Filippo Venturini "Un popolo di custodi"

 


UN POPOLO DI CUSTODI

L’espressione “beni culturali” dovrebbe significare uno degli aspetti più luminosi delle magnifiche sorti progressive delle democrazie occidentali e soprattutto dell’Italia che possiede, come viene spesso orgogliosamente ripetuto, ben il 70% di tali beni.
In realtà, nella cacofonia dell’espressione è pienamente contenuto e chiaramente espresso anche il senso basso e degradato della medesima. Non sfuggirà l’analogia con: “beni immobili”, “beni mobili”, per fare due esempi. Il profitto è una livella.
Addirittura i così detti “beni culturali” vengono definiti: “il petrolio d’Italia”, come a significare che dovrebbero essere la punta di diamante della nostra economia. L’infondatezza e l’insensatezza di questa convinzione è stata già messa in luce: «Naturalmente, ci resteranno i nostri così detti “gioielli”, attività più di apparenza che di vera consistenza, certo capaci di arricchire qualcuno, ma del tutto irrilevanti per la comunità nazionale. Pensiamo al celebrato turismo-attività dequalificante come poche - alla celebratissima moda e “design”, insomma alle piccole attività di lusso, le più vulnerabili in caso di seria crisi economica internazionale e le più inutili per un serio progresso nazionale, ovvero per mantenere l’Italia fra le nazioni industriali avanzate1». In realtà non c’è alcunché di male nel volere trarre profitto dai siti archeologici, dalle chiese, dai castelli, dai palazzi rinascimentali, dalle gallerie d’arte, come attrattive turistiche, del resto chi scrive lavora in questo settore. Il problema è che in un contesto di totale svendita da fallimento, volontariamente scelto, alla fine verranno svenduti anche i gioielli di famiglia, la fine sarà quella di alcuni paesi del Nord Africa o del medio oriente, ove l’immenso patrimonio archeologico da lavoro a guide e custodi, ma in sostanza viene studiato e gestito da stranieri. Anche in questo campo si verrebbe così a realizzare quella profezie di Montanelli che disse, interrogato sul quale futuro esistesse per l’Italia, di non vederne uno per la nazione, ma di vederlo per gli Italiani, poiché bravi nello svolgere mansioni e lavori servili. «Si disegna dunque una regressione verso le condizioni dei paesi in via di sviluppo2».
Va notato, infatti, che in concomitanza con questa generalizzata esaltazione del nostro “patrimonio culturale”, quale possibile fonte di mirabolanti guadagni, si sta procedendo, ormai da anni, a un azzeramento culturale d’Italia, non è difficile accorgersi del sempre maggiore discredito in cui vengono tenute le discipline umanistiche: “il greco, il latino non servono, sono lingue morte”. Questo pensare priva i monumenti di ogni potere attivo, vivificante, li fa cessare d’essere letteralmente “monumenti”, cioè monito, stimolo, sprone, ma anche legame, non solo col passato, ma anche fra quanti contemporanei possono o meglio, potrebbero vantare lo ius sanguinis et soli. Guarda caso, però, proprio quattro paroline latine costituiscono parte del nocciolo di questo problema. Forse non si vuole più che le lingue madri servano, né che serva la storia antica, sempre più circoscritta e limitata nei programmi di insegnamento. E’ o può sembrare paradossale, che anche nelle università, al declino degli studi classici, corrisponda un fiorire di corsi di laurea in “conservazione dei beni culturali”, che mirano a formare tecnici, ma privi di cultura, ma ciò in realtà è perfettamente funzionale a quanto sta avvenendo: un mirato azzeramento culturale, per fare dell’Italia la Disneyland d’Europa, le cui attrattive saranno presto gestite da stranieri esattamente come è successo per l’industria a grande partecipazione statale.

FILIPPO VENTURINI


1 A. Venier, Il disastro di una nazione, Padova 1999, p. 114.

2 Idem, p. 112.