ARTISTI NEL VENTUNESIMO SECOLO:
Si nasce soli e si muore soli. E si scrive, si dipinge, si
lavora soli. E mentre si è soli accade di incontrare altri con cui si
inizia un percorso. Nessuno sa quanto durerà. Si va da un minuto
all'eternità. Nella
mia esperienza chi ti fa più complimenti, chi ti osanna, chi mostra di
avere per te un'ammirazione smisurata generalmente ti ha già fottuto o
ha l'insano determinato obiettivo di fotterti. Chi ti critica
apertamente senza paura di avere la tua disapprovazione,
nel momento del bisogno c'è sempre o nel momento in cui si trova di
fronte al tuo lavoro, alla tua vita, alla tua opera, si rivela quando
l'apprezza sincero. Questo l'ho verificato nei momenti più duri della
mia vita, quelli in cui la verità salta fuori sovrana
dagli abissi dell'apparenza. E quando chi decide di accompagnarti nella
verità finalmente ama ciò che fai e ciò che sei puoi giurarci che è
sincero. Anche chi fa arte deve capirlo. Bisogna tornare a capire che
l'artista scrive e lavora innanzitutto per se stesso.
Col cuore deve seguire la regola di quella vecchia pubblicità di jeans
che poetizzando un culo magnifico scriveva: Chi mi ama mi segua.
Sembra impossibile ma un atteggiamento simile non è
narcisismo. Anzi: ne è è il rimedio più efficace: è autodifesa creativa,
è il kendo dell'anima. Fermo restando il fatto che è bello essere
apprezzati, è bello
essere letti come d'altronde è bello essere amati, per sfuggire
all'ansia da prestazione che in tutti i campi della vita notoriamente
genera infelicità e sensazione di fallimento bisogna piantarla una volta
per tutte di inseguire chi deve seguirti e proporre
il proprio lavoro come se si implorasse una mistica carità. E' come per
un uomo passeggiare in città e contare tutte le donne che incontra
sfogliando la classica margherita: "Questa mi ha guardato, questa no.
Quest'altra sì e quest'altra no..." In questa maniera
si torna a casa stanchi morti. L'artista deve invece permettersi il
lusso di guardare il mondo nell'infinita passeggiata della vita facendo
una cosa sola: la sua passeggiata. E riferire poi al PC quei milioni di
fotogrammi di un giorno che fermentando come
il buon vino diventano opere, lavori.
La malattia tardoromantica, a rigor di logica, dovrebbe
essere scomparsa in un tempo come quello che ci circonda, apparentemente
così tecnologico, così metropolitano, invece vaga nelle anime di tutti,
artisti e
non, come una nobildonna decaduta e, francamente, a forza di
“rifarsi”,un po' “babbiona”. Aveva ragione Yukio Mishima quando
sosteneva che l'artista deve curarsi con un sano allenamento fisico e
vestendosi come un manager d'azienda. L'arte, la poesia sono forza
creatrice e potenza concreta. Non nascono mai dalla sofferenza come
qualcuno ancora si ostina a credere, nascono solo dall'energia e dalla
visionarietà gioiosa. Che l'arte venga fuori da un lamento, da una
sofferenza, è una balla fra le più spietate che si
possano raccontare. Pensiamo solo al fatto che non si può nemmeno dire:
“Faccio l'artista”. Subito c'è un imbecille che con un sorriso da
Caritas diocesana (con tutto il rispetto) ti risponde: “Uh che bello!
Anche mia nonna scriveva”. Bisognerebbe aver un secchio
d'acqua gelata sempre pronto. Gli occhi dell'interlocutore si fanno
accoglienti, pietosi. Chissà come sei sensibile, dicono con un battito
di palpebre degno delle ali di un colibrì. Allora, se non hai il famoso
secchio d'acqua gelata pronto, devi sorridere
come un ebete e spiegargli con voce da potenziale candidato alla santità
(anche perché in caso di reazione sanguigna ti direbbero che hai un
carattere impossibile) : “Sai... Leopardi non era grande perché era
gobbo, era grande perché era Leopardi. E quando
si sentiva come il passero solitario non si struggeva l'anima.
Semplicemente gli facevano schifo le feste di paese perché era un
inguaribile aristocratico (secondo le testimoninze anche un po'
antipatico). Poi catturava dall'anima le parole giuste per dirlo
e trasformava il proprio humus aristocratico in quella malinconia che
gli piaceva tanto e che, come un veleno che a dosi precise diventa
medicina, gli faceva comporre i capolavori mozzafiato che conosciamo.
Ecco allora che qualche maestrina rattrappita subito
identificava la sua “misera condizione” come causa di grandezza. No,
sarebbe stato grande anche se fosse stato un maestro di lotta greco
romana. E l'artista contemporaneo, a maggior ragione, deve diventare un
ottimo maestro di lotta. Fra l'altro le palestre,
oggigiorno, non mancano. Mancano i grandi maestri, questo sì purtroppo.
Dunque niente paura. Occupiamo i posti vacanti.
Marco M. Tani