(*in rifermento a Reale Apparente. Giochi di esistenza, dell'autore, Este Edition)
DISINCANTESIMIMetrica sì, metrica no, metrica in parte. Legittima risposta che occorre darsi nel contemporaneo mondo della poesia, ai fini della sua applicazione. Uniche tre soluzioni praticabili e, di fatto, praticate-
Ma un nuovo parametro, magari non troppo elastico per dirsi canone, può essere utile?
Ben lungi dall’ormai dimenticato modello quantitativo veteroclassico, sostenuto dall’impiego delle vocali, lunghe o brevi che fossero. Ed anche oltre la regola di più recente applicazione, tuttora valida, commisurata agli accenti tonici, quell’epocale metrica "barbara" che asseverò il Carducci.
Dando, oltretutto, per scontato che in fatto di rima, al presente, o non se ne tiene affatto conto o si vogliono valorizzare tutte le alternative o similari accezioni (la rimalmezzo, le semi-rime, assonanti e consonanti, le allitterazioni, gli anagrammi e ogni altra tipologia di metaplasmo e metagramma, con uso paronomastico, in special modo parafonico, enclitico e spesso omeoteleuto), la mia idea in materia tenderebbe ad una soluzione metrica (o, diciamolo pure, parametrica) in una misura molto soft.
Per quanto mi riguarda, fatico a credere che stia nella sola metrica l’esclusivo fattore euritmico, pur non negandone il fondamento. Tant’è che fino a pochi anni fa costruivo i versi in assoluta libertà, senza pormi nessun problema, men che meno metrico.
Non secondariamente, prim’ancora d’avvallarne un fattore tecnicamente restrittivo, riterrei il ritmo come qualcosa di soggettivo, qualcosa d’innato nel poeta autentico.
Personalmente m’affido ad un’estetica che riterrei tutt’altro che pregiudizievole dell’aspetto ritmico, adottando un mio cliché particolare.
Immaginiamolo all’insegna d’un presupposto metrico alternativo che, pur applicandolo, lasci al poeta più margine alla propria personalità. Con la coscienza che comunque un certo "ingabbiamento" anche una misura metrica più blanda, proprio perché impositiva, lo implichi.
In definitiva, non sarebbe altro che una regola meno tiranna, pensata nella consapevolezza che siffatti, più elastici confini siano ottimali per generare poesia. L’autore, il poeta, che voglia essere vero protagonista può in tal modo eiettarsi nell’etereo estro del verso, incontrando una malleabilità maggiormente gestibile. Sfruttando ampia libertà nonché celerità nella cattura dell’estro. Avendo in mente il concetto di armonizzazione della parola e, d’altronde, senza sacrificarne quello, affine e parallelo, di musicalità. Secondo ritmemi (cfr. rivista Metrica II, pp. 173 e ss., 1981, di Giuseppe Tavani) alternativi, attinti nella primaria natura, istintiva, della poiesi.
Cercare di dare un nome a tale meccanismo metrico potrebbe mettere in imbarazzo. Intanto perché non si saprebbe se si potesse parlare ancora di metrica. Ma se, benintenzionati, gli si concedesse quell’identità mediana, che a mio avviso potrebbe anche attagliarglisi, in tal caso vi sarebbe da scegliere tra una sequela di potenziali definizioni, le quali, di conseguenza, esplicherebbero variegate possibilità di complementarità tra la forma e la struttura. Del tipo:
METRICA ELASTICA, vedendone un’ipotesi tendente ad una sfaccettata fattibilità, intesa in un suo work in progress;
oppure, assecondando ulteriori appetibili ipotesi strutturali, la si potrebbe citare quale METRICA FIGURATIVA, visiva o altrimenti iconica;
o, ancora, metrica spaziale.
Addirittura, la molteplicità delle potenziali soluzioni estetiche che tale sorta di concetto metrico supporterebbe, al limite, potrebbe essere suscettibile di palesarne, per la forma visiva impressa sul foglio, altrettante geometrie, tali da tentare di forzarne una sostituzione definitoria della sostanziale finalità storica, giungendo a coniarne, eventualmente, una geometrica.
