mozzafiato che conosciamo. Ecco allora che qualche maestrina rattrappita subito identificava la sua “misera condizione” come causa di grandezza. No, sarebbe stato grande anche se fosse stato un maestro di lotta greco romana. E l'artista contemporaneo, a maggior ragione, deve diventare un ottimo maestro di lotta. Fra l'altro le palestre, oggigiorno, non mancano. Mancano i grandi maestri, questo sì purtroppo. Dunque niente paura. Occupiamo i posti vacanti.

Marco M. Tani