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Vittorio Feltri: abbiamo un Premier, Renzi, ma non il governo...

Matteo Renzi avrà tanti difetti, ma non quello di esprimersi con un linguaggio oscuro e contorto. Talvolta dice cose sgradevoli, però se ne assume la responsabilità. Talaltra agisce in modo discutibile, ciononostante non si smarrisce in discorsi astrusi.
Ecco perché piace alla gente, tant'è che i suoi personali consensi salgono, mentre quelli del suo governo scendono. Forse è la dimostrazione che gli elettori di sinistra (e non solo) vogliono esattamente quanto detestano i signori dell'apparato del Pd, gli ex comunisti: l'uomo solo al comando che, odiato quando questi era Silvio Berlusconi, adesso piace. Viceversa il famoso teatrino della politica - oggi animato dai compagni retrogradi - ha disgustato i cittadini di ogni colore. Da tutto ciò emerge un dato netto: il popolo è stanco di bizantinismi, di giochetti tattici e di strategie improntate a visioni ideologiche della politica.
Non sappiamo esattamente per quali ragioni, l'aspirazione più diffusa è ora quella di avere un premier in grado di manovrare il timone, di decidere la rotta in piena libertà e di soddisfare in fretta l'interesse generale. Renzi, a modo suo, incarna il tipo di capo di governo adatto a guidare il Paese. Sarà spocchioso, sarà poco delicato nei rapporti con i parlamentari, con i sindacati e con qualsiasi interlocutore, tuttavia dà l'impressione di avere un piano e la volontà di realizzarlo. Così si giustifica il suo successo, inversamente proporzionale a quello dell'esecutivo. Un fenomeno nuovo, mai registratosi in precedenza. Ciò dimostra che i partiti possono contare sempre meno sulla considerazione di chi vota e sempre più sul polso di chi li comanda e li trascina verso il traguardo.
Quale traguardo? Il rilancio dell'Italia, l'affermazione dell'autonomia nazionale, l'uscita dalla crisi, soprattutto la liberazione dal giogo europeo. Detto questo, bisogna riconoscere che Renzi è oppresso da enormi difficoltà create non tanto dall'opposizione, che gli fa l'occhiolino, bensì dal Pd di cui egli è segretario. È un paradosso. Ma attenzione: i paradossi sono verità acrobatiche e non vanno ignorati. Altrimenti si rischia di non capire niente. L'ex sindaco di Firenze, dal giorno in cui si è messo in testa di irrompere sulla scena nazionale, ha avuto più problemi in casa sua che altrove. Ha combattuto contro la nomenclatura, si è scontrato con le cariatidi sopravvissute alla catastrofe di Botteghe Oscure, infine si è imposto alle primarie, sgomitando tra coloro che gli intralciavano la strada. Poi ha scaraventato nell'angolo il pio Enrico Letta, sopportando critiche su critiche.
Quando si è insediato a Palazzo Chigi era convinto di aver vinto al lotto. Figuriamoci. Era all'inizio delle peggiori tribolazioni. Ancora oggi gli ostacoli maggiori per lui sono domestici. Ogni iniziativa di Matteo in campo legislativo s'infrange sul capoccione dei conservatori democratici (si fa per dire) ovvero i compagni d'antan. Semplice dare addosso al premier: hai nominato ministre un sacco di fighette, quante neanche Berlusconi (noto figologo) era riuscito a esporre in vetrina; hai fatto riforme del cavolo, come quella delle Province, che sembra uno scherzo di carnevale; hai chiuso un ingresso al Senato e ne hai aperto uno alternativo; non hai tagliato le spese e hai segato colui che non dovevi segare, Carlo Cottarelli.
In tutto questo c'è del vero ma non tutta la verità. Che è drammatica: in Italia non si riesce a combinare un tubo perché il sistema è immodificabile e chi tenta di cambiarlo passa per uno che se ne fotte della Costituzione. Cosicché anche Renzi, nonostante abbia le spalle larghe e un entusiasmo giovanile da far tenerezza a noi vecchioni, arranca lungo la salita che conduce alla vetta di ogni riforma. Aggiusta qui. Aggiusta là. Correggi, scrivi e riscrivi: prima di varare qualsiasi provvedimento ci sono da sudare sette camicie.
Ieri alla Camera dei deputati, Matteo si è alzato e ha espresso il proprio pensiero, rivelando di avere le balle piene di battagliare contro tutti i suoi «amici» che non lo fanno lavorare in santa pace. E gli è sfuggito un concetto, ahimè allarmante: occhio ragazzi, se seguitate a sgambettarmi, qui salta per aria tutto e saremo costretti a rivotare. Già. Elezioni politiche. Il cui esito è sempre incerto. La mobilitazione delle urne fa paura a chi siede su uno scranno, a prescindere dal partito di appartenenza. Nessuno è sicuro di riconquistare la poltrona. Addirittura c'è chi teme di non essere ricandidato. Per cui la parola «elezioni» incute terrore. Gli animi si sono subito quietati. Ma fino a quando?
Gli ex comunisti sono testoni. Da domani ricominceranno col mugugno, pronti a ritornare nelle trincee nell'illusione di far secco il capo a costo di rinunciare a montagne di suffragi. Sono pochi coloro che hanno a cuore il Paese e numerosi coloro che guardano al proprio ombelico e basta. Azzardiamo un'ipotesi: Renzi si fida di più di Berlusconi (meno dei berlusconiani) che non dei compagni tradizionalisti.
Il mondo è mutato in fretta. Se un domani il premier, disgustato dal Pd, predisponesse una lista Forza Renzi potrebbe raccogliere un 20 per cento, affondando il Pd. E poi? Dato che non abbiamo ancora approvato una legge elettorale, fileremmo a votare con il cosiddetto proporzionale e ci sarebbe da ridere, anzi da piangere. Uscirebbe dalle urne un tale casino da farci ricordare con rammarico quello attuale. Compagni, smettetela di piantare grane o finirete male. Altro che Forza Italia.

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