Non tralasciando un raffronto con la metrica tradizionalmente nota, e pur volendo concedere una forma al verso, la struttura di quest’intonsa ‘geometrica’ (concedetemi che, almeno per ora, la si possa così menzionare) grossomodo seguirebbe questo schema:
il computo delle sillabe non avrebbe più alcun senso, divenendo inutile, ininfluente parametro, e consentirebbe l’essenziale semplificazione di non dover più controllare un’irrilevante (a tal punto lo sarebbe) conformità vocalica e/o tonica, che a sua volta, se non eliminasse, almeno ridurrebbe di molto il tempo d’appropriazione del verso nonché buona parte di quelle forzate surrogazioni concettuali che talora finiscono per sviare l’originaria idea poetica;
i versi (in conseguenza del punto precedente) potrebbero risultare, nel mero, gratuito computo delle vocali, facilmente ibridi o polivalenti, immischiati l’un l’altro: ternari con quaternari, quaternari con quinari, quinari con senari, senari con settenari, e così via, finanche a giungere alla combinazione di ternari con quinari, non escludendo ancora un maggior scarto sillabico nel loro rapporto;
il corpo della scrittura, che, tramite i versi e le strofe (secondo la fondamentale idea di questa ‘geometrica’) verrebbe a "dipingere" sul foglio una sua forma, potrebbe essere uniforme e compatto ma potenzialmente potrebbe anche assumere variegate conformazioni:
geometriche, lineari o altre, le più suggestive (da cui si coglie ulteriore spunto per la definizione di ‘geometrica’);
segmentali, quanto alla sintassi ed ai suoi significanti;
alterne e/o parziali, permettendo altresì che singole strofe siano libere o comunque non vincolate all’unisono (metrica elastica);
visive, descrittive e nel contempo figurative del concetto poetico oggetto del singolo componimento (metrica figurativa o appunto visiva se non pseudoiconica o icastica, potendo, sempreché lo si voglia, originare calligrammi);
nel consecutivo, integrativo, inevitabile atto della lettura, l’armonia, che, nell’unitaria impalcatura strofica, verrebbe necessariamente, e di sovente, interrotta dagli intervalli di scansione (in gergo detta cesura), per un maggiore uso (escludendone ogni azzardato abuso) della spezzatura o spezzamento (per le sue polivalenti accessioni è opportuno capirci bene: sto parlando del cosiddetto enjambement, alla francese, oppure, stando alla pronuncia del nostro italiano, accavallamento, imbricazione – anche embricazione –, inarcatura, intralciamento, che, com’è risaputo, è accorgimento tecnico atto all’annullamento della pausa – la già menzionata cesura – tra verso e verso, e talora interponendosi alla stessa strofa), sarebbe lasciata alla preferenziale discrezione del lettore. Instaurando in tal modo un’ampia collaborazione tra poeta e lettore, quasi fungendo da passe-partout interpretativo del prototipo poetico d’un singolo ed originario autore. Che in buona sostanza crea una corrispondente simbiosi tra poeta e lettore. Ne verrebbe meno soprattutto lo scarto di lettura invece previsto dalla regola metrica tradizionale. Facilitandone la funzione anche al fruitore: il lettore.
Ciò oggi è possibile e quanto mai facilitato grazie ad una diffusissima tecnologia del computer.
Sostanzialmente non si tratterebbe altro che d’uno schema sottomesso ad un suo ordine alquanto semplicistico, che annullerebbe o aiuterebbe a rendere meno caotica la sensazione di “disordine” di una poesia aperta ad una scelta estetica, e nel contempo stilistica, indiscriminatamente libera ma, proprio per questa caratteristica sua assoluta libertà, da più parti altrettanto opinabile. In quanto se ne vedrebbe una poesia incompleta, senza soprabito, tanto per capirci: avente si una sua veste, ma insufficiente.
Dunque, nessun ordine impositivo o categorico vuole essere questo mio paradigma compositivo. Che sia chiaro! Semmai un’opportunità che procurerebbe maggiori aperture e soddisfazioni sia al poeta sia al lettore, come anticipato.
Esempio concreto potrebbe esservene riservato specialmente dalla mia ultima raccolta poetica intitolata Reale apparente. Giochi d’esistenza (Este Edition 2013, pp. 96, € 8,00), la quale spererei tanto potesse darvi un’idea di questo utilitaristico espediente similmetrico.
emiliodiedo@libero.it