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IL SENSO DELL'IMPERO ROMANO

Le lodi dell'Impero Romano toccarono il culmine con l'Orazione Romana di Elio Aristide, nato nel 117 d.C.). Sia Dione che Plinio avevano scritto dell'imperatore regnante Traiano. Aristide, circa due generazioni più tardi, non prese direttamente Adriano o Antonino Pio ad argomenti d'elogio, ma scrisse panegirici di quattro città, di cui quello rivolto a Roma è di gran lunga il più noto. Per lo storico di Roma e per lo storico della filosofia l'opera presenta gli stessi difetti comuni a tutta la letteratura panegirica e retorica. Come quadro dell'Impero Romano nel II secolo d.C. non è necessariamente falso nelle sue asserzioni, ma non può nemmeno dirsi fedele al 100%, date le grosse e vistose omissioni che commette. Nella sua qualità di testimonianza del pensiero politico antico è interessante come tentativo, abilissimo, di conciliare due principi politici. quello della Città Stato classica e quello dell'imperialismo. Da un lato l'autore descrive una società compatta e chiusa, quale  avrebbero potuto immaginare Platone ed Aristotele: dappertutto le persone rispettabili, benestanti, colte formano una classe dirigente; sono loro i cittadini nel senso pieno del termine e non c'è distinzione tra Romani e Greci: l'unica distinzione è di classe, la classe dirigente e gli altri. Con questi e altri frammenti di terminologia pertinenti alla Città-Stato, Aristide mette insieme una certa dottrina ellenistica, dato che monarchia e democrazia appaiono ora equivalenti, e così costruisce il contesto di cui ha bisogno. Ai Romani, poiché a loro è rivolto il discorso, dice:"Quello che era noto come il confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro giardino". Esattamente 250 anni dopo, Rutilio Namaziano (vedi anche Casalino Pierluigi, Rutilio Namaziano, Asino Rosso) scrisse:"Urbem fecisti quod prius orbis erat". Ma lo Stato Romano è anche un impero, e l'imperialismo è veramente un'invenzione romana e della sua saggezza lungimirante: soltanto i Romani, infatti, furono capaci di risolvere il problema di mantenere sotto effettivo controllo l'impero conquistato. Il loro successo in ciò fu largamente dovuto alla loro politica di graduale estensione della cittadinanza ai ricchi e ai notabili delle province". Una politica che andrà ad allargarsi in seguito. Così agli occhi di Elio Aristide, e di altri come lui, non c'era più bisogno di giustificare la politica imperialista di Roma o di difenderla da accuse di avidità, di crudeltà o di potenza. Il suo completo successo era anche la sua più completa giustificazione, e la sua stessa esistenza rappresentava uno dei fattori  che favorivano la rapida diffusione del Vangelo, sicché talvolta persino i Cristiani si associarono a quelle lodi che portarono nel tempo al Salus Populi Romani come espressione della grandiosa universalità di Roma. In verità, pure ora si può correre il pericolo, se limitiamo la nostra attenzione ai primi due secoli e alla testimonianza degli scrittori sofistici, di restare con quest'unica impressione unilaterale di pace e di perfezione che gli abili panegiristi desideravano creare. Aristide ci dà soltanto una parte del panorama romano istituzionale, e persino tra i provinciali che erano in grado di godere dei vantaggi della Pax Romana ce ne erano molti che avevano il dominio di una nazione, il cui obiettivo era ancora parcere subiectis et debellare superbos, che attendevano il giorno in cui Roma sarebbe stata abbattuta e l'Asia e l'Oriente sarebbero tornati all'antica potenza.
Casalino Pierluigi

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